di Claudio Giunta
Il libretto di Martha Nussbaum sulla crisi dell’istruzione umanistica (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, € 14) inizia con due citazioni, una da Tagore e l’altra da Dewey, che lamentano la crisi dell’istruzione umanistica. Visto che Tagore scrive nel 1917 e Dewey nel 1915, leggendo il libro della Nussbaum non ci si riesce mai a sbarazzare del tutto di questo retropensiero: che sia in fondo sempre lo stesso piagnisteo, e che se un secolo fa gli umanisti dicevano più o meno le stesse cose che dicono oggi non ci sia veramente di che preoccuparsi.
In parte è così: è sempre lo stesso piagnisteo, anche piuttosto stucchevole. Ma in parte le cose sono effettivamente cambiate, e non è inutile prendere nota di questi cambiamenti, e rifletterci sopra. Ciò che è cambiato, tra gli anni di Tagore e i nostri, è soprattutto questo: che la scienza e la tecnologia hanno rivoluzionato il modo in cui viviamo; e che la vita, nelle società occidentali, è diventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo (filosofi, storici) ma di tecnici capaci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici).
Conseguenza: una formazione umanistica ‘generica’ è oggi ancora meno spendibile di quanto non fosse ai tempi di Tagore e di Dewey. Le arti, scrive la Nussbaum, «sono essenziali per l’obiettivo della crescita economica e di una sana cultura aziendale […]. L’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte e creative; la letteratura e le arti stimolano queste competenze e quando esse mancano la cultura aziendale si indebolisce in fretta». Ammesso e non concesso che lo scopo di un’educazione umanistica sia quello di far fiorire la «cultura aziendale» (qualsiasi cosa sia), affermazioni del genere ricordano troppo quelle che si leggono nei siti dei dipartimenti di Humanities in America e in Europa, e che stanno lì per attirare gli studenti che vorrebbero tanto fare i manager ma non sanno la matematica. Un dipartimento di filosofia non deve produrre dei manager, deve produrre degli studiosi di filosofia; se viene fuori un manager, benissimo, ma impostare il discorso sullo slogan «Guardate che possiamo anche aiutarvi a fare soldi!» vuol dire truccare le carte.
Per cui si tratta di capire proprio questo: se una formazione umanistica abbia un senso in sé, al di fuori della (e magari contro la) «cultura aziendale». La Nussbaum sostiene che i buoni libri servono a formare dei buoni cittadini democratici. Questo è senz’altro vero, anche se la più raffinata cultura umanistica ha spesso prosperato nelle dittature: vale a dire che non è tanto questione di che cosa si studia, ma di come, e che anche i buoni libri possono dare pessimi frutti. Ma il problema è che la formazione dei cittadini compete e interessa agli Stati. In un’epoca nella quale, almeno in Occidente, gli Stati diventano sempre più deboli e più poveri, e popolati sempre più da anziani da assistere, non da giovani da educare, è difficile immaginare chi potrebbe accollarsi questo investimento a fondo perduto in ‘cultura disinteressata’.
La Nussbaum non dà risposte, o meglio, le sue risposte suonano come pii desideri, e certi suoi pii desideri suonano un po’ sinistri: «Ci sono tante opere d’arte che stimolano simpatie inopportune. I bambini a cui si chiede di allenare l’immaginazione leggendo letteratura razzista, o coltivando l’oggettivazione pornografica della donna, non crescono certo in maniera consona alla cittadinanza democratica […]. La componente immaginifica della formazione democratica richiede un’attenta capacità di selezione». Non so bene a chi pensi la Nussbaum parlando di «opere d’arte» razziste o pornografiche messe tra le mani dei bambini, ma qui il suo zelo democratico va oltre la political correctness (onnipresente, nel libretto: ed estenuante) e, diciamo, stinge nella censura.
Forse per smetterla col piagnisteo bisognerebbe ridescrivere le cose in un modo completamente diverso. Negli ultimi due secoli i romanzieri, i poeti, gli artisti, i filosofi hanno ben lavorato. Non è solo la tecnologia ad aver cambiato il nostro modo di vivere: sono anche le loro idee, diventate col tempo sentimenti comuni, nozioni comuni. Grazie al fatto che nello stesso periodo fiumi di denaro hanno inondato l’Occidente, le loro opere sono state studiate, disinteressatamente, nelle nostre scuole e università, e hanno contribuito a formare quelli che chiamiamo ‘umanisti’. Anche loro hanno ben lavorato. Ora le cose sono un po’ cambiate. Quell’età dell’oro non tornerà. Ma forse a guardare meglio non era tutto oro. E non è detto che il futuro ci riservi soltanto fango. È probabile che il curriculum umanistico continuerà ad esistere, ma un po’ ai margini rispetto a quella che si chiama ‘formazione professionalizzante’. In realtà, era così anche in passato, è sempre stato così. Forse quello su cui bisogna scommettere è l’umanesimo diffuso, la trasmissione dell’arte e delle idee al di fuori delle aule scolastiche. Se uno si guarda bene attorno – e vede i film, ascolta le canzoni, legge i blog – qualche tenue segno di speranza lo trova.
[Una versione più breve di questo articolo è uscita su Saturno, il supplemento culturale del Fatto Quotidano]
“e che la vita, nelle società occidentali, è diventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo (filosofi, storici) ma di tecnici capaci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici).”
1. Scusi, in che senso “sollecitare le competenze…”? Forse vuole dire “offrire posto di lavoro a chi possiede le competenze…”? Ma esistono anche altri tipi di sollecitazioni, oltre a quello della ricerca di un’occupazione, no?
2. Che cos’è un intellettuale? Non le pare che la sua terminologia rigidamente separatoria introduca una suddivisione di cui non abbiamo bisogno? Non sarebbe meglio se tutti i tecnici fossero al contempo filosofi, storici? O deve essere prerogativa solo di una setta la capacità, come lei dice, “di interpretare il mondo”?
“Per cui si tratta di capire proprio questo: se una formazione umanistica abbia un senso in sé, al di fuori della (e magari contro la) «cultura aziendale». La Nussbaum sostiene che i buoni libri servono a formare dei buoni cittadini democratici. Questo è senz’altro vero, anche se la più raffinata cultura umanistica ha spesso prosperato nelle dittature: vale a dire che non è tanto questione di che cosa si studia, ma di come, e che anche i buoni libri possono dare pessimi frutti.”
1. Davvero il “senso in sé” della formazione umanistica risiede solamente nel formare cittadini democratici? In una visione di questo tipo, non sarebbe meglio far studiare solo filosofia o storia del diritto o filosofia del diritto, e non – per esempio – letteratura? Non servirebbe, invece, la letteratura anche a potenziare la nostra intelligenza inter- e infrarelazionale, a mettere alla prova la nostra sensibilità, a potenziare la nostra immaginazione, a sviluppare in noi comprensione e amore nei confronti degli altri, a farci riscoprire un legame col mondo, cioè una re-ligione, che abbiamo perso, o anche solo a una di queste cose che rientrano male o poco nel concetto di “cittadini democratici”?
2. Invece di che cosa si studia o di come si studia, non sarà piuttosto perché si studia la questione?
“In un’epoca nella quale, almeno in Occidente, gli Stati diventano sempre più deboli e più poveri, e popolati sempre più da anziani da assistere, non da giovani da educare, è difficile immaginare chi potrebbe accollarsi questo investimento a fondo perduto in ‘cultura disinteressata’.”
1. Non crede che se “gli Stati diventano sempre più deboli e più poveri” il motivo sia da ricercare anche nella mancanza di “investimento a fondo perduto in ‘cultura disinteressata’”? O semplicemente nell’avere i popoli che formano questi Stati coltivato poco la ‘cultura disinteressata’? Che cioè non sia il denaro quello che ci manca, ma un diverso atteggiamento nei confronti di esso?
2. Se quello che lei dice avviene “in Occidente” soprattutto, e meno in Oriente, non dovrebbe forse questo insegnarci che la strada dell’Oriente non è più la nostra, e non può più esserlo appunto perché è dell’Oriente, e che forse sarebbe meglio reimpostare del tutto il nostro modo d’intendere la vita se non vogliamo diventare a poco a poco e a nostra volta il Terzo Mondo di qualcun altro?
