di Alberto Gaiani e Luca Illetterati
Cara ministra Giannini,
perdoni l’impudenza. Siamo due insegnanti: uno di noi due lavora nell’università, l’altro nella scuola secondaria di secondo grado, come si usa chiamarla oggi. In una scuola superiore, insomma. Entrambi ci occupiamo di filosofia. E, tra le altre cose, da anni proviamo a ragionare su come insegnarla, che senso abbia insegnarla, che ragioni possiamo trovare per convincere anche un profano che sia importante studiarla.
Parliamo di scuola, in questo caso. Dell’università, magari, un’altra volta.
Le scriviamo senza grosse pretese, solo per provare a buttare giù qualche idea nella speranza che questo esercizio possa magari servire ad attivare qualche pensiero. Lo faremo nel modo più semplice e diretto possibile. Magari suonerà brutale o grossolano, a volte. Ma è solo per amore di chiarezza.
Dire che nella scuola del nostro Paese c’è un groviglio inestricabile di questioni complesse, incancrenite, labirintiche, è dire un’ovvietà, che spesso ha messo capo a due atteggiamenti contrapposti nelle intenzioni ma vicinissimi negli esiti. ‘Lascia stare’ e ‘riforma dalle radici’. Nella nostra storia recente si è assistito spesso all’alternanza tra periodi di stasi totale e improvvise accelerazioni, strappi in avanti, riforme sedicenti radicali. Il risultato, senza che ci giriamo troppo attorno, è che a parte una leggera mano di bianco (l’inglese, l’informatica, la LIM, il libro misto, e altre cose di questo tipo) la scuola italiana da decenni rimane sostanzialmente identica a sé stessa. Lasciamo perdere per il momento se questo sia un bene o un male. Certo porta acqua ai mulini dei detrattori dell’istruzione scolastica. E parlar male della scuola facendo magari finta di parlarne bene da noi è una specie di sport nazionale, secondo solo al tiro al piccione contro i calciatori che si sono fatti sbattere fuori dal mondiale dal Costarica. Tanto per dire alcuni dei mantra che da quando eravamo studenti (un bel po’ di tempo fa) sentiamo ripetere: “le discipline sono paludate, datate, inservibili; gli insegnanti sono vecchi, demotivati, poco aggiornati (e hanno tutti i pomeriggi liberi, e tre mesi di ferie d’estate, e fanno un sacco di nero con le ripetizioni); le sedi degli istituti cadono a pezzi, manca la carta igienica, l’intonaco si scrosta”. Una schifezza, insomma.
Non che sia falso, beninteso. Però il nostro punto è un altro. Se si assume che la scuola italiana sia una schifezza da lasciare andare alla deriva o da radere al suolo senza nessuna alternativa intermedia, il gioco è fatto. Basta solo avere un po’ di pazienza per vedere come andrà a finire. Ma sul fatto che vada a finire, non c’è dubbio. La nostra condanna a morte l’abbiamo firmata noi e gli esecutori della nostra condanna a morte siamo sempre noi. I figli dei ricchi andranno a studiare all’estero o nelle scuole private che importeranno quei modelli. Gli altri li guarderanno come extraterrestri, sapendo che qualcuno ha già deciso che quelli sono i vincitori, che qualcuno ha già stabilito in partenza chi ha vinto e chi ha perso.
Sul fatto che lei non abbia intenzione di sedersi comoda e guardare la scuola implodere non abbiamo alcuna incertezza, dunque non discutiamo nemmeno l’ipotesi. Ci si affaccia alla mente il dubbio che lei abbia voglia di provare a mettere in piedi una riforma. L’ennesima. Noi, se fossimo al suo posto, la tentazione la sentiremmo bella forte. Magari una riforma che abbia in primis lo scopo di far fuori le precedenti e alcuni dei deliri che le hanno caratterizzate.
Non lo faccia. Non faccia alcuna riforma della scuola italiana. Tanto meno una Grande Riforma. Non nel breve periodo, in ogni caso. Non abbia fretta, non cerchi qualche aggancio spendibile a breve tra le ultime parole d’ordine di moda tra chi si occupa di scienze della formazione. Non cerchi una formula a effetto (‘la scuola delle competenze’, ‘la scuola dell’inclusione’) destinata a durare al massimo un quinquennio. Il tempo che una nuova moda d’Oltralpe ci apra gli occhi davanti a una nuova mirabolante scoperta pedagogica, a sua volta destinata a durare un lustro. E non si lasci troppo ammaliare dagli elogi del merito, che lì dalle sue parti vanno forte. Il merito è una di quelle parole dall’alone sacro, luminose e intoccabili che nascondono e mascherano una vera e propria selva di contraddizioni, di bugie e di implicazioni ideologiche che chi la usa – ed è questa la cosa che ci fa più terrore – nemmeno è disposto a vedere.
