cropped-richter-untitled-4-3-03-2003.jpgdi Alberto Casadei 

[È appena uscito Letteratura e controvalori. Critica e scritture nell’era del web (Donzelli) di Alberto Casadei. Presentiamo il primo capitolo del libro. Ricostruendo la fortuna recente che ha avuto l’opera di Erich Auerbach, Casadei propone una poetica e un’idea di realismo diverse da quelle che alcuni critici e scrittori contemporanei ricavano da Auerbach] 

Mimesis di Erich Auerbach è stato oggetto di un’ampia fase di rilettura soprattutto a partire dal cinquantenario della sua prima pubblicazione (1946), mentre l’intera opera di questo critico è stata reinterpretata in convegni che si sono tenuti a cinquant’anni dalla morte (1957): le celebrazioni sono avvenute in tutto il mondo occidentale, dalla Germania alla Francia agli Stati Uniti.

In Italia, dopo molti altri, sono usciti nel 2013 due notevoli contributi di Riccardo Castellana e Giuseppe Tinè, che sintetizzano tutte le acquisizioni più importanti di questa fase, fornendo una bibliografia esaustiva (e cfr. pure Tortonese 2009) ma anche ulteriori apporti e analisi. Indubitabile è comunque il ruolo centrale, nell’ambito della critica letteraria novecentesca, attribuito attualmente ad Auerbach da molti fra i maggiori specialisti italiani e stranieri: tra gli altri, su aspetti essenziali delle sue opere sono intervenuti Hayden White, Edward W. Said, Francisco Rico, Philippe Hamon, George Steiner, Stephen Greenblatt, Alberto Varvaro, Carlo Ginzburg, Francesco Orlando, Cesare Segre, Romano Luperini e Guido Mazzoni, che ha anche riesaminato il problema della rappresentazione seria del quotidiano nel suo volume Teoria del romanzo (2011; per un panorama della ricezione di Mimesis, si veda Donà 2009).

Certo, dall’insieme dei tanti contributi emergono dati a volte contraddittori. Per esempio, Auerbach, nella sua formazione e nella stesura del suo lavoro più noto, sarebbe stato influenzato da Vico, riletto attraverso Humboldt e Troeltsch (si veda in particolare Battistini 2009); Hegel e la filosofia romantico-idealistica tedesca; Dilthey e l’ermeneutica; Nietzsche, Spengler, Bultmann e molti altri. Il suo capolavoro seguirebbe un andamento sincopato, affine a quello delle narrative moderniste, ma anche uno classico-ottocentesco, dimostrando di puntare all’insieme e alla totalità. La sua stilistica non è solo legata a uno scavo locale (come quella di Spitzer) ma si inserisce direttamente nell’analisi delle grandi epoche storiche. La sua filologia si coniuga con una filosofia della storia e mira quindi a una sintesi alta e fruibile, al contrario del regesto analitico e iperspecialistico del Curtius di Letteratura europea e Medioevo latino (Curtius 1948). La sua visione letteraria sembra avere un chiaro teleologismo, che valuta i vari tipi di realismo in rapporto a quello dell’Ottocento francese, e tuttavia molti grandi capolavori vengono valutati adeguatamente pur non rientrando nella linea che porta al superamento della separazione degli stili. Soprattutto, da Mimesis si ricava, a seconda dell’angolatura del lettore e interprete, un’idea precisa, nebulosa, flessibile, zigzagante di realismo: e in sostanza, come recitano i sottotitoli del saggio, una storia della rappresentazione della realtà nella prospettiva del cambiamento dell’esperienza che l’uomo ha di sé (nell’edizione originale: Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, seguito da Eine Geschichte des abendländischen Realismus als Ausdruck der Wandlungen in der Slebstanschauung des Menschen; sulle implicazioni dei vari termini, si vedano almeno Donà 2009 e Tinè 2013, pp. 97 sgg.).