“È probabile che il curriculum umanistico continuerà ad esistere, ma un po’ ai margini rispetto a quella che si chiama ‘formazione professionalizzante’. In realtà, era così anche in passato, è sempre stato così. Forse quello su cui bisogna scommettere è l’umanesimo diffuso, la trasmissione dell’arte e delle idee al di fuori delle aule scolastiche. Se uno si guarda bene attorno – e vede i film, ascolta le canzoni, legge i blog – qualche tenue segno di speranza lo trova.”
1. Crede davvero che la “tenue speranza” sia una via politica utile a valorizzare la cultura umanistica? Mi potrebbe spiegare, nel suo progetto, chi sarebbe destinato a diffondere l’umanesimo e a trasmettere l’arte, e come?
2. Crede davvero che fosse così anche in passato? Non ritiene invece che in passato (poco prima o poco dopo del 1915 o del 1917) l’alternativa fosse più o meno tra la cultura (specializzata, sì, ma con un occhio alla totalità dei saperi) da una parte e religiosa ignoranza dall’altra? E che entrambe fossero rispettivamente meglio della cultura specializzata senza occhio alla totalità dei saperi da una parte e insipienza laica, se non cinica, dall’altra?
Infine, più in generale, crede davvero di essere riuscito a convincere un lettore medio (e mediamente disinteressato, come di norma, a ciò di cui lei parla) che il fatto che il “curriculum umanistico” rimanga ai margini rispetto a una “formazione professionalizzante” sia un fatto negativo? O non crede piuttosto, come sembra quasi che lei voglia sottintendere, che è giusto così, che in fondo un po’ ce lo meritiamo?
Avevo letto un suo articolo analogo sul Sole di questa domenica, e mi era sembrato molto più sottile e argomentato di questo. Vi si proponeva, se non ricordo male, non tanto di umanizzare la cultura diffusa (impresa che mi sembra ancora più utopistica di quella auspicata della Nussbaum, dato che si scontra con le forze autonome del mercato) quanto di laureare meno umanisti all’università e investire invece massicciamente sull’istruzione superiore. In poche parole: formare più umanisti-amatori (gente che poi possa fare tutt’altro nella vita, ma che si porti dietro il bagaglio di una buona cultura generale) e meno umanisti-professionisti. Obiettivo realistico e sacrosanto, e che in fondo ripropone il vecchio motivo retorico della cultura umanistica che serve alla vita perché parla della vita, e fluidifica la pericolosa opposizione tra “intellettuali” e “tecnici”.
Politicamente, cioè per lo stato, dovrebbe essere più facile intervenire sui programmi scolastici che sulle programmazioni di editori e produttori che comunque dovranno sempre obbedire a logiche commerciali. La vera posta è il canone della cultura generale, che, insieme al senso critico per metterlo in questione, si forma a scuola e si coltiva per il resto della vita. Sul fatto che dalla cultura diffusa vengano poi fuori anche cose eccellenti sono assolutamente d’accordo. Quello che deve fare questo sito è proprio aiutarci a trovare questi tesori e ad aggiornare il canone con il meglio della cultura contemporanea ancora non canonizzata, suggerendo (e qui interviene il ruolo degli specialisti) libri da leggere, film e serie televisive da guardare, buona musica da ascoltare. E, possibilmente, dirci perché (la recensione di Simonetti a Sortino era da questo punto di vista esemplare: mi è venuta voglia di leggere un libro che non avrei comprato).
Un’ultima nota: nell’articolo dei Sole lei riconosceva di usare solo come un pretesto il libro della Nussbaum, che non è certo simpatica, ma non è nemmeno una scema (un libro come la Fragilità del bene giustifica un’intera carriera intellettuale, e legittima chi l’ha scritto a parlare di questi temi con autorevolezza). Vi sono troppe differenze tra il sistema educativo americano e il nostro per comparare diagnosi e terapie. Negli Stati Uniti, ad esempio, i primi anni di università fanno da sempre le veci della scuola superiore, la cultura si fonda su un principio intimamente “protestante” (il libero esame di testi e opinioni) molto lontano dal nostro senso cattolico della tradizione, e la retorica della cittadinanza democratica, per ragioni storiche e culturali, ha un senso abbastanza diverso. Insomma, coglierei lo spunto, e abbandonerei la supponenza un po’ facile.
Per riassumere: una scuola superiore che trasmetta cultura umanistica generale, attraverso un solido canone e, ovviamente, bravi insegnanti; un’università che formi professionisti della ricerca e dell’insegnamento umanistico, e formi il canone; più spazi di critica “generalista” che coinvolgano professionisti e amatori per la verifica e l’aggiornamento dei valori.
So che il mio intervento potrà sembrare fuori tema, ma dal momento che negli articoli come questo – proponenti una revisione del nostro sistema culturale, della sua impostazione – c’è sempre immancabilmente (e giustamente) l’indicazione a risalire alle origini della questione, e tali origini vengono individuate nell’organizzazione della scuola superiore, mi sento di affermare qualcosa in cui credo, che tutti sanno ma tutti fingono non sia realmente importante:
qualsiasi riforma scolastica in Italia deve di necessità partire dal nodo dell’insegnamento di Religione.
E’ spia di abissale oscurantismo e di indebita congiunzione fra l’organismo statale e quello extrastatale vaticano, che la suddetta disciplina non sia denominata (e insegnata come) Storia delle Religioni e non venga gestita da docenti laureati in materie umanistiche ad indirizzo storico (o di teologia) rigorosamente laici, rispondenti in via esclusiva, per la posizione giuridico-professionale, allo Stato italiano.
Se non si parte da questo nodo, inutile parlare di ripensamenti, di messe a punto, di allargamenti visuali, di allineamento agli altri Stati democratici, cis e ultraoceano. Ogni chiacchiera va nell’aria, se la nostra Scuola è abitata (anche solo per un’ora a setttimana) dall’indottrinamento.
Grazie a LPLC per questo spazio.
A Fiorella D’ERRICO
Sempre benvenuto un intervento contro l’attuale modo d’insegnamento della religione.
A Signorina ELSE
Sì, qui non direi di essere stato né sottile né argomentato: colpa mia, ma colpa anche del fatto che il giornale su cui era pubblicato l’articolo mi aveva dato spazi molto risicati; e colpa del libro della Nussbaum, che mi sembra poco interessante (se non come sintomo di un disagio, che in gran parte condivido, peraltro), volontaristico e a volte – per esempio quando propone di usare la filosofia per ingentilire i manager – proprio sbagliato. Sì, direi che quel tipo di ingentilimento, o di acculturazione, deve spettare alla scuola superiore, e prima ancora alla scuola dell’obbligo: mi pare velleitaria l’idea che lo spirito umanistico possa risvegliarsi a vent’anni, mentre uno studia ingegneria o chimica – tutto può darsi, naturalmente, ma impostare un sistema educativo su questa pretesa non mi sembra una scelta sensata. Certamente, la Nussbaum parla di Stati Uniti e non di Europa, e i due sistemi sono troppo diversi per un confronto. Ma sulla retorica delle humanities nei college americani (cioè sul loro uso alla stregua di un placebo da somministrare a tutti, per principio, nella convinzione che un po’ di umanesimo ‘faccia bene’) avevo e ho presente un libro che mi ha fatto riflettere: l’autore si chiama Professor X e il titolo è “In the Basement of the Ivory Tower”, Viking 2011. Quanto al resto, sono d’accordo con lei.
