di Massimo Raffaeli
Quando nel giugno del ’92 uscì nella collezione bianca di Einaudi il dittico Il Barbagianni-L’Ignorante, il nome di Philippe Jaccottet, altrove già annoverato fra i massimi poeti del nostro tempo, era ancora perfettamente sconosciuto alla cultura italiana a parte molto rare eccezioni, quelle tuttavia vistose ma in sostanza ufficiose di Diego Valeri, Piero Bigongiari e Mario Luzi che saltuariamente lo avevano tradotto o citato. A presentarlo al nostro pubblico, insieme con un saggio smagliante di Jean Starobinski, era la limpida versione di un giovane poeta che oggi è fra i maggiori, Fabio Pusterla, e infatti non è un caso che proprio Philippe Jaccottet abbia voluto fosse lui a scrivere la prefazione al volume che ora ne raccoglie la produzione creativa nella collana più prestigiosa d’Europa col semplice titolo di Oeuvres (édition étabilie par José-Flore Tappy avec Hervé Ferrage, Doris Jakubec et Jean-Marc Sourdillon, Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”, pp. LXXXIII+1.626, € 66.50).
A suo tempo Pusterla aveva segnalato una poesia spoglia di ogni manto regale, ridotta a un sussurro a fior di labbra, così lontana da ogni tentazione eroica da sfiorare l’annullamento nella quotidianità e nel grigiore, una poesia sempre a misura d’uomo e, si direbbe, tanto “naturale” da sembrare fondata sulla difficoltà ovvero sulla fragilità e l’incertezza della percezione: una poesia di luce mai sfolgorante, anzi di persistenti luci basse, di toni nemmeno smorzati ma sempre pacati, una voce costantemente modulata sul registro più usuale a riprova del fatto, come scrisse una volta lo stesso Jaccottet, che chi alza la voce lo fa più che altro per coprire il rumore fastidioso dei suoi dubbi inconfessabili.
Peraltro un suo verso celeberrimo, che vale una insegna e insieme una dichiarazione di poetica, afferma l’effacement soit ma facon de resplendir (è un verso tratto da L’Ignorant, 1958), fissando paradossalmente nella coscienza della più ovvia opacità esistenziale l’unico splendore davvero accessibile agli esseri umani. A quel memorabile esordio italiano sono seguiti vent’anni di traduzioni sia dei versi sia delle prose liriche (una distinzione che, col tempo, Jaccottet ha eliminato sentendole due modalità dedotte da una identica scaturigine), su cui si sono misurati per esempio Antonella Anedda (Appunti per una semina: poesie e prose 1954-1994, Fondazione Piazzolla 1994; La parola Russia, Donzelli 2004), Gianluca Manzi (Elementi di un sogno, Hestia 1994; L’oscurità, Fazi 1998), Albino Crovetto (Arie, Marcos Y Marcos 2000) e ovviamente Pusterla che rimane la voce italiana di Jaccottet (Libretto, Scheiwiller 1995; Paesaggi con figure assenti, Dadò 1996; Austria, Bollati Boringhieri 2003; E, tuttavia-Note dal botro, Marcos y Marcos 2006) dentro una consanguineità e in una fitta trama intertestuale, vale a dire in un dialogo mai interrotto, che ha ispirato di recente lo studio di Mattia Cavadini, Il poeta ammutolito. Letteratura senza io: Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla (Marcos y Marcos 2004). Nella prefazione a Oeuvres, intitolata Il partito della chiarezza, scrive infatti il poeta ticinese a proposito del maestro: “Un ritmo che è divenire, flusso, movimento, musica, passaggio, metamorfosi, tutto ciò su cui, appunto, poggia la poesia che dà voce al nostro fragile rapporto col tutto di cui facciamo parte”.
La poesia di Jaccottet è destituita di nomi propri, di fatti che non siano i più domestici, lontana dal clamore pubblico come dalle orifiamme secolari, orfana persino delle azioni in cui dopo tutto si estroflette o si esibisce la vita, una qualsiasi vita. E’ la poesia di chi osserva, si rende disponibile e intanto registra lo stato di perpetuo equilibrio/squilibrio entro e fuori di sé, nello stesso momento in cui si trova a esistere e a dare, di ogni attimo vissuto, non già un bilancio ma soltanto un frammento utile all’esame di coscienza. Qui la poesia, è alla lettera, il diagramma di un attimo e insieme il decorso di una giornata, di una qualunque giornata che, per ideale metonimia, vale ogni volta la vita intera. I versi e le prose di Jaccottet non ostentano mai le proprie credenziali ma le ottanta pagine della Chronologie firmata con la sua supervisione da José-Flore Tappy ci dicono che egli ha vissuto con estrema intensità, sia pure sottotraccia, la vita del suo secolo. Nato nel ‘25 a Moudon, un borgo medievale della Svizzera francese, studia a Losanna e presto si imbatte in un maestro, il poeta Gustave Roud, alla cui lezione sarà sempre fedele mentre scopre i libri mastri di tutta una vita, le opere di Holderlin e di Rainer Maria Rilke; nel dopoguerra è a Parigi, dove si lega fra gli altri a Francis Ponge e inizia la sua attività di pubblicista e traduttore, specie dall’italiano e dal tedesco: nel suo catalogo figurano Thomas Mann, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Luis de Gongora, Ossip Mandelstam, Robert Musil (di cui doppia in integrale L’uomo senza qualità) e, del ’55, una insuperata versione dell’Odissea. Il ’53 è l’anno del trasferimento a Grignan, un villaggio della Francia meridionale dove vive tuttora, a due passi dal petrarchesco Mont Ventoux e a pochi chilometri da Isle-sur-la-Sorgue in cui visse René Char, un poeta che per temperamento e stile non potrebbe essergli più opposto.