È opportuno notare preliminarmente che la nozione di mimesis, a partire da Platone e Aristotele, è stata connotata in modi assai diversi tra di loro, se non addirittura opposti, come ha ben osservato da ultimo Paolo Tortonese (2013); essa si associa più a una potenzialità creativa umana nel riproporre in varie forme il reale o mondo esterno; non coincide quindi con il realismo in quanto insieme di pratiche volte a ottenere una perfetta credibilità artistica e specificamente letteraria, raggiunta soprattutto con la rappresentazione seria del quotidiano nei romanzi ottocenteschi. In ogni caso, anche il concetto di realismo è soggetto a continui aggiustamenti (per la tradizione letteraria, si veda Bertoni 2007): e la stessa componente realistica andrebbe adesso misurata sulla scorta delle nuove concezioni allargate della percezione del mondo esterno, fra scienze cognitive e filosofia (si vedano almeno Ferraris 2013 e D’Agostini 2013, e qui il cap. ii).

Come si può notare anche solo dai brevi riferimenti sopra riportati, non è possibile parlare di Auerbach e di Mimesis in modo univoco: probabilmente, uno dei punti di forza di questo capolavoro della critica novecentesca è proprio la sua grande capacità di porre in evidenza snodi effettivamente riscontrabili nei testi senza dover rispettare una teoria astratta o un principio interpretativo rigido. Hamon (2009, p. 205) ha sottolineato i seguenti fattori di realismo individuabili in Mimesis: il serio; la mescolanza di registri, stili, argomenti, personaggi; l’assenza di censure riguardo ai possibili argomenti; la figuralità; l’inserimento delle vicende fittizie dei personaggi in una Storia accertabile; la rappresentazione della vita quotidiana (per un’ulteriore e più coerente classificazione, cfr. Castellana 2013, p. 153). Sono fattori eterogenei e comunque applicati in modo non sistematico, e tuttavia non si potrebbe sostenere che non si tratta di aspetti essenziali per distinguere il realismo basato sulla rappresentazione seria del quotidiano rispetto ad altri, in particolare quello figurale, che ha avuto il suo culmine nel poema dantesco, e quello esistenziale-creaturale, che ha avuto numerose declinazioni a partire soprattutto dal Quattrocento. Nelle varie fasi, poi, emergono nelle opere esaminate altri aspetti di realismo, variamente classificabili, come ha fatto, con acuta minuziosità, Francesco Orlando (2009).

Si potrebbe insomma sostenere che Auerbach era di certo attento a rispettare alcune linee-guida nella sua analisi di testi, mutuate da Vico e dalla grande filosofia idealistica e storicista tedesca dell’Ottocento, che comunque dovevano riportare a categorie generali le modalità di rappresentazione della realtà quotidiana, fondata prima di tutto sulle azioni nel mondo esterno (solo in subordine sull’interiorità e pochissimo sull’inconscio). Ciò consentiva di proporre un’idea di stile legata nient’affatto alla sola forma e all’individualità, e nemmeno a un’evoluzione meramente retorica (i topoi di Curtius), bensì a una modellizzazione dei contenuti storici, sempre più capace di annettere quanto prima considerato irrilevante, specie dopo gli sconvolgimenti seguiti alla Rivoluzione francese. Significativamente, fra le recenti acquisizioni, che si devono soprattutto all’impegno di Riccardo Castellana e Christian Rivoletti (cfr. Auerbach 2010 e 2014), si possono segnalare le traduzioni italiane di saggi come Romanticismo e realismo (1933) e Sull’imitazione seria del quotidiano (1937) che non solo argomentano anche più ampiamente, rispetto a Mimesis, questioni di carattere storico-culturale, ma soprattutto forniscono ulteriori motivazioni, persino biografiche, per le varie forme di realismo del quotidiano riscontrabili in Stendhal, Balzac e Flaubert.

Dato conto, sia pur molto parzialmente, dell’emblematicità dell’opera auerbachiana, dovremo ora porre alcune questioni. La prima riguarda i motivi di questo Auerbach-revival, dopo che, per alcuni decenni, il suo ruolo era rimasto piuttosto secondario, per esempio rispetto a quello esercitato da Bachtin sull’ampio territorio dell’intertestualità e dei temi folklorici, oppure da Benjamin sull’arte e la letteratura nell’epoca della riproducibilità. Almeno due sono i fattori che hanno agito nel rilancio di Mimesis come capolavoro della critica novecentesca: da un lato, il peso sempre minore delle teorie letterarie (in particolare linguistico-strutturaliste-semiotiche e poi decostruzioniste), che avevano contribuito ad annullare o a ridurre fortemente la rilevanza delle ricerche di tipo storico e stilistico, e hanno spinto a sondare il problema del realismo dall’angolatura del barthesiano effetto di realtà; dall’altro, la ricerca di una modalità di analisi letteraria che non si limiti a cataloghi scarsamente formalizzati (come avviene in molti esempi di critica tematica o di Cultural Studies in tutte le possibili accezioni) o a prese di posizione ideologico-militanti, ma consenta invece una messa in prospettiva, storica e insieme variamente filosofica.