A Roberto GERACE
Condivido molte delle cose che dice. In particolare, il fatto che la cultura umanistica non dovrebbe soltanto formare dei buoni cittadini democratici ma anche permetterci di sviluppare amore e condivisione con i nostri simili (l’accento sullo spirito democratico come frutto dell’educazione umanistica è, mi pare, soprattutto nel libro della Nussbaum); il fatto che non sia questione di quanto denaro abbiamo ma di come lo spendiamo, e che sarebbe opportuno, come dice lei, un investimento a fondo perduto nella cultura disinteressata; e il fatto che in passato l’alternativa fosse, più o meno, tra cultura specializzata ma “con un occhio alla totalità dei saperi” e “religiosa ignoranza” (non saprei dire se le cose andassero meglio o peggio rispetto ad adesso: diverse erano le condizioni e diverse le reazioni a quelle condizioni, non parlerei di meglio o di peggio). Quanto al resto, io considero sommamente importante una formazione umanistica anche e soprattutto per le persone che intraprenderanno una professione non-umanistica. Per questo, più che sulla (secondo me tardiva) formazione umanistica da specialisti nell’università io insisto di più e più spesso sulla formazione di base, nella scuola: non saprei chi, se non un buon insegnante, pagato correttamente, possa essere “destinato a diffondere l’umanesimo e a trasmettere l’arte”. Ma non mi sembra neppure insensato sperare che i nuovi mezzi, e le nuove opere d’arte, possano dare a un pubblico più vasto di quello attuale la possibilità di avvicinarsi a quei ‘prodotti dell’umanesimo’ che un tempo erano segregati nei musei e nelle biblioteche, e anche di criticare quei prodotti. Tuttavia, sono abbastanza pessimista, soprattutto in relazione alla scuola (un pessimismo che lei fosse scambia per connivenza, o tenerezza nei confronti del carnefice: mi creda non è così).
Sono molto contento e della sua risposta e di essere d’accordo con lei. In particolare sul tema della scuola dell’obbligo, com’è venuto fuori dai commenti, mi sembra che siamo sintonizzati su frequenze molto simili.
Se adopero toni duri, è proprio perché temo molto il suo pessimismo: ho sempre paura che il passo da esso all’identificazione con l’aggressore sia più breve di quanto pensiamo o ci accorgiamo. Forse, insisto, data la situazione internazionale e la crisi di tutte le autodescrizioni che il mondo (occidentale) ha portato avanti finora, non c’è momento migliore per mostrarsi aperti, intraprendenti, sfrontati (ed è per questo, ad esempio, che ho molto apprezzato l’articolo di Raffaele Donnarumma di qualche giorno fa). Mi sbaglierò, ma mi pare che ci sia sempre tempo per il pessimismo, magari a casa propria, in ciabatte davanti al caminetto, e che invece nel discorso pubblico si debba lasciare spazio più alle rivendicazioni che ai lamenti.
Volevo, infine, chiederle un parere proprio sull’insegnamento scolastico. Qualche anno fa lessi un articolo di Mengaldo all’interno di “Giudizi di valore” in cui l’autore proponeva di smettere l’approccio storicistico nell’insegnamento della letteratura, e di praticare invece molta più lettura diretta (in classe e a casa) dei testi. Tra l’altro, e questo mi sembrò molto interessante, lettura di testi non obbligatoriamente italiani, ma di classici di ogni tempo (ricordo in particolare il riferimento a Tolstoj, la cui lettura Mengaldo preferiva alla notizia dell’abate Zanella). Ora, non saprei bene come delineare un canone in un campo così vasto, né in fondo sono del tutto convinto della necessità di delinearne uno proprio e solo per la scuola, però mi sembra importante insistere sulla lettura dei testi, anziché sullo studio della storia letteraria (che io inserirei tranquillamente nelle ore di storia, magari aumentate di un’unità). Per come si fa la storia letteraria a scuola in questo momento, la cosa migliore che mi sentirei di augurare a uno scrittore contemporaneo che amo credo che sarebbe di non essere inserito tra i Classici con la maiuscola dei manuali. Non (solo) perché si fanno male, ma proprio perché la costrizione del manuale mi sembra la via più svelta per farli odiare (o per farli amare non letti). Che ne pensa?
@ Giunta, Gerace
Simpatizzo molto con la vostra serietà, e con il fatto stesso che qui si discuta di questi problemi; però c’è qualcosa che non mi convince. Quando ho letto «la cultura umanistica non dovrebbe soltanto formare dei buoni cittadini democratici ma anche permetterci di sviluppare amore e condivisione con i nostri simili» mi è venuto in mente quell’aforisma di Flaubert: «La musica ispira sentimenti di pace ed armonia. Es.: La Marsigliese» (cito a memoria dal Dizionario dei luoghi comuni, ma chissà com’è il testo autentico). Chiedere tanto, o meglio tanto poco, alla letteratura è una mossa che la dice lunga sul senso di accerchiamento che l’umanesimo avverte. Bisognerebbe avere il coraggio di non aspettarsi nessuna risposta alla letteratura, ma star lì ad ascoltare le sue domande – alle quali siamo noi a dover dare delle risposte. Se la scuola diventa il luogo in cui la letteratura (e forse, la cultura in genere) è la fonte materiale di precetti edificanti, vuol dire che abbiamo un bisogno infantile di essere diretti e guidati, e siamo incapaci di reggerci sulle nostre gambe – cose per cui, del resto, le prove sovrabbondano. L’altra faccia dell’umanesimo moraleggiante e filantropico è una nostalgia di autorità premoderne. Il vero problema, la vera ricchezza è proprio quello che Nussbaum cerca di esorcizzare: cioè che Shakespeare o Dante possono essere sessisti, razzisti e sanguinari, ma che lì dentro c’è della verità e che, prima ancora, ci piacciono. Non c’è nulla di più avvilente che ridurre l’esperienza estetica alla proiezione di sé o alla ricerca ossessiva delle proprie radici, della propria identità, della risposta ai propri bisogni, nella conferma di quelle quattro cose che già pensiamo di sapere e che sono, invece, il marchio della nostra ignoranza. Per quanto possano pretenderlo, le opere canoniche non sono libri sacri. Il bello è semmai lo scandal, per cui l’esperienza estetica è uno dei modi più coinvolgenti e ambigui per mettersi nella testa degli altri – e di altri che, almeno in parte, NON vorremmo essere: Edipo, Macbeth, Otello, don Chisciotte, Raskolnikov…
Come sappiamo da un bel po’, la letteratura ci serve (e uso il verbo in tutta la sua improprietà) proprio perché ha qualcosa di inutile, dove tutto deve soggiacere alla legge dell’utile.
@ Donnarumma:
O non la capisco abbastanza bene, oppure sono completamente d’accordo con lei. Non potendo avere evidenze della prima ipotesi, svilupperò la seconda.
Secondo me lo scandalo è l’altra faccia della comprensione e dell’amore: con amore non voglio intendere un sentimento filantropico di benevolenza nei confronti del prossimo tuo (che semmai, ma non per forza, ne può essere un effetto), ma l’esercizio della mente nell’atto stesso di “mettersi nella testa degli altri”, come dice lei, e di riconoscere dentro se stessa (almeno in potenza) altrettanti Don Chisciotte e altrettanti Raskolnikov di quelli che legge nella pagina stampata. L’accezione che adopero è più o meno quella spinoziana: in Spinoza non si dà amore senza conoscenza vera, cioè, se vogliamo, senza quella “verità” propria anche alla grande letteratura di cui ha parlato lei riferendosi a Dante e a Shakespeare. Riconoscere questa potenzialità vuol dire riconoscere un insieme di fenomenologie condivise dell’animo umano: che è quanto dire esercitare l’em-patia, ossia una forma di re-ligione. Non mi passa neanche per la testa di buttare fuori dalla porta l’ora di religione cattolica e di vedermela rientrare così dalla finestra.
Insomma, la religione è il metodo, non è la risposta. O, se preferisce così, è la domanda.
So che lei ha collaborato alla stesura di due manuali di storia letteraria, perciò con vivo interesse giro anche a lei la questione che ho posto a Claudio Giunta nel mio precedente commento: che ne pensa?
Dimenticavo: lei dice “ci piacciono”: ha ragione: la letteratura è un gran bel gioco.
@ Gerace
Spinoza mi starebbe benissimo. Ma il problema è che se per lui occore «neque ridere, neque fleere, sed omnia intelligere», nelle esperienze estetiche si comprende «ridendo et fleendo». Se la conoscenza è amore, si tratta di un amore molto torbido, mescolato di pulsioni oscure. E se c’è empatia (come credo sia giusto e inevitabile), la tipologia dev’essere così vasta e sfuggente, da impedire interpretazioni univoche. Preferisco evitare psicologismi, ma se ci pensa, un’opera davvero grande sa produrre una specie di sindrome di Stoccolma (uno dei casi per me più perturbanti: Le benevole di Littell).