Parta dal basso. Cerchi di capire come stanno davvero le cose, cosa funziona e cosa no. Ascolti gli insegnanti, i dirigenti scolastici, gli studenti. Metta fondi a disposizione di ricerche che facciano il punto della situazione e sappiano evidenziare le sperimentazioni che ci sono e vanno bene e producono risultati, accanto a sacche di inedia, inefficienza, ripetitività. Non si appoggi soltanto alle università e alle società scientifiche che pretendono talvolta di sapere quello che non sanno. Consideri gli insegnanti non come l’ultimo anello della catena dell’erogazione del servizio formativo, degli esecutori materiali di progetti pensati ed elaborati altrove, ma come degli artigiani-ricercatori.
Noi ci occupiamo, dicevamo, dell’insegnamento della filosofia. Anche sull’insegnamento della filosofia grava una specie di pregiudizio negativo ormai ben radicato nel senso comune: la filosofia è inutile, è difficile, è inspendibile a livello di qualsiasi professione, è un passatempo per perdigiorno. Noi non crediamo che sia così. Crediamo che nella vita di un individuo studiare filosofia sia un’occasione importante, un’opportunità in grado di fare una differenza. Ma non se lo si continua a fare come perlopiù lo si è fatto nella scuola italiana negli ultimi settant’anni solo per inerzia, per mancanza di alternative. E dunque, che fare? La rivoluzione?
No. Ci siamo resi conto che l’unico punto sensato dal quale partire è quello che hanno fatto gli insegnanti nelle scuole in questi anni, e dunque dalla valorizzazione del loro lavoro, dalla necessità di condividerlo, di adoperarsi concretamente per creare un vero e proprio magazzino delle esperienze.
Ecco, noi le suggeriamo proprio questo.
Vede, l’insegnamento della filosofia nella scuola italiana è segnato da una storia davvero particolare. Siamo uno dei pochi paesi al mondo in cui la filosofia fa parte del curriculo scolastico e questo è legato alla nostra storia culturale. Una storia di cui i reformatores guardando a un altrove sempre migliore vorrebbero liberarsi come di un inutile e dannoso fardello. Noi certo non ne facciamo una bandiera, ce ne guardiamo bene. Ma crediamo che si debba esserne consapevoli.
Per molti aspetti la forma dell’insegnamento della filosofia è segnato indelebilmente da un suo illustre predecessore, Giovanni Gentile, e soprattutto dalla banalizzazione e manualizzazione di quel progetto complesso operata poi da altri suoi meno illustri predecessori. In ogni caso, se chi insegna filosofia lo fa soprattutto dentro una prospettiva storica, secondo un’idea di sviluppo, e se, soprattutto, insegnando filosofia si trova a insegnare anche storia (perlomeno nei licei classici e scientifici), per molti aspetti lo deve all’impostazione gentiliana, che costituisce, se ci passa l’espressione, la struttura portante per molti versi nascosta, ma ancora fondamentale, dell’architettura scolastica italiana.
Dopo Gentile, ci sono state molte e non sempre appassionanti discussioni sull’insegnamento della filosofia; discussioni che hanno coinvolto soprattutto il rapporto fra filosofia e storia della filosofia, ma l’impianto generale dell’insegnamento è rimasto più o meno lo stesso. Noi siamo convinti che questo impianto con le diverse riforme che ha subito non funzioni più. Ma non vorremmo vederlo sostituito, almeno nel breve periodo, da un altro impianto buttato su alla bell’e meglio che poi piacerà ad alcuni e dispiacerà ad altri.
Vorremmo piuttosto che ci fosse la possibilità di portare davvero a galla le diverse forme in cui questo insegnamento, a volte al di là delle norme, a volte grazie alle norme, a volte malgrado le norme, è stato riarticolato e ridefinito dentro la concreta esperienza didattica dei docenti, di chi sa che cosa significa entrare in una classe, guardare in faccia degli studenti, tentare di iniziare una strada senza sapere di preciso dove quella strada ti porterà. Crediamo che da lì possa nascere qualche cosa.
Se vuole, possiamo farle degli esempi concreti. Li abbiamo. Ce li chieda. Noi crediamo ad esempio che un buon modo per insegnare filosofia sia quello di partire dalle parole, di mostrare come la filosofia nella sua storia e nella sua pratica concreta sia in grado di problematizzare in modo radicale le parole che abitano i nostri discorsi quotidiani. Abbiamo un po’ di materiali su queste cose e vorremo condividerli. E come noi altri sicuramente ne hanno: di altro genere, con altre idee dietro, con altri esiti. Provi a metterci insieme. Ci faccia, se vuole, anche scontrare l’uno contro l’altro. Forse verrà fuori qualcosa di buono, qualcosa che ha senso, qualcosa per cui vale la pena sforzarci un po’ di più.