L’obiettivo è insomma quello di proporre una nuova sintesi dei tratti principali che scandiscono l’evoluzione letteraria dal periodo ebraico-greco-latino alla contemporaneità, aspirando a una totalità attraverso l’indagine di esempi-campione e grazie a un confronto sistematico con le ricerche più significative nelle varie discipline correlate (dalla psicanalisi sino alla sociologia dei comportamenti). Un impianto come quello di Mimesis, insomma, consente di superare l’eccessivo specialismo filologico-erudito, l’astrattezza delle dicotomie strutturaliste o affini, il mero contenutismo dei vari tipi di Cultural Studies, la faziosità delle poetiche militanti; su un altro piano, il metodo di Auerbach consente, con i suoi sondaggi a campione, un attraversamento mirato e connotato di territori affollati e apparentemente indifferenziati.

A questo punto, tuttavia, sembra anche necessario porre in rilievo alcuni limiti che, da più parti, sono stati indicati nell’opera auerbachiana riguardo sia all’impostazione esegetica, sia alle singole valutazioni di fasi della letteratura prima e dopo la svolta romantico-realistica. Più oltre si esamineranno gli aspetti puntuali più discutibili, ma intanto occorre partire da alcuni macroproblemi. Il primo concerne la concezione stessa del realismo letterario. Lasciamo da parte le microscopie terminologiche e concentriamoci sulle implicazioni più forti. Secondo la concezione auerbachiana, esistono fattori socio-culturali che consentono di includere aspetti della realtà quotidiana, ossia della cronaca e della storia accertabili o ricostruibili, nella rappresentazione letteraria. La prima contrapposizione generale è quella fra cristianesimo, che nel suo sermo humilis può rappresentare fatti alti e tragici (persino la morte di Cristo figlio di Dio), e mondo greco-latino che, pur con vari accenti, ha predisposto una rigida separazione degli stili, corrispondente in sostanza a una altrettanto rigida in classi sociali, la quale obbliga gli scrittori a trattare gli elementi bassi e quotidiani in modo comico, e a riservare il livello tragico agli eventi e ai personaggi eccezionali (nobili, eroi ecc.; si noti fra parentesi che, se allargassimo lo sguardo alle arti, queste affermazioni non sarebbero più valide, e ciò costituirebbe una discrasia degna di approfondimento). La seconda e definitiva contrapposizione o svolta è quella successiva agli sconvolgimenti avvenuti, in Francia e in Europa, soprattutto fra il 1789 e il 1830, quando anche persone umili o borghesi hanno avuto un ruolo decisivo nei cambiamenti storici: da quel momento, indipendentemente da qualunque sfumatura religiosa, la vita normale di personaggi normali è stata dotata di un valore emblematico in sé (e non solo per un processo di tipo figurale). Semmai, il punto che Auerbach coglie è che questa fase di realismo quotidiano già tende a esaurirsi alla fine del XIX secolo, tanto che con il XX si passa a un realismo molto più psicologico e intimista, fondato su singoli momenti rilevanti per un individuo benché non altrettanto sul piano storico-sociale: comunque, anch’essi sono tali da permettere di ricostruire ulteriori aspetti della vita di uomini contemporanei.