La richiesta di una letteratura immediatamente educativa, cioè i cui contenuti siano il fondamento della retta società, è molto forte a scuola (io mi sono occupato solo di scuole superiori, preciso, ed è a quelle che penso. Per elementari e medie il discorso è ancora più complicato, e non mi ci metto). Ho sempre opposto che è una via facile, e quella è la risposta, appunto, delle religioni positive, o della politica, o di qualunque forma di autorità. Ed è una via regressiva (molto comoda per gli intellettuali, perché restituisce loro allucinatoriamente il ruolo di Maestri, Legislatori, Semafori dello Spirito, risarcendoli da un senso frustrante di inutilità sociale). Invece, la scuola dovrebbe fare una cosa enormemente più difficile e più necessaria: impiantare stabilmente un terreno in cui una classe ha gli strumenti per interpretare un testo, e far sì che ciascuno si dìa le sue risposte da sé – risposte, dico, su questioni che non sono cosa voglia dire «gentile» nello stilnovo o se Leopardi fosse o meno romantico. Il mio esperimento classico è il XXVIII canto dell’Inferno, dove appare Maometto (soprattutto i vv. 22-42: http://it.wikisource.org/wiki/Divina_Commedia/Inferno/Canto_XXVIII; se ha il commento di Chiavacci Leonardi le spiega un sacco di cose). Demonstrandum: persino quando Dante tratta con un disprezzo feroce e criminoso l’altro, dimostrandosi incapace, come pressoché tutta la cultura del suo tempo, di comprenderlo, non può fare a meno da impararne (e infatti, ci ha nascosto di essersi ispirato al Libro della scala, ma non ci nasconde affatto il suo rispetto per Avicenna, Averroè e il Saladino –il quale, oltretutto, deve la sua gloria anche all’aver ammazzato cristiani). Quello che faccio giocare è la contraddizione aperta – persino in un fanatico del sistema come Dante. Ma qui il discorso si farebbe lungo e, richiederebbe tutto un pistolotto su storicizzazione e attualizzazione.
Aggiungo che la scuola ti mette di fronte a persone che un giorno, se va bene, faranno gli informatici, i parrucchieri, le responsabili del marketing: sono proprio loro (e credo che Giunta sia d’accordo) a importi di giustificare il valore della cultura umanistica, che sarebbe quello di aprirci le teste (non nel senso di Inf. XXVIII, sperabilmente). Anche se a volte i più smarriti sono proprio gli umanisti di professione, minacciati dalla Scilla dell’oltranzismo profetico ridotto a misura da cameretta (ah, la Cultura! l’Arte! la Poesia! la Verità!) e dalla Cariddi dello snobismo (son chiccherie, che volete ne capiscano quelli lì, sempre davanti al computer o alla televisione?), della difesa del Canone (tutti armati di corazza e spadone a deporrre corone votive ai piè dei cenotafi de’ Sommi), e dello sbraco pop (il più grande poeta del Novecento? De Andrè!) – oppure, se siamo all’università, tra filologismo ottuso, mortificante, e chiacchiera sfocata, un po’ alla moda ma neppure troppo amabile. (E c’è infatti il problema, come dice Giunta, dell’«assedio del presente»: ma qui, davvero, ce ne sarebbero di cose da dire…).
Insomma: a differenza di Giunta (di cui apprezzo il pragmatismo e il richiamo alla serietà e al ‘materialismo’), e per l’esperienza che ho avuto delle scuole superiori (indiretta) e dell’università (diretta), sarei per un atteggiamento più combattivo e persino più utopistico. Ma sì!, solo nel pericolo ci si salva. Come docenti, possiamo chiederci cento: magari riusciremo a dare dieci.
P.S. Se, come in tutti i giochi, si fa molto sul serio.
@ Else
Anche se il canone è una questione di istituzioni (e quindi di potere, di politica) temo lei la metta in termini un po’ troppo autoritativi. Sempre che abbia capito bene. Il canone è oggetto di lotte e di ricontrattazioni: non tutti i combattenti hanno le stesse armi, ma sono tanti – e a volte possono vincere i sanculotti (per i quali, come lei immaginerà, ho grandi simpatie). Aggiungo che c’è un altro aspetto: sono le domande che facciamo ai testi a vivificarli (in senso paolino: Littera occidit, spiritus vivificat). Dante può essere più inerte e sciapo dell’ultimo dei romanzetti, se stiamo solo lì a parafrasarlo o a cantarne le lodi come ai vespri. In questo senso continuo a pensare che l’insegnamento funziona davvero se fai riflettere gli studenti su un problema che giudichi importante, anche se parti da un testo mediocre, ma efficace, e sacrifichi qualche perla del Canone Occidentale & Universo. (In molte scuole superiori, i classici richiedono tante e tale mediazioni, che a volte il gioco non vale la candela). È una scommessa difficile e delicata: alla fine, la responsabiltà ultima è di chi insegna. Per me (e certamente non è quello che intende lei, mia laica signorina) eviterei di approntare riti collettivi
[mancavano le ultime parole, me ne scuso]: di adorazione del Bello.
A Roberto GERACE
Lei ha ragione circa il fatto che nel discorso pubblico i lamenti debbano lasciare il posto alle rivendicazioni o alle proposte. Proprio per questo il libro della Nussbaum mi è piaciuto poco, perché mi pare che (1) rimpianga un passato che non c’è mai stato, e le cui ricette, comunque, non sono applicabili alla vita odierna; (2) abbia una visione consolatoria della letteratura e della cultura in generale e (3) ne esageri gli effetti, sottostimando per esempio l’importanza dell’altra metà della ‘cultura disinteressata’, cioè la scienza. Ma nel discorso pubblico mi pare sia importante anche essere pragmatici: io dunque cerco di non lamentarmi troppo (dei tempi che sembrano poter fare a meno dell’Intellettuale legislatore), di rivendicare il giusto (l’importanza della cultura disinteressata per la formazione anche emotiva delle persone: specie di chi non farà lo studioso) e di fare qualche proposta concreta, che mi sembra richiesta dalle circostanze nelle quali viviamo, circostanze delle quali occorre tenere conto, pena l’affermazione di un principio (l’Umanesimo erga omnes, sempre) sulla pelle delle persone (studenti depistati che potrebbero seguire altri studi). Ma è vero che mi ripeto anche troppo spesso la frase di Kafka “Nella battaglia tra te e il mondo tieni sempre le parti del mondo”. Magari dovrei tenere più spesso le mie.
Quanto all’idea di uno studio non storicistico della letteratura a scuola, è buffo ma ne sto scrivendo in questi giorni, anche sollecitato da un bellissimo commento che un docente di scuola superiore, Daniele Lo Vetere, ha postato sul sito del Sole 24 ore in risposta al mio articolo di domenica scorsa:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-10-21/insegnamento-letteratura-licei-universita-154154.shtml
Lo Vetere dice più o meno quello che penso, che coincide con quello che pensa Mengaldo e, immagino, lei. Che il canone origini-900 ordinato come un rosario ha fatto il suo tempo, e va cambiato. Con che cosa non saprei bene. Ma l’ho scritto e lo ripeterò – io non credo che nella preparazione di uno studente di scuola superiore abbia senso una lunga pensosa sosta sul dolce stil nuovo (mentre credo sia opportuna alla facoltà di Lettere: perché si è scelta una professione). Credo che abbia senso leggere Tolstoj, come suggerisce Mengaldo, o anche libri meno grandi che sono però più vicini all’esperienza e agli interessi degli studenti, o che dicono qualcosa che agli studenti nessuno mai ha detto o dirà: molto Otto-novecento, dunque, e – direi – meno letteratura-letteratura e più letteratura civile.
E con ‘civile’ vengo a quello che osserva Raffaele.
