cropped-Cresci-Mario_Salandra-Matera-19822.jpgdi Francesca Serafini

[Oggi non è un giorno qualsiasi. Oggi si gioca la finale dei Mondiali. Qualche settimana fa Francesca Serafini ha pubblicato Di calcio non si parla (Bompiani 2014): ne presentiamo alcune pagine. Sono tratte dal capitolo L’amore per la maglia].

È per Zeman che sono tornata a seguire la Roma nel 1997, dopo il buco nero degli anni di Ciarrapico (che poi mi aveva tenuta distante anche in quelli immediatamente successivi). Per la spettacolarità del suo gioco: la dimensione sanamente ludica che prova imporre a ogni partita. Anche se ormai, con tutto l’affetto per l’allenatore boemo e l’esaltazione autentica che ci hanno procurato certe partite della sue squadre, sarebbe forse il caso di mettere in discussione il suo mito e i suoi integralismi – e non me ne voglia Manlio Cancogni – perché con l’oltranzismo delle teorie, a dispetto della pratica, si può finire a preferire (ma qui siamo alla sua seconda panchina romanista: e nel calcio i ritorni raramente hanno successo) un ordinario lavoratore del pallone come Panagiotis Tachtsidisa uno dei centrocampisti italiani più forti di sempre – il campione del mondo Daniele De Rossi – con tutti i rischi che comporta, come abbiamo già accennato, mortificare il talento, se non gli capita subito dopo di incontrare sulla sua strada Rudi Garcia (ripagato della fiducia – sarà pure un caso – già nella partita d’esordio del suo primo campionato italiano, con un gol che a De Rossi era mancato in tutti i mesi della sua messa in discussione).

Per un integralismo, per esempio, Arrigo Sacchi – il teorico secondo cui «per essere un buon fantino non occorre essere stato un cavallo» – ha sulla coscienza il ritorno al vizio del fumo di Sandro Veronesi che nei “Ringraziamenti” di Venite Venite B-52 cita il tecnico di Fusignano proprio per averlo indotto a ricominciare «quando ha sostituito Roberto Baggio con un portiere». Lo stesso Baggio che poi, nella finale di quegli stessi Mondiali (USA 1994), sbagliò l’ultimo rigore contro il Brasile.

Eravamo all’epoca del primo mandato berlusconiano a Palazzo Chigi e molti temevano – di nuovo per quella insana commistione tra calcio e politica perpetrata dal presidente del Milan – che il governo tenesse in serbo un “colpo di spugna”, per chiudere la vicenda di “Mani Pulite”, in caso di vittoria dell’Italia, approfittando del fatto che l’evento certamente avrebbe catalizzato l’attenzione mediatica. L’Italia perse e il provvedimento non fu poi formalmente attuato (ma certo nessuno può dire come sarebbe andata nell’altro caso), però resta che da allora, in tutti gli anni dei successi berlusconiani, molti elettori lontani dal centrodestra si sono trovati in difficoltà a tifare la Nazionale e a gridare “Forza Italia”, precludendosi l’unica vera occasione di ecumenismo per gli appassionati di calcio.

Di là dalle sovrapposizioni con la politica, quello per la Nazionale è comunque un sentimento controverso. Se da un lato porta ad appassionarsi al calcio anche persone in genere distanti da questo fenomeno, talvolta induce a una cauta distanza i tifosi settimanalmente in trincea. Intanto perché gli impegni preparatori degli Europei e dei Mondiali (da cui talvolta peraltro qualche giocatore torna infortunato, con tutte le conseguenze per la sua squadra di club) ogni tanto impongono una sosta al Campionato di serie A, generando crisi di astinenza in chi in quei casi non sa come occupare la domenica. E poi perché gli slanci interconfessionali non giovano a quel tipo di rivalità e antagonismo che abbiamo visto essenziale nel sostentamento della propria fede calcistica.

Per quanto possa sembrare sciocco, quando un tifoso vede un giocatore della propria squadra in Nazionale abbracciarsi con un altro di una squadra avversaria avverte una specie di straniamento (se tradimento vi sembra troppo, anche se è il termine più proprio per definire questa sensazione): un po’ come è successo nel 2013 – di nuovo un parallelo con la politica – con la formazione del governo delle “larghe intese” del democratico Enrico Letta (all’indomani di una campagna elettorale su fronti vivacemente contrapposti). Che peraltro – chiamando a raccolta i suoi ministri, tra i quali diversi esponenti del centrodestra – parlò di ritiro per fare spogliatoio. E qui ci si domanda che cosa ci aspetterà in futuro: se sulla confusione di queste premesse saremo ancora in grado di distinguere gli àmbiti, e i linguaggi. Se potremo tornare a gridare “Forza Italia” sperando che il nostro modello di gioco sia ancora in grado di garantirci un posto nel mondo, non solo calcistico. Se, ancora, a dispetto di ogni divisione fisiologica, sapremo ritrovarci quando è il caso – davvero – di stare tutti insieme.

Intanto che la storia avrà modo di darci le sue risposte, ognuno resterà legato alla propria maglia, anche a dispetto di chi la disprezza e di chi giudica con severità il nostro «recupero settimanale dell’infanzia», come lo chiama Marías.

E qui riemerge nella memoria il ricordo della Forza del passato di Sandro Veronesi. Quando il protagonista Gianni confida uno strambo segreto a sua madre. Le racconta della volta in cui voleva abbattere il caminetto finto che toglieva luce e spazio in una stanza della casa che aveva preso in affitto e a cui però il proprietario era affezionato in modo speciale perché «ci aveva passato davanti tutte le feste quando era bambino, ci aveva fatto il presepe tutti gli anni, ci aveva raccolto le calze della Befana». Nondimeno Gianni poi riesce a convincerlo a patto che il camino venisse smontato pezzo per pezzo «con la promessa scritta di rifarlo uguale» al momento della restituzione della casa, a fine affitto. E qui arriva il segreto:

perché dopo aver tolto tutte quelle piastrelle una per una, tutti i mattoni a facciavista uno per uno, con lo scalpello, tic tic, piano piano, nemmeno fosse la Domus Aurea, lo sai cosa ci abbiamo trovato dentro? Nell’intercapedine, tra il camino e il muro… lo sai cosa c’era? […]

– Una merda, c’era – sussurro – Giuro, c’era una merda umana. Mummificata, liofilizzata, e avvolta in una pagina del «Messaggero» del 1953. […] il muratore che ha appena fabbricato quel camino, nel 1953, quando il mio padrone di casa è un bimbetto di quattro anni e crede che da quel camino entreranno Babbo Natale e la Befana a portargli i regali, caca su una pagina di giornale, prende il cartoccio, sale in cima alla scala, getta il cartoccio nell’intercapedine, mura gli ultimi mattoni, e se ne va tranquillamente a farsi pagare.

Ecco, questo brano mi torna in mente tutte le volte in cui quel tribunale castigatore già evocato riappare a contestare la mia passione per la Roma e per il calcio; le volte in cui qualcuno cerca di insinuare il suo disprezzo nell’intercapedine che ci separa tutti – o che ci lega per sempre – alle nostre emozioni di bambini: che poi sono quelle, se abbiamo la fortuna di averne accumulate, a cui continueremo a riandare più spesso col pensiero per il resto della nostra vita.

[Immagine: Mario Cresci, Salandra, Matera, 1982 (gm)].

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