Un problema che si pone è il seguente. Se la tendenza della letteratura era quella ad ampliare sempre più gli ambiti del rappresentabile, in narrativa ma anche in poesia (dove diventa decisivo lo scavo degli strati sommersi e inconsci dell’individuo), come dobbiamo valutare ora la capacità di rappresentazione del mondo manifestata in opere fortemente immerse nella concezione precedente, quella che genericamente possiamo definire Stiltrennung in contrapposizione alla Stilmischung? Perché consideriamo tuttora rilevanti testi di Virgilio o di Racine o di Molière, al punto che lo stesso Auerbach afferma che «certamente Molière è realista tanto quanto Balzac» (Auerbach 2010, p. 53), sebbene il suo stile sia completamente diverso? La risposta in genere è stata quella della possibilità di individuare motivi di interesse realistico persino là dove la separazione degli stili era strettamente praticata, per esempio nell’ambito del grande classicismo francese; tuttavia, questa concessione comporta un’implicazione, ovvero che è possibile ritrovare in qualunque epoca elementi che riguardano aspetti della realtà esperibili come rilevanti anche adesso, sebbene non legati alla quotidianità e non espressi in stili misti.

Questa constatazione induce a sottolineare due mancanze nell’impianto auerbachiano. In primo luogo, la categoria di tradizione non è sufficientemente dialettizzata, e ciò impedisce di cogliere il dare e l’avere di ogni autore in rapporto al patrimonio letterario che si trova a ricevere. L’intertestualità in Mimesis non è considerata che minimamente, e questo per esempio non consente di sottolineare a sufficienza l’influsso dell’auctoritas virgiliana in Dante e nella concezione stessa del suo poema, nel quale mondo classico e mondo ebraico-cristiano sono, per alcuni fondamenti, in piena continuità e non in contrapposizione (e in effetti, a Dante e Virgilio Auerbach dedica nel 1931 un saggio tra i meno memorabili della sua critica dantesca: cfr. Auerbach 1987, pp. 27-37). Quanto ai processi imitativi e alla separazione degli stili, analisi ravvicinate come quella, molto raffinata, di Thomas M. Greene (1982) o quella di Henry A. Kelly (1993) hanno dimostrato che i vincoli a priori erano superabili in molti modi, e ciò implicava una possibilità di rappresentare aspetti della realtà, a volte persino quotidiana, che comunque conducessero a una visione articolata e in qualche misura innovativa dei temi ricevuti. Persino dopo la svolta romantica, che peraltro spesso si è rivelata in primo luogo un’operazione di enfasi semantica rispetto a una serie di varietà già esistenti (si veda l’ancora insuperato The Mirror and the Lamp. Romantic Theory and the Critical tradition di Meyer H. Abrams, 1953), di un concetto di tradizione si è sempre fatto uso, e ciò ha consentito pure agli autori di novel di rendere progressivamente più duratura la loro strutturazione narrativa.

In secondo luogo, e in continuità con il rilievo precedente, la mediazione dei generi letterari e delle loro specifiche convenzioni viene del tutto sottovalutata da Auerbach, che pure, al contrario di Croce o di molti critici stilistici, è ben consapevole della loro rilevanza. Ciò non è significativo per il periodo preromantico, quanto piuttosto per quello otto-novecentesco, nel quale i generi si rifondano e tornano a proliferare, in rapporto alle esigenze editoriali e in modo da condizionare l’effetto artistico. Una volta constatata la possibilità di raggiungere una rappresentazione seria del quotidiano, bisogna ammettere che questa componente è decisiva per il periodo individuato in Mimesis (all’incirca 1830-1900), ma già non sarebbe adatta a definire le componenti essenziali del­l’Ulisse, e nemmeno, se vogliamo, quelle epiche di Guerra e pace, quelle moralistiche della Recherche, quelle saggistiche dell’Uomo senza qualità ecc. In altri termini, le forme più alte del novel in senso largo accolgono molte componenti contenutistiche e stilistiche che non sono unicamente legate alla capacità di rappresentazione seria del quotidiano e forniscono un’idea di realismo ben più complessa rispetto a quella ricavabile dai canonici esempi francesi dell’Ottocento.