Direi che non è tanto importante selezionare un canone quanto alleggerire qualsiasi canone della zavorra retorica che in genere si porta dietro: dopodiché va tutto bene – ama e fa quel che vuoi. Pragmaticamente, ho qualche dubbio e qualche riserva sulla totale libertà da parte dell’insegnante (dunque rischio di cadere nel numero degli ‘autoritari’), perché questa libertà può essere usata male, o molto male (perciò insisto sulla formazione e la selezione degli insegnanti), e non vorrei – come mi pare accada – che al Canone Retorico Desanctisiano si sostituisca un Canone Postmoderno che mette insieme le ultime letture estive dell’insegnante stesso: la Cieca Devozione è stupida come l’Iconoclastia a ogni costo, specie quando si hanno di fronte dei quindicenn. C’è un ordine, nell’apprendimento, e prima di bruciare quell’ordine vorrei essere sicuro che al suo posto ce ne sia uno altrettanto meditato: temo il conformismo lacrimevole di certi insegnanti miei (e tuoi) di liceo ma temo anche la bizzarria dello spiritato che motu proprio decide di espungere Dante Alighieri dall’orizzonte e dalle letture dei suoi studenti.
Quanto a Flaubert e alla Marsigliese, ti dirò, io sottoscrivo quello che dici circa il buon uso dei libri – che per farci pensare e migliorarci non devono certamente trasudare Virtù: non la trasudano molti dei libri che ci piacciono (e a volte è una Virtù che non riconosciamo più come nostra: hai voglia a spiegare a dei ragazzi di scuola superiore il mondo morale di Dante). Ma, come si dice, in età scolare, a me sembra che un po’ di laico catechismo morale, o di educazione dei sentimenti, attraverso la letteratura non siano del tutto fuori posto, e possano essere fatti senza pose predicatorie da parte dell’insegnante e senza indulgere al lavaggio del cervello. Non vorrei che, essendo ormai grandi e colti, fossimo tutti un po’ troppo blasés: specie negli anni della formazione, i buoni esempi contano, e le lezioni che la letteratura direttamente, esplicitamente dà su ‘come dev’essere vissuta la vita’ sono importanti. C’è una fantastica battuta di Homer Simpson. Marge ha scritto un’autobiografia e chiede al marito se vuole leggerla in anteprima. Risposta di Homer: “Ho smesso di leggere libri dopo aver letto ‘La capanna dello zio Tom’: un libro che non mi ha insegnato niente su come si costruisce una capanna. Mi ha insegnato a non giudicare le persone dal colore della loro pelle, ma questo a cosa mi serve?”. La letteratura (la cultura disinteressata in genere) dovrebbe insegnare – tra l’altro – amore e condivisione: non credo che questo debba per forza suonare stucchevole, specie – insisto – nell’età della formazione. Poi arriverà, si capisce, il tempo del libero esame, e di molte cose rideremo, di altre no. (Dopodiché, conosco un mucchio di Homer Simpson, e sono persone rettissime: il che significa che alle cose ci si può arrivare anche per vie traverse, e non solo attraverso l’educazione umanistica: e per questo noto in tutto il dibattito sull’argomento, libro della Nussbaum in testa, qualche esagerazione e qualche eccesso di fiducia: l’educazione umanistica, voglio dire, è uno dei modi, non IL modo: il mondo va avanti anche senza).
@Donnarumma:
Lei mi fa giustamente notare delle cose molto importanti che sono state e sono materia costante delle mie riflessioni, e credo che lo saranno a lungo.
Nel risponderle, mi limito a farle notare che, se è vero che in Spinoza occorre “omnia intelligere”, ciò non viene mai sbandierato come una meta facile, né come una meta difficile, credo, ma come una meta impossibile. Come in tutti gli spiriti di tempra classica, la dimensione della saggezza non viene prospettata come una poltrona in cima a una montagna da scalare, ma come la montagna stessa che si innalza più alta a ogni passo che facciamo. Esiste, cioè, in Spinoza, un dominio di cui non possiamo impossessarci mai: se è vero che la conoscenza dell’uomo può perfezionarsi molto, cartesianamente, nel dominio del pensiero e dell’estensione, è vero anche che questi sono solo due degli infiniti attributi di Dio. Tanto più oggi bisognerebbe ricordarsi questo, oggi che ci siamo ridotti a credere, per citare Moresco, a un “materialismo del dieci per cento”.
Il sentimento di questa incapacità di comprensione è il mistero. E il mistero produce sconvolgimento, frizione, ambiguità, fascinazione, dolore, ribellione.
Con un illecito (?) passaggio dal piano strutturale al piano storico, le rammento l’episodio, raccontato da Leibniz, avvenuto in occasione del massacro dei fratelli De Witt: appena venne a conoscenza di ciò che era successo in carcere a L’Aia, Spinoza fu chiuso in casa dal suo ospite perché non andasse a farsi scannare dai massacratori, ai quali, nella furia del momento, aveva deliberato di presentarsi con un cartello recante la scritta “ultimi barbarorum”. Giusto per ricordare che intraprendere seriamente la sfida della conoscenza e dell’amore porta sempre con sé contemporaneamente offuscamento, dolore, pianto e riso. E che Spinoza, a dispetto e anzi in virtù di alcune sue dichiarazioni, questo lo sapeva meglio di chiunque altro.
Anche a ragione di quanto sono venuto scrivendo nelle righe che precedono, condivido pienamente il suo atteggiamento utopistico.
Sul gioco: era proprio quello che intendevo.
@Giunta:
Mi trovo molto d’accordo con la prima parte del suo commento, quello che si rivolge strettamente a me, e sono contento che un professore universitario scriva sui giornali di questi problemi. In attesa che qualcuno raccolga le grida levate, facciamo in modo che il coro s’ispessisca.
Sulla Marsigliese: la questione sollevata è molto spinosa, ma le farò una domanda. Non è che proprio perché l’educazione umanistica non è IL modo, come lei riconosce, forse dobbiamo sbarazzarci della precettistica, almeno a scuola? Forse, in occasione della lettura di un testo le risposte alle domande che il testo pone possono venire direttamente dagli studenti, e può essere il dibattito stesso a stimolare un confronto profondo coi problemi affrontati, fermo restando che il professore – oltre a manifestare le proprie opinioni – ha pur sempre lo strumento della contestualizzazione storica e del vaglio critico (di modo che Nietzsche non diventi nazista, e che Houellebecq non diventi un provocatore depravato). Ho paura che l’antipatia profonda nei confronti dei Promessi Sposi, sviluppata ogni anno di più, da parte degli studenti di tutte le scuole sia dovuta non soltanto a un certo grado di inattualità (peraltro tutto da dimostrare), ma anche all’eccessiva attenzione che si dà al suo aspetto moralistico in sede di insegnamento. Insomma, è quando la presunta ideologia dell’autore sale in cattedra che i ragazzi si allontanano. Se percepire l’autorità e rispettarla è naturale nei confronti di un docente di materie scientifiche, è molto più difficile accondiscendere all’autorità esercitata da una voce come quella del docente di materie letterarie, che ci parla da così vicino che sembra quasi che parli da dentro di noi: parlo anche (se mi è lecito, per una volta) per recentissima esperienza personale e per autopsia, visto che ho vent’anni tondi tondi e il liceo non è per me una realtà poi così lontana. Resta, come ho detto, che il problema è complesso.
@Giunta
Nella sua riposta a Gerace, lei accenna ai nostri tempi come dei «tempi che sembrano poter fare a meno dell’Intellettuale legislatore». «Sembrano», dice. Non capisco se si tratti di sublime ironia o sublime ingenuità. Provo a spiegarle il mio stupore.
Lo scopo del suo post era la definizione di cosa, quando, come far studiare nelle università e nei licei. Si trattava, insomma, di discutere quali discipline attraverso una legge dello Stato, inserire più o meno arbitrariamente nella categoria, sanzionata innanzitutto (sarebbe più giusto dire solo) da una norma statale, degli “studi umanistici”.
Nelle sue risposte si concentra poi sulla letteratura. E ammette di discettare di canone. Cioè, alla lettera, di legge: canone è uno dei tanti sinonimi di norma. E non certo in senso figurato o metaforico, perché la questione che lei e gli altri hanno sollevato non è affatto estetica. No, no: qui si parla di stabilire quali autori e quali testi dovranno essere letti, commentati e insegnati -per legge- da tutti i soggetti che -per legge- possono o debbono accedere all’insegnamento impartito negli istituti di educazione (statali o privati) riconosciuti per legge.
