di William Gambetta
[Il Sessantotto ha trasformato radicalmente la comunicazione politica, riscoprendo lo strumento del manifesto. I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia di William Gambetta, da poco uscito per DeriveApprodi, ricostruisce il modo in cui la grafica politica si trasforma fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta sotto la spinta dei nuovi modelli iconografici inventati dal Sessantotto. Presentiamo l’introduzione al libro].
Negli ultimi decenni, ha osservato Peter Burke, la necessità di indagare nuovi terreni di studio – come la storia delle mentalità e dell’immaginario, della vita quotidiana e delle relazioni sociali – ha spinto la ricerca storica ad ampliare notevolmente il proprio repertorio di fonti. Così, accanto ai documenti scritti, anche la storia contemporanea si è da tempo avvicinata all’analisi della documentazione iconografica e materiale. Eppure, la storiografia sembra avere ancora qualche difficoltà nel comprendere fino in fondo le potenzialità di queste fonti, e spesso si limita a utilizzarle come «semplici illustrazioni» per argomentare conclusioni cui è giunta «per altre vie» e «non per fornire nuove risposte o per porsi nuovi interrogativi»[1]. Anche quegli studiosi che tentano di interpretare il passato attraverso documenti iconografici si muovono con fatica, perché non ancora attrezzati nella loro critica, e se ne servono spesso «in modi che possono apparire ingenui, banali e da incompetenti alle persone interessate a livello professionale ai problemi visivi»[2].
E tuttavia, in questo scenario, si registrano anche – e sempre più – eccezioni, soprattutto quando la ricerca riesce a dare un suo specifico contributo all’analisi del «materiale visivo»[3]. Secondo Ivan Gaskell, gli interventi più raffinati si sono mossi sostanzialmente in due direzioni. Da un lato, quella di analizzare le immagini in relazione alla loro produzione e consumo «in quanto attività sociali, economiche e politiche»[4]. Si pensi, ad esempio, agli studi sulla stampa tipografica e litografica in età moderna e contemporanea o a quelli sulla propaganda politica e commerciale nelle società industriali. Dall’altro, quella di svelare, al di là della semplice analisi iconografica, la visione culturale – o se vogliamo ideologica – di una determinata società. Riferendosi alle parole di Michael Baxandall e al suo studio sulla pittura rinascimentale italiana, Gaskell sostiene che compito dello storico dovrebbe essere quello di recuperare «l’occhio di un determinato periodo»[5].
Uno dei primi storici a utilizzare i manifesti come «specchio dei tempi» è stato, alla fine degli anni Sessanta, Max Gallo in I manifesti nella storia e nel costume (edito in Italia nel 1972)[6]. Suo intento era quello di descrivere l’intero sviluppo delle società industriali dell’Europa e del Nord America – dalla Rivoluzione francese al Sessantotto – dipingendone i mutamenti delle abitudini e dei valori. Secondo lo studioso francese, infatti, poiché i manifesti sono affissi in luoghi pubblici, devono essere tollerati dall’insieme della comunità che li guarda: il manifesto osceno o destabilizzante non può resistere sui muri «di tutti», non è accettabile né agli sguardi né alle leggi, e dunque fallisce nel suo obiettivo di comunicare, consuma il suo ciclo vitale velocemente, finisce coperto, stracciato o inascoltato. Sono solo quei manifesti che entrano in sintonia con i sentimenti, i desideri e le istanze più diffuse nella società ad assolvere al loro compito e a costituire, da questo punto di vista, un prezioso sensore del «conformismo» sociale, un’espressione della visione dominante, una sintesi di idee e valori maggioritari[7].
In questa direzione si sono mossi anche gli studi di Arturo Carlo Quintavalle, secondo il quale, essendo il manifesto un prodotto della società borghese ottocentesca, sarebbe poco fruttuoso cercarne gli antenati in lontani esempi della storia antica o medievale, siano essi le iscrizioni romane, gli stemmi araldici, gli stendardi processuali o gli affreschi di chiese e palazzi pubblici[8]. Altrettanto improduttivo, però, sarebbe rintracciarne la specificità nella sua genesi di prodotto industriale, frutto dello sviluppo tecnico della stampa, oggetto/immagine riprodotto in innumerevoli copie[9]. Ciò che lo distingue, dunque, secondo Quintavalle è l’inedita relazione che nel manifesto si instaura tra immagine e testo. Ripercorrere il contributo che correnti, scuole e singoli artisti hanno dato alla sua evoluzione espressiva significa, insomma, ricostruire questa connessione, pensando al manifesto come «macchina narrativa», «racconto condensato in immagine, racconto che spetta al lettore, a chi guarda, decrittare, scegliere, interpretare»[10]. La sua essenza di oggetto industriale diviene rilevante, allora, non tanto rispetto all’unicità delle opere d’arte precedenti, ma in relazione alla diffusione di massa del suo racconto in quanto nuovo mass-medium. Il manifesto non si rivolge più alle élite acculturate, ma a fasce di pubblico sempre più ampie, prima la borghesia nascente e poi le masse operaie e contadine. Il suo racconto, dunque, fin dalle origini, si è manifestato come «popolare», e per farlo ha recuperato immagini e tradizioni della narrazione fiabesca: un nuovo modo di comunicare, espressione della società meccanizzata e di massa che ritorna però alla «fiaba», lo strumento «più antico di persuasione»[11].