La situazione si complica ulteriormente sia, come aveva intuito lo stesso Auerbach (nel finale e nelle aggiunte a Mimesis), con il progressivo trionfo delle forme di «realismo visivo», veicolate dal cinema e poi, diversamente, dalla televisione; sia con la sempre più forte tendenza all’ibridazione multi o intermediale, che trova nella rete la sua sede naturale, e nella compresenza continua reale-virtuale la sua forma simbolica. L’evoluzione del romanzo nel secondo Novecento non può non rispecchiare questo gruppo di fattori, e infatti molti interpreti sono disposti a riconoscere forme realistiche ben al di là o al di fuori della semplice rappresentazione seria del quotidiano: persino elementi in apparenza fantastici o difficilmente classificabili come «normali» (rispetto agli standard culturali coevi) possono essere inseriti in grandi romanzi a sfondo realistico, come Underworld (1997) di Don DeLillo; in generale, solo un rapporto rinnovato con le grandi forme narrative tradizionali consente di ritrovare una significatività ai romanzi che mirano a superare le limitazioni ora imposte al genere novel(su questi aspetti, cfr. Casadei 2000).

A queste osservazioni si può rispondere che, comunque, l’acquisizione della rappresentazione seria del quotidiano, o più in generale dei destini di uomini comuni, resta una potenzialità narrativa essenziale per il novel: per esempio Guido Mazzoni (2011, pp. 355-99) sottolinea la sostanziale vicinanza di molti fra i maggiori romanzieri attivi all’inizio del XXI secolo e di quelli della fase compresa tra il 1850 e il 1940, sia pure con una vasta disponibilità di forme da impiegare, senza gerarchie precostituite, come è tipico dell’epoca postmoderna e globalizzata. Tuttavia, proprio questa condizione di scelta degli ambiti di realtà da esporre dimostra che noi possiamo in teoria accettare di trovare elementi surrealisti persino in un novel che si basi su una rappresentazione del quotidiano: ciò avviene chiaramente non solo nel già citato DeLillo, ma anche, per esempio, in Michel Houellebecq e addirittura in alcuni passi (decisivi a livello interpretativo) delle Benevole (2006) di Jonathan Littell, da più parti considerato un romanzo ipertradizionale. Dopo decenni di immaginario filmico-televisivo, siamo disposti a dare credito, in un novel, a forme di fantastico, purché non sfocino nel romance o meglio fantasy, ovvero nella creazione di mondi possibili fondati unicamente sul principio dell’allontanamento dai parametri spaziotemporali storici e sul piacere della fantasticheria, ossia della realizzazione almeno ipotetica dei desideri. Ma che la nostra percezione della realtà ora assorba sia aspetti inconsci, riconducibili solo in parte a quelli studiati dalla psicanalisi (e infatti si parla ormai diffusamente di inconscio cognitivo), sia prodotti dell’immaginario collettivo e personale (si pensi solo all’autonarrazione real-fittizia con post, selfie ecc.), tutti fruibili attraverso la rete, è un fatto facilmente verificabile (si vedano almeno Buffardi – de Kerckhove 2011, dove si parla a più riprese di «inconscio del web», e, più specificamente, Otto 2011).

 Quanto messo in rilievo sinora può servire da sostrato per alcune ipotesi di lavoro.

La prima è che, rispetto al modello auerbachiano e alle sue implicazioni, siamo ormai convinti che la rappresentazione seria del quotidiano sia solo un aspetto dell’evoluzione del realismo letterario, specie se rapportato a una lunga durata. Benché implicitamente, la concezione di fondo del realismo in Mimesis è quella del rispecchiamento, fondata su presupposti filosofici non esplicitati ma senza dubbio da ricercare nell’ampio novero di autori sopra citati (e non invece in Aristotele, dove peraltro la categoria di mimesis è leggibile come «quest for meaning»: cfr. Halliwell 2002, p. 380; e si veda adesso l’articolata reinterpretazione di Tortonese 2013); e forse andrebbe considerato l’ulteriore apporto derivato dai presupposti positivisti o latamente scientifici che agiscono, in apparenza senza mediazioni dialettiche, nella concezione del reale quotidiano (cfr. già Fortini 1965, pp. 171-7, in particolare 174). Viceversa, gli attuali paradigmi filosofico-scientifici, combinati con quelli storici, spingono a considerare il realismo innanzitutto come un codice di accostamento fra soggettività individuale-interiore e mondo esterno, in perpetua interazione (per una bibliografia, cfr. Casadei 2011, pp. 12-21).