Per parlare senza troppe ambagi, la sua è una discussione su una proposta di legge (meglio sulle passate proposte di legge e su future eventuali). Una delle infinite discussioni che si fanno sulle infinite proposte di legge che stanno massacrando l’insegnamento in Italia, dove a differenza di quello che accade in altre nazioni (che le riforme le fanno una volta al secolo) vige uno stato di riforma permanente. Riforma del tutto inutile, anzi dannosa, perché il sistema secondario italiano (liceo classico, liceo scientifico, istituti tecnici) era il migliore d’Europa, senza ombra di dubbio.
Devo confessare che, visto da fuori, con lo sguardo (forse ingenuo, forse cieco di chi insegna ma non ha mai lavorato in Italia) non mi sembra proprio di vivere un tempo che sembra fare a meno dell’Intellettuale legislatore. Al contrario: a me sembra che gli intellettuali italiani siano ossessionati dal potere e della legislazione. Non parlano d’altro. Si parla solo dei principi, dei duchi, dei conti, dei re: possono essere Mondadori, la Gelmini, Einaudi, Berlusconi, ma è di quelli che si parla, e dei loro amici, degli intellettuali amati dai principi (dalle case editrici per esempio). E di intellettuali legislatori ne esistono fin troppi: ci sono i giornalisti, gli editori, i redattori (che anche se non lo sanno più, hanno potere censorio su lingua e grammatica) consulenti editoriali, ministri, consulenti ministeriali, bloggari. Qui siamo tutti (aspiranti o esperti) intellettuali legislatori: persone che fanno esperienza del potere della propria parola.
L’eccesso di legislatori e di amici del principe non è solo il frutto di ambizione: di fatto i luoghi in cui la parola ha un potere enorme si sono moltiplicati. Non c’è più solo la scuola o il parlamento, ma appunto i giornali, i media, le case editoriali, il web. A me sembrano tempi in cui di legislatori ce ne sono fin troppi. E non sempre all’altezza del potere che hanno. Anche perché, spesso, chi riveste queste posizioni di potere, non sa di esercitare potere o fa finta che la sua parola non sia la parola del potere. E qui inizia il piagnisteo come giustamente lo definisce. Che però non è solo stucchevole, è soprattutto pericoloso. Non politicamente, ma intellettualmente: non c’è nulla di più pericoloso di scambiare una questione giuridica per una questione estetica.
Ripeto: la questione del canone scolastico è innanzitutto una questione giuridica. Si tratta di stabilire cosa debba figurare nella legge, non di esprimere i nostri gusti personali o le nostre inclinazioni. E quando il legislatore stabilisce che la storia della letteratura debba essere studiata negli istituti di educazione primaria, secondaria e universitaria, non ha alcuna ragione di addurre giustificazioni. La letteratura è una delle attività umane e come tale è necessario capirne un po’ per vivere, così come per vivere è necessario sapere di commercio, di diritto, di politica, ecc. ecc.
Perché mai dovremmo chiederci a cosa deve l’insegnamento della storia letteraria, o peggio ancora che cosa insegna la letteratura? Un legislatore che inizi a spiegare che bisogna studiare la chimica perché poi può servire per costruire le bombe non peccherebbe solo di ingenuità. Qualcuno potrebbe persino tacciarlo di fascismo. A me non pare diversa la questione per la letteratura. La letteratura deve essere studiata perché l’uomo fa letteratura. Punto. Poi ognuno con la letteratura fa quello che vuole: autori, lettori e insegnanti. E’ stato sempre così ed è giusto che sia così. Anche con la chimica ognuno farà nella vita quello che vuole.
E’ inutile (e anche storicamente grossolano) difendersi dietro l’illusione che la letteratura insegni l’amore e la condivisione. Proprio perché ognuno con la letteratura (o con il cinema, o con la filosofia, o con la poesia), nel tempo, ha fatto quello che gli garbava. E poi la scuola mica è il catechismo. Mica dobbiamo diffondere i valori di cristo. Un insegnante è un impiegato statale, non un profeta.
Io inviterei anche a dismettere la categoria di “studi umanistici”? Anche qui mi sembra che tutto nasca dalla confusione tra categorie giuridiche e (in questo caso) epistemologiche. Da quando il darwinismo è stato universalmente adottato come verità sulla natura umana, il concetto di scienza umana o di studia humanitatis ha perso qualsiasi valore epistemologico. Meglio parlare direttamente della cosa stessa. Siamo parlando qui dei “settori scientifico-disciplinari dell’area 11”: la giurisprudenza ha i suoi termini tecnici, sono orridi, ma bisogna usare quelli, altrimenti si creano malintesi.
Le confesso, infine, che mi ha un po’ sconvolto vedere il più grande specialista di Stilnovo in Italia (lo dico con grande ammirazione per lei e quello che scrive) difendere l’abolizione dello studio della poesia stilnovistica nei licei. Non sono affatto convinto che la scuola debba piegarsi a insegnare i «libri che sono più vicini all’esperienza e agli interessi degli studenti». La scuola deve imporre l’esercizio contrario: mostrare che libri che sembrerebbero più lontani sono invece decisivi per la propria vita. Altrimenti cosa facciamo, riduciamo la chimica alla spiegazione di come è fatto un chewing gum e la biologia all’educazione sessuale? E anche qui: la scuola non è il dopolavoro ferroviario. E non è un parco giochi in cui tutti debbono sorridere e battere le mani.
Sul dilemma Tolstoj vs Stilnovo: faccio quotidianamente esperienza degli effetti che una simile riforma nella secondaria ha avuto nelle giovani generazioni di una grande nazione europea. Semplicemente devastanti. Pari, spiritualmente a quelli che un’atomica produce nei corpi. Ne sono uscite non solo intere generazioni mostruosamente ignoranti, ma del tutto incapaci di sviluppare qualsiasi forma di interesse vero, personale, autonomo, profondo. Ha ragione @Gerace: che la scuola si faccia carico degli interessi personali degli studenti è la peggiore cosa che possa accadere. E’ una forma paternalistica, amorevole, efficacissima di sterilizzazione psicologica. O di anestetizzazione culturale.
Dopo l’intervento anticatechistico di Averroè, mi pare ci sia poco da dire in proposito (anche se non sicuro di aver capito quella storia di Darwin e degli studia humanitatis). Molto, invece, ci sarebbe da aggiungere sulla postura degli intellettuali italiani e sulla loro idea di impegno, militanza, partecipazione alla vita pubblica. Non qui.
E in più, una piccola cosa: come tutte le questioni di legge, il canone è in Italia una questione di praticaccia. Ho partecipato a moltissimi incontro con docenti di scuola superiore sul canone, e la questione è sempre questa: con le poche ore a disposizione, quali, degli autori indicati dalle direttive ministeriali (cercatele sul sito del miur, http://www.istruzione.it/web/hub, e fate caso a quanto sia difficile trovarli…) sono irrinunciabili? quali possiamo lasciare da parte? quali autori contemporanei conviene proporre? Ma non è una deprecazione: come spesso accade, la necessità aguzza l’ingegno e permette di porre i problemi in modo radicale.
Ah: verissimo, è un assoluto fallimento voler andare a tutti costi incontro agli studenti (e per altro, chi insegna è sempre in ritardo sui gusti o sui bisogni dei figli: sono inseguimenti non da action movie, ma da comiche anni Venti). Tutt’altra cosa è mettere in relazione Dante o Manzoni al mondo della vita nostro o di un diciassettenne: e proprio qui sta il bello.
@Gerace
Si figuri se non mi inchino davanti a Spinoza! Il mistero mi piace (http://www.youtube.com/watch?v=pjuZL6v2H9A&feature=related), ma evito di convocarlo a lezione, dove mi sentirei improvvisamente uno smerciatore di creme dimagranti alle alghe (http://www.youtube.com/watch?v=OKd6lILl6fI).
Su altre questione che lei pone, come vede, ritorno qui nei dintorni.