Poi non è detto che da questo non possa anche emergere un quadro complessivo di riforma, di ridefinizione anche normativa dei percorsi didattici. Ma non lasci che ci sia qualcuno che nelle stanzette di un dipartimento universitario o nel direttivo di una società scientifica che risponde corporativamente solo a se stessa decida che cosa è la scuola, che cosa sono le discipline nella loro peculiarità e che cosa significa insegnarle. Il tutto fuori dall’esperienza concreta della scuole, della pratica dell’insegnamento e magari nella pretesa di raccogliere sotto qualche slogan efficace, che fa godere i cacciatori delle novità, la strepitosa e formidabile pluralità di ricerche e di percorsi culturali che animano i saperi.
Ecco, noi ci siamo. E come noi moltissimi altri.
Un caro saluto
Alberto Gaiani, Luca Illetterati
[Immagine: Stefania Giannini].
Non capisco il senso di questo appello, piuttosto generico, sia sul lato della critica che su quello della proposta.
Inoltre, ho alcuni punti di dissenso.
1. Una riforma della scuola italiana ci vuole: bisogna individuare i punti più importanti, fare delle proposte, cercare di costruire un consenso intorno a esse; un appello a non fare riforme riflette il solito atteggiamento dei docenti italiani, che hanno paura e stanno sulla difensiva.
2. Non mi risulta che ci sia un pregiudizio negativo contro la filosofia: nessun propone o ha proposto di ridurne la presenza nella scuola, né di riformarne l’insegnamento; e il grande successo di pubblico dei vari festival della filosofia mostra che al contrario è un pregiudizio pensare che ci sia un pregiudizio contro la filosofia.
3. A me invece piacerebbe veder sostituito d’un colpo l’impianto storicistico del nostro programma di filosofia, lasciando più libertà ai docenti di organizzare la materia, e senza vincolarli ai manuali; in questo appello sento il solito odore di tremebonda venerazione verso la storia della filosofia in quanto tale.
Anche secondo me in effetti in questo intervento non trovo per nulla chiaro cosa intendano criticare e proporre per la scuola italiana, ad esempio non capisco il senso di affermazioni come “Se si assume che la scuola italiana sia una schifezza da lasciare andare alla deriva o da radere al suolo senza nessuna alternativa intermedia, il gioco è fatto”. Io vorrei sapere chi siano queste personalità che affermano o lasciano intendere che affermano cose del genere. Nella scuola italiana di oggi ci sono aspetti che funzionano bene (non importa quanti e quali e se sono vecchi o nuovi) ed altri che funzionano male (non importa quanti e quali e se sono vecchi o nuovi): occorre perciò una discussione per individuare gli aspetti buoni da mantenere e gli aspetti non buoni da migliorare, non c’è nessun bisogno di tirare in ballo accuse o appelli a conservatorismi o a rivoluzioni complessive della scuola (con buona pace di chi afferma che io accusi di conservatorismo i docenti), ci possono essere aspetti estremamente positivi della scuola che vengono dalla tradizione ed aspetti estremamente negativi della scuola che vengono dalle più recenti innovazioni.
Altrettanto generico e del tutto poco chiaro è la parte dedicata alla filosofia: io sinceramente vorrei sapere chi sono queste personalità che propongono di ridimensionare la filosofia in quanto “inutile” e “inspendibile”, come se non si sapesse che ci sono vasti campi della matematica e della fisica di cui ancora oggi non ci sono immediate spendibilità: non mi risulta che queste stesse personalità propongono di ridurre i finanziamenti sugli studi astrofisici sul big bang e l’origine dell’universo perché essi non sono “immediatamente spendibili”. Newton non cercava certo formule sulla caduta dei gravi per far partire razzi, né negli anni ’20 i fisici hanno formulato la meccanica quantistica perché qualcuno aveva già in mente di costruire circuiti integrati (e mi verrebbe aggiungere che in filosofia Kant non scrisse certo “Per la pace perpetua” perché già a quel tempo si chiedeva la fondazione dell’ONU). Di sicuro comunque queste personalità non sono così potenti oggi in Italia da far alzare i finanziamenti per la ricerca scientifica a livelli in proporzione a quelli di altri paesi europei.