Nato con finalità commerciali, volto alla vendita di nuovi prodotti per la nascente borghesia urbana, il manifesto costruì il suo linguaggio e il suo codice di comunicazione giocando direttamente con sentimenti, valori e desideri umani[12]. Forse anche per questo, divenne immediatamente uno degli strumenti più potenti di «conquista politica dell’opinione pubblica»: l’intreccio tra testo e immagini ebbe la capacità di parlare contemporaneamente «alla ragione e all’immaginazione», riassumendo argomentazioni e discorsi complessi e articolati, semplificando e schematizzando analisi e riflessioni[13]. Una grammatica comunicativa, dunque, declinata sulle corde dell’animo umano: i desideri erotici, le paure più profonde, la tensione al riscatto sociale, le pulsioni materne, la compassione e così via.
Sulla base di questa efficace gamma di espedienti narrativi, il manifesto divenne il principale strumento di propaganda nei passaggi epocali del Novecento, dalla Grande guerra in poi. Facendo leva sulle ancestrali pulsioni ed emozioni umane, nel corso della sua lunga esistenza, le sue forme narrative tesero a ripetere codici grafici simili anche in epoche e culture differenti.
Sono stati soprattutto gli studi sulla comunicazione a mettere in evidenza questo ritorno di forme narrative. Studi che hanno indicato, in ogni manifesto, un doppio livello di comunicazione: in superficie il messaggio testuale, esplicito e differente nei diversi casi (il prodotto da comprare, il partito da votare, la mobilitazione da sostenere, l’informazione da divulgare, eccetera), in profondità il codice simbolico attraverso il quale quel messaggio si esprime (l’affermazione di se stessi, l’orrore per il nemico o le sue azioni, il desiderio erotico, eccetera). Sono le modalità con cui questo livello più profondo viene trasmesso che rendono graficamente e testualmente accostabili – e assimilabili – messaggi eterogenei e distanti. Questo approccio – distante dalle finalità della storia dell’arte e tutto interno alle analisi e agli obiettivi delle scienze della comunicazione, in particolare della semiotica – ha permesso, dunque, la comparazione di documenti molto diversi tra loro, sia di epoche e sistemi socio-politici distanti che di forze politiche o aree geografiche differenti.
Nel 1980, in uno studio sui manifesti diffusi durante la campagna per il referendum sul divorzio, Paolo Mancini individuò alcune costanti[14]. Innanzitutto la conferma – sulla base dell’intuizione di Max Gallo – del carattere «conservatore» di questo medium che, nelle sue forme espressive, per essere accettato e inteso, doveva tendenzialmente privilegiare riferimenti a immagini e credenze già note. In secondo luogo, un livello espressivo che, proprio perché basato su tali saperi condivisi, tendeva a comunicare a un pubblico generico, indifferenziato, o definito in base all’identificazione con simboli, parole o immagini riconosciuti. Infine, l’utilizzo nella comunicazione di codici emotivi piuttosto che di codici razionali. Mancini, poi, si soffermava sull’analisi dei tre elementi costitutivi di ogni comunicazione – l’emittente, il destinatario e l’enunciazione – mostrandone il complesso intreccio attraverso una «grammatica del riconoscimento», vale a dire una reciproca identificazione tra pubblico/destinatario e forza politica/emittente che passa per codici specifici (colori, simboli, icone, parole, eccetera)[15].
Un’indicazione di lavoro densa di prospettive che, però, non fu colta, almeno stando alle ricerche italiane successive, gran parte delle quali, nel corso degli anni Ottanta, si limitarono a ripercorre il contributo di artisti e disegnatori all’illustrazione grafica, oppure a indagare i manifesti quali rivelatori delle trasformazioni sociali[16].