La seconda è che, pur essendo necessario tener conto dell’evoluzione storica e della ricezione delle opere letterarie nelle varie epoche, è però possibile trovare elementi di continuità che travalichino le singole forme realizzatesi, come i generi (peraltro ineliminabili), e si colleghino a una tradizione di lunga durata: quest’ultima può permettere il confronto fra nuclei tematico-stilistici persino molto lontani tra di loro, purché rispondenti a una rappresentazione della realtà che tocchi nuclei antropologici accertabili. In questa prospettiva, l’analisi storico-stilistica alla Auerbach si potrebbe e dovrebbe coniugare con quelle dei topoi e delle loro microvarianti, alla Curtius, e con quella di stilistica puntuale e di semantica storica, alla Spitzer.

La terza è che, con questi fondamentali cambi di accento, si potrebbe finalmente riaffermare un principio di autonomia dell’opera letteraria (e in generale dell’arte) non perché essa sia soggetta solo a regole interne, come affermato tra Otto e Novecento dai vari tipi di formalismo, ma perché essa è comunque il frutto di una rielaborazione cognitiva, inconscia e conscia, la quale, per risultare significativa, non può ridursi a riprodurre gli schemi culturali già individuati in una determinata epoca. La scoperta di aspetti psicanalitici o di analisi ideologica (sia pure implicita) in romanzi di Stendhal o di Balzac non dimostra certo la loro capacità di rispecchiamento, e invece sottolinea l’esistenza, in ogni testo, di potenzialità che diventano pertinenti in altre epoche culturali: questi elementi di continuità biologica e antropologica (su ciò cfr. Casadei 2011; Bernini – Caracciolo 2013; Calabrese, a cura di, 2013) si sostanziano nella storia e nella cultura, e permettono costantemente di ri-leggere le grandi opere.

La quarta è che il realismo delle opere d’arte si può attuare in modi molto differenziati e non è di per sé meno significativo se si rivolge a una porzione di «realtà esterna» anziché a un’altra. Conta invece la realizzazione stilistica, che non può essere avulsa dalle circostanze storiche in cui viene generata, ma non si limita a quelle, se vengono toccati gangli cognitivi di interesse antropologico. In questo senso, lo stile deve essere inteso non come un puro elemento formale, bensì come un «attrattore», essenziale per la ricostruzione del mondo attraverso la visione dell’autore: quest’ultima infatti riesce a essere incisiva e ad attrarre una compartecipazione duratura solo se si associa a un uso forte e mirato della componente stilistica.

Insomma, le diverse varietà di realismo possono essere ideologicamente più o meno significative, ma non riguardano esclusivamente le medie di un’epoca. Sebbene il contesto storico in cui si colloca la narrativa attuale (il discorso su altre macroforme letterarie sarebbe più complesso) sia sicuramente comparabile con quello di metà Ottocento o di primo Novecento, ciò non toglie che solo alcune grandi opere risultino adesso rappresentative di quelle fasi: esse non sono necessariamente «rappresentazioni serie del quotidiano», come dimostrano facilmente i capolavori di Kafka, Joyce o Bulgakov – e casi simili aumentano fortemente a partire dal secondo dopoguerra e dalla fase di globalizzazione postmoderna.

Ciò che ora sembra necessario è riaprire l’analisi dell’evoluzione storico-letteraria prima e dopo la svolta di fine Sette-inizi Ottocento, in ogni caso fondamentale, come dimostrano i capolavori antitetici di Auerbach e di Curtius. Esaminare le varie forme impiegate per ottenere un realismo «autentico» non comporterà il cadere nella pura elencazione dell’eterogeneità (largamente attestata nel volume di Bertoni 2007), né il cancellare la valenza di forma simbolica del romanzo moderno (benissimo delineata da Mazzoni 2011); implicherà invece la ricerca di nuovi principi unificatori, che leghino molto meglio le componenti biologico-cognitive coinvolte nella creazione e realizzazione di un’opera letteraria o artistica, e quelle che si sperimentano in tutti gli ambiti della percezione della realtà in un determinato periodo storico. Le considerazioni di efficacia estetica o di rilevanza culturale e persino socio-politica di un’opera sono ovviamente soggette a fattori che vanno ben oltre l’ambito di un’indagine critica (e basterà, su questo, il rinvio a Bourdieu 1992); tuttavia, il riconoscimento di aspetti cognitivamente forti e stilisticamente compiuti presenti in un’opera, in particolare nelle sue dominanti, è possibile dando credito appunto alla capacità letteraria, o adesso letteraria-intermediale, di costruire mondi possibili complessi, significativi proprio per la costruzione di legami non direttamente ricavati dalla quotidianità, ma in essa – e nella biologia umana – potenziali (su ciò cfr. D’Agostini 2013, in particolare pp. 174 sgg.).