Per il resto comunque io sarei per dare più libertà ai docenti nel metodo didattico di insegnamento della filosofia e dunque non proibirei il metodo storico che va in ordine cronologico, lascerei semplicemente che i docenti possano scegliere metodi alternativi. Peraltro mi stupisco che non ci sia un invito ad allargare l’insegnamento della filosofia, magari anche se in modo meno approfondito, nelle scuole non liceali, ovvero i tecnici e i professionali, questo sì che troverei una svolta rilevante. Spero che nessuno mi dica che sono un pericoloso accusatore di conservatorismo (o addirittura di gentilianesimo, come se avessi detto che ci fossero davvero ancora docenti che vorrebbero una scuola non di massa) e nemico della tradizione liceale italiana se io affermo che i tecnici e i professionali devono essere trattati come istituti dalla formazione non più bassa ma al pari di quella dei licei e che i studenti dei tecnici e professionali sono studiosi non meno di quelli liceali, a meno che non si dica per analogia con gli istituti informatici e di agraria, che i corsi di laurea di informatica e di scienze e tecnologie agrarie siano di formazione più bassa che i corsi di laurea di lettere classiche o di filosofia. Forse posso ammettere che in passato mi sarò espresso in modo ambiguo e chiedo scusa per casi del genere ma ricordo sempre l’utilizzo del principio di carità per l’interlocutore e perciò non si interpreti il mio intervento nel senso “se si vuole dare più valore a quell’indirizzo scolastico allora necessariamente lui intende che si deve dare meno valore a quell’altro indirizzo e alle materie ad esso collegate”.
A me sembra che i due autori vogliano dire soprattutto questo: “cara ministra, invece di affrettarsi a fare l’ennesima riforma epocale raffazzonata con tanti slogan, che la prossima maggioranza di governo disferà per farne un’altra eguale o peggiore, provi a prendersi il tempo e l’agio di rifletterci su, per proporne una finalmente organica.”
Se ho letto giusto, mi pare abbiano più che ragione.
Difficile dare torto al prof. Israel [http://gisrael.blogspot.it/2014/07/ristrutturiamo-le-scuole-ma-basta.html]:
… “Ora si apprende che un altro poderoso progetto epocale sta prendendo forma. Riguarderebbe nientemeno che la riforma globale dei cicli scolastici. È evidente che si sta consolidando l’idea di ridurre i licei a 4 anni, con la tecnica efferata di evitare le discussioni di merito e creando il fatto compiuto con le “sperimentazioni”. Ma qui si va oltre, riesumando un progetto di ben 15 anni fa, la riforma dei cicli dell’ex-ministro Berlinguer, che prevedeva un ciclo primario settennale e un altro superiore quinquennale. Sembra che non sia stata assimilata la lezione di quali disastri abbiano compiuto anni di riforme contraddittorie e sgangherate e di esperimenti avventati “in corpore vili” e che non ci si acconci ad affrontare una fase di calma riflessione, limitandosi a rimettere in funzione il funzionamento ordinato del sistema”…
Ma invito a leggere per intero l’intervento di Israel, che tocca tutti i temi trattati di recente anche su LPLC, nei post
“Chi dovrebbe essere pagato di più, a scuola” [http://www.leparoleelecose.it/?p=15706#comment-257186]
“La scuola non serve a niente” [http://www.leparoleelecose.it/?p=15671] e
“Cinque cose da fare per la scuola” [http://www.leparoleelecose.it/?p=15578]
E’ vero, la filosofia non è in discussione (almeno, non più di altre materie umanistiche) e sotto questo aspetto le critiche sono fuori fuoco. Ma andiamo alla sostanza.
I licei sono in crisi, il classico e lo scientifico stanno perdendo iscritti, alla fine anni e anni di sbertucciamento e di troppo pallida difesa dell’inutilità della cultura liceale stanno dando i loro frutti. La filosofia (e, aggiungo io, il latino) sono caratterizzanti del percorso liceale. Dunque, per proprietà transitiva, la filosofia è in crisi.
Gli estensori della lettera semplicemente vogliono ricordare che in questi anni abbiamo assistito a un delirio di “riforme” che hanno peggiorato solo la situazione e invitano dunque a guardare le cose dal basso, da vicino: l’unico punto di vista dal quale si possa cambiare un’attività eminentemente pratica, artigianale, fallibile, come la didattica.
A questa esigenza cosa oppone di solito la politica? Tagli ragionieristici, riforme dei curricoli e dei frame generali generalissimi, … Se opporsi a questo modo di ragionare significa essere conservatori, be’, io sono conservatore e me ne vanto.
Per questo, e mi rivolgo al mio amico Mauro Piras, quando si contrappongono atteggiamento conservatore e riforme radicali bisogna capirsi: parliamo di didattica o di aspetti tecnico-organizzativi e latamente politici? Ad esempio io sono assolutamente d’accordo con te nel criticare l’esposizione cronologica (né più storica, né più storicistica ormai) della filosofia e della letteratura e vorrei cambiamenti radicali. Ma le prassi didattiche si cambiano con tanta pazienza e tanta fatica e dal basso. In questo forse siamo tutti d’accordo e noi e gli estensori della lettera stiamo dalla stessa parte. O no?
Ma andiamo ancor di più alla sostanza: sul tavolo delle proposte governative al momento sono rimaste l’accorciamento di un anno delle superiori e la valutazione degli istituti. Sarebbe lungo discorrerne, mi limito a dire che la seconda è irricevibile, sia perché non ci allinea all’Europa, è una manfrina (il sistema scolastico a 18 e 19 anni sono entrambi ben attestati in Europa), sia perché si ragiona di scuola al solito in termini di risparmio, razionalizzazione, forze fresche per il mercato del lavoro, sia perché se tutta la nostra didattica è fondata da decenni sul 2+3 e oggi la nostra didattica non è in salute, sconvogerla nella complessione con un taglio di machete è la via peggiore che si possa scegliere per curarla.