Forse condizionate dalla storia dell’arte, queste ricerche hanno per lo più considerato i manifesti come immagini da osservare nella loro forza espressiva e iconografica, tralasciando il sistema di comunicazione di massa all’interno del quale furono prodotte e divulgate e sottovalutando, dunque, la loro dimensione sociale[17]. Al contrario, essendo i manifesti un’elaborazione grafica di un messaggio in relazione alle esigenze di un committente (un partito o un organismo di movimento), nel loro studio dovrebbero essere centrali le caratteristiche della loro produzione e diffusione, così come le modalità e i luoghi della loro affissione. Studiare esclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in una più complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso di comunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società[18].
È in questa direzione che si vuole collocare il presente studio, prendendo in esame il decennio successivo alla contestazione del Sessantotto. Una fase storica in cui il protagonismo dell’azione collettiva rese il manifesto uno degli stumenti d’agitazione e propaganda più diffusi, perché semplice, efficace e alternativo al sistema di comunicazione dominante[19].
La ricerca si è sviluppata in due direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa alla produzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia di collettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisi dell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forze politiche.
Come si è detto, in passato varie discipline hanno affrontato lo studio dei manifesti, con una molteplicità di punti di vista determinata dalla complessità di questa fonte: il manifesto, infatti, può essere considerato espressione artistica, mezzo di comunicazione di massa, documento di cambiamento sociale o oggetto di mobilitazione politica. Diversi punti di vista che, nel tempo, hanno coinvolto la storia dell’arte e della grafica, gli studi sulla propaganda e la semiotica, la sociologia politica e la storia sociale. In questo libro, pur tenendo presente tale complessità d’analisi e i differenti approcci, si è scelto di lavorare principalmente con la strumentazione della ricerca storica, perché ciò che interessa maggiormente è verificare se vi siano stati – e quali, e in quali forme – mutamenti sia nell’utilizzo di questo mass-medium che nelle rappresentazioni grafiche nel corso del decennio successivo al Sessantotto. In altre parole, se l’urto destabilizzante delle nuove generazioni – spesso in contrasto col sistema di mediazione istituzionale della Repubblica e con i suoi protagonisti, i partiti tradizionali – abbia in qualche modo influenzato anche la comunicazione e la rappresentazione politica. Se, insomma, quell’azione collettiva antisistemica abbia avuto la capacità di condizionare, anche sul piano delle rappresentazioni e delle forme di propaganda, la politica italiana.
Note
1. P. Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002, p. 12. Cfr. anche F. Haskell, Le immagini della storia. L’arte e l’interpretazione del passato, Einaudi, Torino 1997.
2. I. Gaskell, La storia delle immagini, in La storiografia contemporanea, a cura di P. Burke Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 199-230, p. 199.
3. Ibidem.
4. Ivi, p. 226.
5. Ivi, p. 219. Cfr. M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1978.
6. M. Gallo, I manifesti nella storia e nel costume, Mondadori, Milano 1972.
7. Ivi, p. 12.
8. Cfr. A.C. Quintavalle, Analisi critica, in M. Gallo, I manifesti nella storia e nel costume, cit., pp. 295-315, p. 297.
9. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.
10. A.C. Quintavalle, Manifesti. Storie da incollare, Rizzoli, Milano 1996, p. 12.
11. Ivi, p. 20.
12. Cfr. S. Calabrese, Retorica del linguaggio pubblicitario, Archetipolibri, Bologna 2008.
13. M. Gallo, I manifesti nella storia e nel costume, cit., p. 119.
14. Cfr. P. Mancini, Il manifesto politico. Per una semiologia del consenso, Eri, Torino 1980.
15. Ivi, p. 84.
16. Cfr., ad esempio, il bel catalogo, curato da Pepa Sparti, L’Italia che cambia attraverso i manifesti della raccolta Salce, Artificio, Firenze 1989.
17. Per un’analisi dei manifesti attraverso la storia dell’arte cfr. J. Barnicoat, Posters. A Concise History, Thames and Hudson, New York 1985 (I ed. 1972).
18. Cfr. La politica sui muri. I manifesti politici dell’Italia repubblicana 1946-1992, a cura di C. Ottaviano e P. Soddu, Rosenberg & Sellier, Torino 2000; L’arte per la strada. I manifesti del Maggio francese, a cura di F. Freddi, Bolaffi, Torino 2008; e E. Novelli, Le elezioni del Quarantotto. Storia, strategie e immagini della prima campagna elettorale repubblicana, Donzelli, Roma 2008.
19. Secondo le indicazioni di Gianpietro Mazzoleni, in questa ricerca i due termini di «propaganda» e «comunicazione» sono stati usati come sinonimi; Id., L’incerto confine fra propaganda e comunicazione politica. Per una definizione contemporanea, in Propagande contro. Modelli di comunicazione politica nel XX secolo, a cura di A. Baravelli, Carocci, Roma 2005, pp. 43-50.
[Immagine di apertura: Franco Angeli, Corteo (1968) (gm)]