Entriamo ora nel merito di alcune obiezioni specifiche alla ricostruzione auerbachiana. Non si tratta tanto di riesaminare quanto di contestabile è stato indicato nei vari capitoli di Mimesis (con l’integrazione di Auerbach 1958): di certo, molte obiezioni di specialisti come Guido Paduano per il mondo classico o di Gustavo Vinay per la mediolatinità (cfr. Casadei 2013a, pp. 200-4), oppure di studiosi di un genere in una determinata area (si pensi al celebre The Rise of the Novel, 1957, di Ian Watt, incentrato sul romanzo inglese del XVIII secolo), oppure di comparatisti (si veda almeno la sintesi di Kohlhauer 2009), e varie altre sono degne della massima considerazione, ma servirebbero semmai a precisare alcuni aspetti dell’impianto senza modificarlo nella sostanza. Invece, la revisione degli aspetti interpretativi legati agli snodi essenziali del discorso auerbachiano porta alla necessità di rileggerne la linea ermeneutica complessiva.

Dopo aver esaminato il problema della rappresentazione seria del quotidiano, ci concentreremo adesso sulla questione del realismo figurale, condensato nel poema dantesco. I pilastri del discorso auerbachiano sono in questo caso molto solidi, dato che il capitolo di Mimesis dedicato a Farinata e Cavalcanti è preceduto e seguito da vari altri, soprattutto sulla concezione figurale e sull’importanza del sermo humilis (cfr., oltre ad Auerbach 1963, l’ampio saggio raccolto in Auerbach 1958, pp. 31-79; si noti già qui che Auerbach considera autentica la parte esegetica dell’Epistola a Cangrande e su questa convinzione, quasi sicuramente erronea, costruisce molti dei suoi ragionamenti). Data la vasta notorietà degli assunti, se ne può proporre una sintesi addirittura schematica (per una trattazione più ampia di questa parte cfr. Casadei 2013a, pp. 181-224, con la bibliografia relativa). La forza realistica di Dante starebbe nella capacità di attuare alcuni principi tipicamente cristiani, rappresentando la realtà terrena al massimo della sua vivezza perché anticipazione (figura) di quel compimento ultraterreno che è appunto fondamento e argomento del poema: la terra e il cielo sono insomma indissolubilmente legati. La capacità dantesca di raggiungere esiti grandiosi deriverebbe dalla sua specifica Stilmischung, ossia dall’uso sistematico del comico per trattare tanto del basso Inferno quanto del Paradiso: come aveva già affermato Agostino nel De doctrina christiana (iv, 18 sgg.) è possibile per un cristiano trattare di argomenti alti persino in sermo humilis, come avviene nei Vangeli. Dante avrebbe adottato il comico in quanto genere-stile comparabile al sermo humilis, e avrebbe così raggiunto una pienezza di realismo unendo la concezione figurale alla mescolanza degli stili, e ottenendo un nuovo tipo di elevatezza sublime, ben diverso dal tragico classico e pienamente in linea con il pensiero cristiano riguardo agli ultimi.