La seconda proposta invece è criticabile per tantissimi aspetti. Eccone alcuni, espressi da chi non è un insegnante conservatore, ma ha lavorato per anni proprio alle prove standardizzate: http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/05/09/news/test-invalsi-cosa-deve-cambiare-1.164617
Dunque io sottoscrivo questa lettera e il fatto di essere in disaccordo su alcuni punti specifici (lo sono) non mi impedisce di essere d’accordo in linea di massima.
@ Daniele Lo Vetere:
io non so quali siano i dati empirici che possano far concludere che “i licei sono in crisi, il classico e lo scientifico stanno perdendo iscritti”: da quanto leggo qui mi risulta sia vero l’esatto contrario:
http://www.repubblica.it/scuola/2014/03/26/news/iscrizioni_2014_storico_sorpasso_dei_licei_sugli_istituti_tecnici-81973165/
“Il dato odierno in realtà è anche frutto di un processo che negli ultimi anni ha visto un costante aumento di diplomati della scuola media orientati verso la scelta del liceo: dal 46,2 per cento del 2010/2011 si è arrivati al 50,1 per cento del prossimo anno scolastico. Una percentuale che probabilmente sarà destinata ad incrementarsi negli anni successivi al primo perché i tassi di dispersione – abbandoni, bocciature ed evasioni – nei licei sono nettamente inferiori.”
“Dieci anni fa, le scelte degli studenti delle medie erano diverse. Nel 2004/2005 i liceali iscritti al primo anno delle superiori erano 42 su cento e solo sette anni prima – nel 1997/1998 – coloro che dopo le medie sceglievano il liceo erano ancora meno: 38 su cento.”
I dettagli delle ultime iscrizioni sono qui:
http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/Notizie/2014/03/tabella-indirizzi.pdf
il liceo classico come si vede è calato ma solamente dello 0,1% in un anno, mentre lo scientifico è aumentato dello 0,2%. Dunque mi pare proprio che i dati confutino il ritenere che sia presente una crisi degli indirizzi liceali. Semmai come già detto, bisognerebbe aprire una discussione su quale può essere il ruolo odierno di un insieme di indirizzi raggruppato come “licei” nella società attuale e e occuparsi anche di quello dei tecnici e dei professionali e chiedersi di conseguenza se non è in qualche modo da ripensare questa tripartizione (e per favore si eviti di ritenere questo mio invito come qualcosa che “invita a smantellare tutto ciò che di buono hanno fatto i licei per decenni”). Per quanto riguarda l’accorciamento di un anno delle superiori lo trovo qualcosa che di per sé non è né bene né male ma dipende da come si accorcia, ho trovato qui una testimonianza abbastanza positiva di una di queste sperimentazioni (da pag. 44 a pag. 49):
http://www.sfi.it/archiviosfi/cf/cf32.pdf
Comunque la mia impressione è che più che un accorciamento di un anno delle superiori occorrerebbe far sì che ci sia un salto meno brusco dal terzo anno di scuola media al primo anno di scuola superiore, in modo che il percorso unitario della scuola media rimanga in buona parte in uno o due anni successivi di transizione permettendo allo studente di comprendere più agevolmente a quale indirizzo è più portato. Per quanto riguarda le prove standardizzate, sono certo criticabili, basta che però si ammetta che sono tentativi di cura a malattie che realmente esistono nella scuola e occorrono dunque reali alternative se non si vuole che le malattie rimangano. Tutto questo, lo ripeto ancora, senza tirare in ballo equazioni banali come “conservare (non importa cosa) = cattivo” o “innovare (non importa in che modo) =buono” dato che bisogna discutere caso per caso se un certo aspetto della scuola di oggi è da migliorare e se sì in che modo compiere questo miglioramento.
Ammetto che sul liceo classico non mi basavo su dati ma su voci vive di colleghi. Forse dipende da regione a regione, da provincia a provincia. La mia impressione di crisi dipendeva da questo. In effetti proprio ieri ho saputo che nella mia provincia quest’anno c’è stata una lieve inversione di tendenza al classico.
Sul resto le discrepanze si spiegano abbastanza facilmente e non smentiscono la sostanza del mio discorso.
La riforma Gelmini ha esteso il concetto di liceo, creandone di nuovi o mettendo quell’etichetta a percorsi che una volta si chiamavano in altro modo. Nominalmente e statisticamente, perciò, sembra che ci sia stata una crescita dei licei e una diminuzione dei tecnici e professionali. Ma attenzione: poiché le parole sono piene di connotazioni e la parola “liceo” in Italia ha connotazioni ben precise, chiunque legga notizie come quelle da te riportate e non abbia sulla punta delle dita la riforma Gelmini si fa un’opionione distorta, perché pensa al “vecchio” liceo e ai “vecchi” tecnici e professionali. Alle interpretazioni dei lettori bisogna pensare. I dati non bastano, le statistiche nemmanco.