@ Giunta
(Ti provoco, tanto so che stai al gioco)
Non credo sia necessario precisare che sono un nemico giurato dell’impressionismo e dell’anarchia anticanone. Quanto a una riformulazione dell’insegnamento letterario in termini non ottusamente cronachistico-monumentali (lo storicismo era un’altra cosa), beh, è una cosa ormai acquisita da una decina d’anni, almeno nella prassi di moltissimi docenti (credo la maggioranza) e in alcuni manuali in circolazione.
La libertà degli insegnanti ha tali vincoli, che – per fortuna! – le letture dell’estate possono passare nei programmi solo se l’insegnante è scriteriato (e nessun dirigente, collegio dei docenti o consiglio di classe consentirebbe a Pinco di saltare Dante).
Onestamente, e con imbarazzo, debbo confessare che mi pare Mengaldo non abbia ben chiaro cosa accade nelle scuole superiori italiane (le sole sulle quali, ripeto, io mi attenti a dire qualcosa).
Opporre «l’amore» e «la condivisione» a una «visione consolatoria della letteratura e della cultura in generale» è come rispondere a Candy Candy con Holly Hobbie. Non dubito che all’asilo, alle elementari e alle medie, bambini e ragazzi vadano educati al rispetto e alla capacità di lavorare insieme (all’amore, non so: come si insegna?). Ma, come ho detto, non è di questo che parlo. Alla fine, come tutti quelli che hanno una vera formazione filologica, anche tu rimpiangi, e più di Nussbaum, i tempo d’oro dell’Umanesimo filantropico – che però, come lo stato di natura di Rousseau, non si sono mai compiuti in terra. Non ho mai capito come facciate a colmare il salto tra i friabili manoscritti del secolo decimoterzo e Homer Simpson (o meglio, i miei tentativi di comprensione sfociano nella malevolenza).
E così, per concludere con un po’ di massimi sistemi in pillole:
La letteratura non rende migliori (a meno che uno non sia già buono di suo).
La cultura non è disinteressata: http://www.youtube.com/watch?v=2itdv1aEpG4
Quando si invoca l’abolizione “di un canone origini – 900 ordinato come un rosario” e si auspica soltanto la lettura di autori “più vicini all’esperienza e agli interessi degli studenti, o che dicono qualcosa agli studenti”, come si stesse parlando di zolle tettoniche galleggianti sul magma, forse ci si dovrebbe porre anche il problema del perché gli studenti confondano Rinascimento con Risorgimento, collochino Dante nel ‘700, l’Illuminismo nel Medio Evo ecc. non è che la contestualizzazione sia un optional. Mi pare un ulteriore passo verso la cancellazione del legame col passato, verso il naufragio della memoria, crimini di cui la nostra attuale società è colpevole e che ha già dato i suoi frutti di confusione e di sradicamento, per cui non sappiamo più chi siamo.
Ma la cosa più grave – e qui mi inchino ad Averroè – è ritenere seriamente che l’esperienza e gli interessi degli studenti possano essere assurti in qualunque modo a norma nella scelta del percorso di studio e nelle sue modalità. Le esperienze e gli interessi dei nostri ragazzi sono generalmente- purtroppo – molto limitati e sono davvero pochi quelli che leggono per ampliarli o per comprendere meglio il mondo. (Forse sono un’utopista, ma a me la letteratura, l’arte, la filosofia, non meno della scienza, a questo mi sono servite e mi servono).
I loro interessi e le loro esperienze sono tutti racchiusi nei libri di Moccia. Che, se questa concezione dell’istruzione dovesse passare, basterebbero ad insegnare la letteratura nelle scuole. Magari poi, quando andranno all’università, scopriranno che esiste anche dell’altro, grazie a un insegnamento che darà loro accesso ai Misteri del sapere.
Perché parlare di letteratura? A che serve a questo punto? Basta la lettura dei libri di Moccia, di Brizzi, Melissa P. , Tamaro & Co.
Certo, non si pretende che in una società come la nostra, il rapporto insegnante – studente torni ad essere quello di Maestro – allievo. Quello che ancora oggi in India, dove invece è vivissimo, soprattutto nel campo delle arti, si chiama Guru-shisha Parampara ( da Wikipedia – “It is the tradition of spiritual relationship and mentoring where teachings are transmitted from a guru “teacher” to a śiṣya “disciple”. Such knowledge, whether it be Vedic, agamic, architectural, musical or spiritual, is imparted through the developing relationship between the guru and the disciple. It is considered that this relationship, based on the genuineness of the guru, and the respect, commitment, devotion and obedience of the student, is the best way for subtle or advanced knowledge to be conveyed. The student eventually masters the knowledge that the guru embodies.) Un rapporto cioè, in cui l’allievo riconosce il pregio. il valore della conoscenza di cui il maestro è portatore e per questo gli è devoto e grato.
Ma forse sarebbe interessante ricordare che un professore (chi professa, cioè insegna una scienza o una disciplina o esercita un’arte nobile. Dizionario etimologico online), che sia di scuola inferiore o superiore o di università (io non ci vedo molte differenze, a parte di stipendio) non è solo un impiegato statale, se non in modo molto speciale, perché il suo ruolo, che lo si voglia o meno, lungi dal limitarsi a snocciolare delle semplici nozioni, ha anche degli aspetti molto complessi di influenza diretta sulla psiche dei suoi studenti. Chiunque insegni lo sa. E le responsabilità che questo comporta sono enormi.
Chiunque abbia a che coll’umanistico ha a che fare colla manipolazione del linguaggio. Per la vastità dei contenuti che si possono studiare e produrre, credo sia molto riduttivo continuare a parlare di studi umanistici universitari, che tendono inevitabilmente verso il basso appiattimento.
Personalmente, sarai per l’abolizione di questi corsi di laurea che hanno come unico fine quello di erogare stipendi pubblici ai laureati in queste materie e tenere sotto i piedi la formazione degli studenti che sicuramente, da soli, farebbero meno, ma meglio.
Una cosa però va detta della riforma, ormai attempata, che ha spezzato le lauree in tris più bis. Le facoltà umanistiche hanno adottato quasi ovunque i corsi monografici, che ovviamente fanno comodo ai professori che vendono i libri che hanno scritto loro, ma penso diano anche una completezza “parziale” maggiore dei problemi, insomma, teso ad abbandonare lo studio scemotto e inutile delle antologie letterarie…
A Roberto GERACE
Sulla questione di ‘come insegnare la letteratura’, io ho un ricordo molto più evanescente del mio liceo, naturalmente, ma non ricordo che lo spazio per il dibattito mancasse: anzi, il dibattito, la discussione sui testi era sollecitata continuamente dagli insegnanti. Mancava per la mancanza di interesse da parte degli studenti (me compreso), mancanza d’interesse determinata, credo, da un mix di ignoranza nostra e di incapacità da parte dell’insegnante di coinvolgerci in una discussione che rendesse il libro – diciamo Manzoni – vivo e attuale. Ma per quanto mi riguarda, specie nello studio della letteratura pre-moderna, io tenderei a non attualizzare troppo le opere e a farle leggere con, diciamo, spirito filologico: e Manzoni dovrebbe riuscire interessante non perché vicino a noi ma, al contrario, proprio perché per molti versi così irrimediabilmente lontano (un’amica che insegna al liceo, alla mia proposta di sostituire Manzoni con qualcosa di più attuale, mi ha obiettato che al contrario, Manzoni è amato proprio in quanto ‘altro’, esotico quasi). Dico ‘tenderei’ perché insegno all’università e non alle superiori, e non so se lì cambierei approccio. Direi di no: dunque, più che favorire la discussione sul testo, cercherei di spiegare il testo nel suo tempo – il che non esclude ma limita la partecipazione attiva degli studenti. Ma credo che, soprattutto quando si tratta, ripeto, di letteratura antica, il rischio sia la naiveté.