Quanto al lavoro di Jaccottet, quel che resta sulla pagina (perché dal pur cospicuo apparato di Oeuvres veniamo a sapere che si tratta di un dissimulatore di varianti, di un distruttore delle redazioni intermedie dei propri testi), quel che si deposita nei versi è appena un residuo, cioè la traccia di un metabolismo percettivo che neutralizza tanto l’invadenza della Storia (il poeta non per caso ha rifiutato Requiem – qui proposto in appendice – poema del ‘47 sulle stragi naziste dove continua a sospettare una certa oltranza declamatoria) quanto l’ambigua riconciliazione con la Natura. La sua voce nasce giusto sul discrimine, nella terra che pare di nessuno ed è invece la sua sola terra di individuo in cammino e in ascolto. Basta andare ancora una volta all’archetipo L’Effraie del ‘53, Il Barbagianni nella versione di Pusterla, e inoltrarsi nel folto di un bosco che sembra spaesato, remoto dai sentieri battuti: “Sembra irreale in marzo la chiarezza/ di questi boschi, insiste appena, tanto tutto è fresco./ Gli uccelli sono scarsi e dentro il ceduo/ distante, che rischiara il biancospino,/ giusto canta il cucù. Fumate scintillanti/ portano in alto quel che si è bruciato/ di un giorno. La foglia morta serve le viventi/ ghirlande, e per i sentieri più impervi, se li segui,/ tra i rovi, giungi al nido dell’anemone,/ chiara e comune come la stella del mattino//”. Sguardo e voce qui non possono né sanno differire, sono finalmente una cosa sola e dunque si identificano nella parola che anima i versi pulsando dall’interno. Nella più ricca monografia che gli sia stata dedicata (Jean Pierre Vidal, Philippe Jaccottet, Editions Payot, Losanna 1989: niente di simile esiste in italiano), viene incluso un omaggio di Peter Handke che a un certo punto, trattando di quella inimitabile cadenza, parla di una sua “meravigliosa irresolutezza” ed è, di fatto, la stessa di un poeta che non si dà altro compito se non di ascoltare, osservare, infine vedere. Capitò a Jaccottet di pensare a un poeta come a un servitore del visibile: questa è forse la definizione che più gli somiglia.
[Questo articolo è uscito su «Alias – il manifesto»].
[Immagine: Philippe Jaccottet (gm)].
“Peter Handke che a un certo punto, trattando di quella inimitabile cadenza, parla di una sua “meravigliosa irresolutezza” ed è, di fatto, la stessa di un poeta che non si dà altro compito se non di ascoltare, osservare, infine vedere” (Raffaeli)
Oh, sì, come avremmo bisogno di questi poeti in Ucraina, in Siria, in Irak, a Gaza (in questo momento!). Al posto di tanti inviati speciali.
BOZZA:
Punti interrogativi
Scrivere ancora su Gaza.
Pensarci quando la bombardano gli israeliani.
Fare dell’ironia: (ogni tanto).
Come quando una bestia s’inalbera e il contadino la bastona, gli israeliani…
Maledire lo Stato di Israele (ma anche quelli che su esso ci campano).
Maledirlo per come bombarda e come giustifica le sue bombe.
Essere impermeabili alle accuse di antisemitismo e di filo jihadismo
che fioccano appena si apre bocca
su questa lontana orrenda incacrenita faccenda.
Maledire i suoi sostenitori.
E fossero solo gli USA e gli europei.
Maledire o fare del sarcasmo sui pacifisti che sanno solo…
Fare altro sarcasmo sui letterati
girando il coltello nella propria piaga.
Oggi (9 luglio 2014) Massimo Raffaelli
che è serioso ma pur pulito nel linguaggio e stimabile
su «Le parole e le cose»
invaghito o semplicemente per dovere d’ufficio
in occasione della uscita nella Pléiade
«la collana più prestigiosa d’Europa»
delle «Oeuvres» di Philippe Jaccottet
ha scritto che Peter Handke
(di cui i vecchi si ricordano
perché ai tempi della guerra in ex Jugoslavia
difese scandalosamente la Serbia bombardata
anche grazie al governo di D’Alema)
«trattando di quella inimitabile cadenza
[di Jacottet, s’intenda],
parla di una sua “meravigliosa irresolutezza”
ed è, di fatto, la stessa di un poeta
che non si dà altro compito
se non di ascoltare, osservare, infine vedere».
Ascoltare osservare vedere…
Non avendo in mente più nulla
che possa tirarci fuori
(tutti o almeno una parte dei viventi)
da quest’ansa melmosa e puzzolente
in cui la storia (il fiume della…seee!) ci ha ammucchiati e ammutoliti
a me
– vanitosamente, lo ammetto
(e mi rivolgo a voi letterati miei concorrenti)
Retoricamente, lo so
(e lo dico a voi critici indisponenti)
Disperatamente, lo riconosco
(davanti a voi politici come me morenti)
è venuto di commentare:
« Oh, sì!
Come avremmo bisogno di questi poeti
in Ucraina, in Siria, in Irak
a Gaza (in questo momento!)
al posto di tanti inviati speciali».
Come avremmo bisogno che le nostre orecchie ascoltassero i boati di una bomba.
Come avremmo bisogno che i nostri occhi osservassero le macerie degli edifici.
Come avremmo bisogno di vedere i corpi dei morti e i corpi dei vivi che hanno ordinato quelle morti.
Come noi ordiniamo al salumiere tot grammi di carne sanguinolenta.
Come avremmo bisogno di essere noi
capaci di odiare pensare protestare
e non solo (dopo, sempre dopo) di esclamare: Ahi! Ahi!