Nel liceo scientifico rientra ormai anche l’indirizzo tecnologico, che non ha il latino.
Sarò all’antica, ma chiamare liceo una scuola senza latino, mi pare un arbitrio linguistico e una confusione concettuale.
A conti fatti e ammesse alcune approssimazioni, la sostanza tiene: la cultura umanistica non è messa bene. Di sicuro non stava a cuore alla Gelmini.
Ho appreso di recente che c’è pure il liceo sportivo.
Lancio una raccolta di firme per l’istituzione del liceo erotico, visti anche i recenti sviluppi della situazione in Grecia, patria del Liceo con la maiuscola. Se non specializziamo i nostri giovani, dovranno subire la concorrenza globale e contentarsi di tariffe all’osso:
“GRECIA: TRIONFO DEI CONSUMATORI. L’OFFERTA SALE DEL 1,500% RISPETTO ALLO SCORSO ANNO. I PREZZI SCENDONO A VENTI/TRENTA EURO A SERVIZIO.
Si tratta,ovviamente, della prostituzione.
La ricerca, condotta dal Dipartimento di criminologia della Università Panteion e NCSR ( National Center for Social Research) e l’Ombudsman greco ha censito il drammatico incremento notando una cospicua percentuale di studentesse che ha dichiarato di essersi prostituita per mantenersi agli studi.
Le giovani si sono lamentate con gli intervistatori di un recente forte calo della domanda che ha provocato una decisa diminuzione dei prezzi e la nascita di numerosi bordelli privi della licenza di polizia.”
http://corrieredellacollera.com/2014/07/30/grecia-trionfo-dei-consumatori-lofferta-sale-del-1500-rispetto-allo-scorso-anno-i-prezzi-scendono-a-ventitrenta-euro-a-servizio/
Sì, Buffagni, esiste anche il liceo dello sport, e, a proposito di etichette avariate, rientra nel liceo “scientifico”.
Ah, per evitare fraintendimenti, per me di educazione fisica bisognerebbe farne di più e meglio in tutte le scuole.
Non è naturalmente questa la ragione del sarcasmo sul liceo sportivo.
Non sono neanch’io il massimo esperto di statistiche ma mi risultava che la riforma Gelmini avesse semplicemente riordinato e definito in modo stabile indirizzi come il liceo artistico e il liceo musicale e coreutico che in precedenza erano già presenti da decenni come sperimentazioni provvisorie.
Non so se nell’articolo sopra citato di Repubblica i dati pre-Gelmini includessero anche queste sperimentazioni, comunque anche considerando solo gli indirizzi in cui il latino è obbligatorio (classico, linguistico, scientifico tradizionale, scienze umane tradizionale, europeo internazionale) risulta che dal 2013 al 2014 le iscrizioni in totale sono comunque aumentate dal 35,9% al 36,1% (il liceo scientifico tradizionale è calato un po’ del 0,6% ma il liceo scientifico scienze applicate rimasto invariato e altri licei con latino obbligatorio come linguistico e scienze umane tradizionale sono in aumento). Se poi vediamo anche gli iscritti 2012/13 qui:
http://www.west-info.eu/files/iscrizioni-per-indirizzo.pdf
troviamo che gli iscritti a indirizzi con latino in quell’anno erano il 30,4%, dunque di nuovo non si comprende dove sia questa crisi del liceo restringendo pure il termine “liceo” a dove è obbligatorio il latino. Poi non so a quale percentuale dovrebbero arrivare i licei classici e i licei scientifici tradizionali affinché non si possano definire “in crisi” (a meno che non si voglia fare paragoni con i tempi pre-anni ’70 in cui solo il liceo classico garantiva l’accesso a tutte le facoltà universitarie). Tuttavia per un confronto europeo ho trovato questo documento risalente al 2008:
http://www.treellle.org/files/lll/QA1.pdf
A pag. 39 è presente una tabella sul numero di allievi che studiano lingue classiche in italia dal 1901 ad oggi. Escludendo i dati prima del 1962, quando il latino si studiava anche alla scuola media, scopriamo che di fatto i dati più bassi sono quelli del 1980 e del 1990, rispettivamente del 34% e del 32% mentre nel 2005 il dato sale addirittura fino al 41%, a livelli uguali a quelli del 1970. A pag. 35 il confronto con altri paesi europei, con dati sempre del 2005. Se noi italiani dovremmo lamentarci ritenendo che gli iscritti ai veri “licei” siano troppo pochi per il nostro paese della Città eterna e della Magna Grecia allora io mi chiedo quanto dovrebbe disperarsi la Germania, paese con un’enorme tradizione di filologi, archeologi e classicisti, dove gli studenti che alle secondarie studiano lingue classiche nel 2005 erano tra il 5 e l’8%.