A AVERROE’
Molto interessante. Veramente il mio post non mirava a stabilire “cosa, quando, come far studiare nelle università e nei licei”: era una vecchia recensione a un libro della Nussbaum. Ma la discussione è poi andata in quella direzione, in effetti. Ora, mentre non dubito della necessità di studiare letteratura a scuola (una necessità che non dev’essere motivata), ho molti dubbi su quale letteratura vada studiata, e come, e se il cosa e il come debbano o non debbano variare a seconda degli indirizzi di studio. Su questa materia, lo Stato non legifera più: non esistono programmi standard ai quali le scuole e gli insegnanti debbano aderire. Esistono bensì ‘indicazioni ministeriali’, abbastanza vaghe, e però naturalmente sempre seguite nella redazione dei manuali e, credo, anche nello svolgimento dei corsi a scuola (qui con un margine molto ampio di manovra: e ci sono ovviamente docenti più capaci e pronti a seguire percorsi originali e docenti invece legati mani e piedi al libro di testo). Gli insegnanti delle superiori coi quali ho parlato mi hanno detto quasi tutti che il programma di letteratura concepito – scrivevo – come un rosario, dalle origini al ‘900, avrebbe bisogno di essere rinnovato, prima di tutto per ragioni linguistiche: gli studenti incontrano difficoltà enormi a leggere i testi più antichi, i classici insomma, e la fatica fatta per ‘entrarci dentro’ guasta tutto il piacere della lettura, che piacere in fondo dovrebbe anche essere. Di qui la mia disponibilità ad accettare rettifiche anche sostanziose al ‘canone’: soprattutto pensando agli studenti che non fanno il liceo, e soprattutto pensando al fatto che molti studenti futuri saranno immigrati. Le cose sono cambiate a tal punto, nella formazione e nella vita degli studenti, che mi chiedo se non sia il caso di introdurre, nei programmi di studio, delle ragionevoli modifiche. Sarei propenso quindi a sacrificare “Donna me prega” e l’averroismo di Guido Cavalcanti, se il tempo risparmiato permettesse di fare letture più estese di otto e novecento (il che non significa che abolirei lo stilnuovo nei licei: ma leggerei i testi senza indugiare troppo sulle minuzie e i sottili fili che legano Cino a Lapo e Lapo a Dino Frescobaldi: una questione di misura). E sarei propenso anche a considerare l’ipotesi di tradurre i nostri classici più difficili. Ma non ho affatto le idee chiare su questo punto, perché la mia esperienza d’insegnamento superiore è limitata. Mi pare però che una discussione si debba aprire: se poi sarà fatta per confermare la bontà del modello vigente, non mi dispiacerà affatto, essendone abbastanza intrinseco.
A RAFFAELE
Ma no che non voglio l’umanesimo filantropico, e nemmeno la catechesi! A me pare che qualsiasi forma di educazione, di qualsiasi tipo, promuova anche amore e condivisione (certo che se me li fai riscrivere mille volte diventa un po’ ridicolo…), e cioè renda più umani. Poi certo anche Hitler sapeva leggere, ma questo non vuol dire che sarebbe bene abolire la lettura. Pensavo a cose terra terra come: un conto è leggere una storia della prima guerra mondiale e un conto è leggere “Un anno sull’altipiano” di Lussu – una volta letta, si dimentica difficilmente cos’è la guerra. E un conto è leggere il nome ‘gulag’ e un conto è leggere “Tutto scorre” di Grossman: tutto qui, un uso documentale, non solo monumentale della letteratura. Che alla fine può persino suggerire “amore e condivisione” (la quarta volta è una canzone di Baglioni, o il titolo del prossimo meeting di Rimini).
A Francesca DIANO
Ma no, non esageriamo. Io sono solo preoccupato per le cose che sento dire dai miei colleghi che insegnano al liceo. Non si tratta di abolire la cronologia: si tratta, per quel che mi sembra, di alleggerire il carico di ‘storia letteraria’ (quanti sono i poeti stilnovisti? com’è fatta una sestina?) e di rendere più ricco quello di ‘letteratura’, se possibile – a mio parere – rendendolo, nelle scuole superiori (o forse solo in alcune), un po’ più attuale: non nel senso di ‘vicino alle esperienze degli studenti’, forse, ma nel senso di ‘comprensibile per loro’, e tale da non restare inerte. Mi chiedo quale sia la strategia migliore per opporsi a Moccia – potrebbe non essere quella di tenere le nostre vecchie posizioni. Ma davvero non ho idee ferme in proposito (anzi, ho idee contraddittorie in proposito).
Donnarumma, ti adoro.
A Claudio Giunta
Sì, capisco. Resta però il fatto che, grazie alla (non)riforma Gelmini, ora sono tutti licei. Da quelli che lo erano agli istituti che un tempo si chiamavano tecnici e professionali. Abbiamo questo biennio all’americana in cui ammannire un coacervo di nozioni caotiche sui “generi letterari”, in cui vengono mischiati Omero e i Rolling Stones, Dante e Dylan Dog, Ariosto e Brizzi ecc, il tutto privo di ogni prospettiva storica o cronologica, di qualunque struttura o contestualizzazione se non una brevissima biografia dell’autore e i famigerati “approfondimenti” che hanno il solo risultato di creare ulteriore confusione. Questo dovrebbe avvicinarsi, secondo i riformatori, “ai gusti dei ragazzi”. O così si crede.
Per non parlare della nuova materia inserita, praticamente da un giorno all’altro, nel biennio, che sarebbe Geografia, ma di fatto è Geopolitica. I testi disponibili sono redatti con linguaggio talmente astruso che nemmeno un esperto di tale disciplina ci si raccapezzerebbe. Figurarsi dei quattordicenni che non sanno nemmeno quante e quali sono le regioni italiane o le capitali europee.
Poi, nel triennio, si arriva a poter tracciare un po’ di storia della letteratura e una più consona cronologia. Ma siamo bel lontani dal dover alleggerire quello che è già leggerissimo, con poche ore settimanali per Storia e Italiano. Dunque non so che altro si dovrebbe alleggerire.
Dunque, tutto sta nelle mani (e nel buon senso e capacità) del docente, che si fa carico di rendere il tutto “attuale e comprensibile” agli studenti.
Ma quale bravo docente non l’ha sempre fatto? Non aspetta certo che sia il ministero a dirgli come insegnare. Anche quando la scuola era la scuola e non questo cumulo di rovine, distrutta dalla barbarie di gente come Gelmini, Brunetta e Berlusconi (firmatari insieme a Napolitano) della riforma, che di cultura e istruzione nulla sanno né capiscono, né hanno alcuna pallidissima idea.
Poi, certo, se ancora esistono docenti che trovano il tempo di ammannire le più sottili variazioni della poesia trobadorica, siciliana, stilnovista, barocca ecc. oltre ai grandi capisaldi della letteratura antica moderna e contemporanea, beati loro. Ma non so come possano fare.
Per dire, ora nella nostra città ci sono quattro licei artistici, dove prima ce n’era uno solo e tre tra tecnici e professionali, di cui uno dei più antichi e gloriosi istituti d’arte d’Italia, (fondato nel 1863) ora indistinguibile dagli altri e massacrato dalla riforma.
Temo che la condizione attuale del percorso scolastico non sia chiara ai docenti universitari. Certo non a Mengaldo
Non so la percentuale di studenti che fanno nell’agio gli Studi universitari. Ai miei tempi i più ci affannavamo fra affitti capestro, mense, corse affannose fra sede centrale e sedi distaccate e quanto altro. Non credo sia tanto alta la percentuale di studenti che di questi tempi fanno nell’agio gli Studi universitari. Di sicuro molto alto è il numero di studenti, e famiglie di provenienza che li sostengono, che fanno sacrifici, e non pochi, o moltissimi, e che ripongono le loro speranze, e la loro passione, in quegli studi. Non è da quanti telefonini e iPud o iPed ci sono in una famiglia che si misura la qualità della vita di quella famiglia. Anzi, non è detto che il risultato reale di tutta questa mercanzia non sia di abbassarla o imbarbarirla quella qualità. Sarà pure vero “che la vita, nelle società occidentali, è diventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo (filosofi, storici) ma di tecnici capaci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici)”, ma poi questi tecnici di cui vengono sollecitate le competenze per far funzionare il mondo, lo fanno funzionare assai spesso, gli economisti pressoché sempre, a modo loro, malissimo. Insegnare, e insieme dire con le parole esatte – interpretare tutto ciò – è un compito fondamentale. Tenere conto in questa discussione anche di questo secondo me è importante. Un cordiale saluto