Tutto questo discorso naturalmente non ha toccato il discorso della legittimità di usare la presenza e quantità delle lingue classiche come “metro unico” per valutare lo stato della cultura umanistica in Italia e se usare la parola “liceo” non rischi di far pensare che certe scuole di oggi debbano avere ruoli che non possono più avere a causa della società attuale. Ripeto non sto dicendo che qualsiasi cosa legata al liceo gentiliano sia da buttare, ad esempio una delle peculiarità che ritengo noi italiani dovremmo essere orgogliosi di avere è l’insegnamento obbligatorio di filosofia, a ribadire che qui non c’entra il “conservare o innovare” ma il “cosa conservare e cos’altro rinnovare e come”.
@ roberto buffagni:
Ma come? Cosa c’è di più liceale e legato alla tradizione classica dello sport? E le gloriose tradizioni dei giochi panellenici? Per punizione vada a leggersi tutti gli Epinici di Pindaro e Bacchilide! Altro che i giornalisti attuali della Gazzetta dello sport :-)
Scherzi a parte (e quindi senza tirare in ballo l’Ars amatoria per un futuro liceo erotico), tutto questo conferma che certe etichette come quella di “liceo” risultano legate fin troppo a contesti culturali e sociali diversi dal nostro e a questo punto tanto vale la pena ridiscutere l’attualità della tripartizione attuale licei-tecnici-professionali, fermo restando che dovrà pur sempre continuare ad esistere un indirizzo scolastico specializzato appositamente a valorizzare la cultura classica e che tutto ciò che di buono è presente nei licei attuali non specializzati in studi classici mi pare si possa conservare in futuro anche con uno studio della cultura classica meno approfondito (non dico neppure assente, anzi come ho detto altrove un po’ di cultura classica dovrebbe essere presente maggiormente anche in tecnici e professionali), a prescindere se in futuro chiamare o no “licei” questi indirizzi scolastici.
Lancio un’altra raccolta di firme: nei licei sportivi, pancrazio obbligatorio (per maschi e femmine, ci mancherebbe).
Certo, la riforma Gelmini voleva solo riorganizzare gli indirizzi…
Continuiamo, brandendo le statistiche, a creare alibi e distrazioni per non vedere la ciccia.
Io studierò le statistiche, ok, e scoprirò che i licei non sono in crisi, va bene. Tu, Michele, studia un po’ la riforma Gelmini, che non ha “semplicemente riordinato e definito in modo stabile indirizzi come il liceo artistico e il liceo musicale e coreutico che in precedenza erano già presenti da decenni come sperimentazioni provvisorie”, ma ha raso al suolo ogni sperimentazione. Ed è la cosa meno grave che ha fatto. Risparmio l’elenco delle altre, son ben note.
Passo e chiudo
Per la cronaca io comunque ho fatto solo notare che dal punto di vista del numero di iscritti i licei non sono in crisi, non dal punto di vista di altri parametri. Per quanto riguarda la riforma Gelmini (che non lodo certo per moltissimi aspetti, come il modo di far cessare le sperimentazioni, che per loro definizione sono temporanee), a me risultava che in questa riforma la riduzione del monte ore totale e la conseguente modifica della distribuzione di ore per materie era minima proprio nel liceo classico e che più gli indirizzi scolastici erano diversi dal liceo classico più il numero di ore crollava e faceva mutare in modo drastico tempi e modi di insegnare le singole materie (non porto numeri per non annoiare). Dunque mi pare che se diciamo che la Gelmini non è stata benevola con i Licei allora che aggettivi diamo per il suo atteggiamento verso i tecnici e i professionali? Comunque anch’io a questo punto non ho più granché da aggiungere…
Segnalo, anche se immagino vari immagino abbiano già dato un’occhiata, il piano per la scuola messo online stamattina dal governo:
http://passodopopasso.italia.it/video/la-buona-scuola
Dato che la carne al fuoco qui è moltissima, mi piacerebbe che ci si soffermasse qui non tanto su questioni già accennate in altri spazi di questo sito, come l’assunzione, i concorsi e le graduatorie dei docenti, nonché i temi della valutazione e come e cosa principalmente insegnare a scuola ma piuttosto su due temi meno trattati e discussi: l’autonomia scolastica e il legame tra la scuola e il mondo del lavoro.
Io personalmente ritengo che la scuola debba avere molta più autonomia e molto meno centralismo proveniente dallo Stato-amministrazione in quanto le società locali con relative famiglie e studenti dal basso dovrebbero avere molta più voce nel decidere i valori culturali e formativi della scuola per permettere una personalizzazione della formazione, (naturalmente restando d’accordo sull’obbligatorietà per tutti di imparare capacità di base linguistiche, storiche e matematico-scientifiche).
Inoltre si dovrebbe smettere, nel legame tra mondo della scuola e mondo del lavoro, di pensare che ci siano scuole “alte” e da “nobili” del conoscere teorico, disinteressato e astratto (ovvero i licei) e scuole “basse” e da “servi” del fare pratico, utilitaristico e concreto (ovvero i tecnici e professionali). Io invece ritengo che non esista un sapere che non si traduca in operazioni pratiche (che cosa sono le scienze senza i laboratori e gli esperimenti? E la matematica senza i problemi concreti del mondo reale da cui sorge?) e che non esistano competenze pratiche che non abbiano incorporato in esse un sapere teorico e che non siano indissolubilmente legati a una consapevole ed autonoma visione del mondo e della società (in epoca in cui le innovazioni tecniche e i cambiamenti culturali si susseguono nel giro di una sola vita nessun lavoratore dovrebbe solo conoscere come far funzionare con le mani macchinari che diventano obsoleti in breve tempo). Percorsi di alternanza e di stage dovrebbero perciò essere d’obbligo in tutti gli indirizzi. E prima che qualcuno gridi al pericoli di “aziendalizzazione”, “mercificazione” e “tecnocratizzazione” della scuola ci si chieda se per caso non si ha una visione davvero consapevole e fondata sull’esperienza della realtà della società attuale.
Per la cronaca, dimenticavo di aggiungere che la proposta di Renzi per la scuola la trovo in sostanza del tutto deludente: di fatto concordo molto con il seguente commento di Giuseppe Bertagna:
http://www.famigliacristiana.it/articolo/la-scuola-un-occasione-persa.aspx
insomma, il governo si è soffermato alla fin fine su provvedimenti sì positivi ma legati a questioni di secondo piano (fine del precariato, sparizione supplenti…) e quindi i veri problemi non sono stati affrontati.
@ Caro Michele Dr, Lei vuole saltare dalla brace alla padella? Non Le è bastato che Giuseppe Bertagna abbia contribuito a destrutturare la scuola italiana con la Moratti e con la Gelmini, in qualità di pedagogista di riferimento delle ‘riforme’ attuate da quei ministri? Se il progetto di Renzi-Giannini fa semplicemente schifo, essendo del tutto funzionale alla mercatizzazione e alla privatizzazione dell’istruzione, nonché alla sua integrale sussunzione, via ‘Jobs Act’, all’impresa, questa non è una buona ragione per dare credito ai sermoni ammanniti da Bertagna su “Famiglia Cristiana”. L’ottica che caratterizza il progetto del ‘boy-scout’ fiorentino è infatti la stessa che caratterizza il progetto berlusconiano dell’Aprea (la scuola delle “tre i” e della parola d’ordine “tutto il potere ai presidi!”), ed è così smaccatamente aziendalista, che i suoi miserabili artefici si spingono ad attribuire alla scuola non solo una formazione tutta schiacciata sulle esigenze produttive delle aziende, ma perfino il ruolo consistente nel “commercializzare i prodotti della didattica” (sic!). E’ proprio vero che “quos Juppiter vult perdere prius dementat”!
@ Eros Barone:
guardi, non nutro simpatie né per la riforma Moratti né per la riforma Gelmini (altrimenti non sentirei adesso il bisogno di una reale e radicale riforma) e comunque faccio notare che lo stesso Bertagna in quella sua intervista critica proprio gli interventi di Renzi che riprendono quelli della Moratti come le “tre I” in quanto ” non cambiano di una virgola i problemi di fondo” e “non cambiano il paradigma della scuola”. Comunque a me interesserebbe soffermarmi in merito sulle argomentazioni che sorreggono le opinioni e non su chi esprime certe opinioni sulla scuola e sul confronto con le sue opinioni passate (certo a volte cambiare idea può essere segno di opportunismo e trasformismo ma a volte anche non cambiarla può essere segno di pigrizia intellettuale).
Sinceramente io trovo davvero superata questa idea della scuola da tenere lontana dal mondo del lavoro con motivazioni del tipo che non deve sporcarsi con gli interessi immediati dell’economia, della produzione e del lavoro, allo scopo di evitare la subordinazione allo sviluppo capitalistico e all’alienazione del lavoro concepito come sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nella nostra società il susseguirsi di nuove conoscenze e di applicazioni di esse percepibili nell’arco di una sola vita e il contatto sempre più inevitabile tra culture diverse fa sì che l’acquisizione di sapere è necessaria nell’arco di tutta la vita e nei più diversi ambiti della vita e mi pare abbia fatto saltare da tempo la vecchia separazione tra arti liberali e arti meccaniche o tra otium e negotium. Insomma, si dovrebbe realmente ripensare certe visioni del mondo con una concezione più consapevole e legata all’esperienza reale della società attuale.