Così drasticamente ridotta ai minimi termini, la concezione auerbachiana dell’opera dantesca perde importantissime acquisizioni e sfumature; si deve poi tener conto delle risposte dello stesso Auerbach alle critiche di Curtius, riguardo alla separazione degli stili e alla concezione figurale, pubblicate negli Epilegomena a «Mimesis» (cfr. Auerbach 2007, pp. 186-94). Tuttavia, emergono in questo modo alcuni limiti da considerare attentamente. Innanzitutto, è vero che l’interpretazione figurale e quella del sermo humilis si riferiscono a precise concezioni cristiane, in particolare paoline e agostiniane; tuttavia, nella prospettiva auerbachiana sarebbe necessario ipotizzare che quelle premesse generali, disponibili per tutti gli scrittori della tarda latinità e dell’alto medioevo, dovettero attendere almeno nove secoli prima di trovare una realizzazione adeguata (sebbene, ovviamente, tracce di figuralità e non di semplice allegorismo siano riscontrabili in molti autori: cfr. in generale Dahan 1999; in riferimento al saggio di Auerbach, cfr. Lazzerini 2009, pp. 158-76). In ogni caso, sarebbe difficile trovare un’altra opera comparabile al poema di Dante, perché poco prima della sua composizione si potevano riscontrare solo allegorismi antirealistici, per esempio in un autore pur notevole come Alain de Lille, e poco dopo il realismo si sarebbe già ridotto di grado nel mercantesco Decameron. Sul piano storico, cioè, dovremmo concludere che solo Dante riuscì a praticare un effettivo realismo figurale e pluristilistico, situazione ben diversa da quella riguardante la diffusione della modalità realistico-quotidiana nella Francia postrivoluzionaria, la quale si affermò ben presto dopo gli eventi e con un’espansione larga e inequivocabile.

Ma è poi l’interpretazione stessa del poema dantesco che deve essere ora sottoposta a revisione. Non è affatto detto, innanzitutto, che il suo titolo complessivo fosse Commedia o Comedìa, che indica il livello di genere-stile raggiunto nell’Inferno, in rapporto alla Tragedìa virgiliana, ossia all’Eneide, non nominata però con il suo titolo bensì appunto secondo il suo livello di genere-stile (cfr. If., xx, 113 e xxi, 2). Piuttosto, occorre dar credito alle costanti dichiarazioni dell’autore riguardo alla progressiva elevazione della sua materia e quindi del suo stile, che giungerà alla proclamazione della teodìa del «poema sacro» negli ultimi canti del Paradiso. Come era appunto previsto da Agostino nel De doctrina christiana (e questa misinterpretazione auerbachiana è già stata notata dagli specialisti), lo scrittore cristiano non era obbligato a servirsi del sermo humilis (che comunque non coincide con il comico)e poteva variare gli stili in rapporto all’argomento: così aveva fatto Paolo nelle sue epistole, modello ben importante per il poema dantesco, ma in generale così poteva essere fatto a seconda delle necessità, impiegando persino vocaboli plebei o collegati ai realia come avviene in molti passi biblici, per esempio nelle invettive profetiche, altra forma o genere largamente fruito da Dante.

Collocato in questa diversa prospettiva, il poema dantesco si inserisce molto più fortemente in una tradizione letteraria di lunga durata, che comprende la Bibbia come macrotesto, e non solo i singoli testi scritti in sermo humilis, nonché i grandi modelli latini, da Virgilio a Ovidio, opportunamente imitati cioè riadattati. Dante si colloca alla confluenza di queste due grandi tradizioni, entrambe necessarie nella prospettiva di un’escatologia cristiana. Implicitamente dobbiamo comprendere che solo un grande scrittore cristiano poteva rappresentare, con gli stili appropriati, gli esiti ultraterreni definitivi, ossia il vero «poema sacro»: un appellativo attribuito all’Eneide da Macrobio, come ricordava Curtius, per affermarne l’eccezionale qualità da venerare persino dopo la fine del mondo romano, mentre il riuso dantesco del sintagma sottolinea l’ispirazione autenticamente divina della sua opera, nient’affatto comica a livello del Paradiso.

Non si può comunque sostenere che, con Dante, si materializzino perfettamente le conseguenze di un realismo figurale accompagnato dal sermo humilis. Da un lato, Dante non aveva introiettato la separazione degli stili in quanto vincolo assoluto: questo paradigma infatti non è riscontrabile nelle poetrie medievali e comincerà a dominare solo a partire dal secondo Cinquecento, dopo la piena riscoperta della Poetica di Aristotele. Da un altro lato, le opere dantesche dimostrano che l’uso delle categorie di tragico e di comico è funzionale alla creazione di una gerarchia che si può diversificare (per esempio se applicata alla lirica) ma resta comunque di corrispondenza e di adaequatio fra argomento e sua realizzazione letteraria. Semmai, la grande rivoluzione del poema è quella di costringere nel ritmo della terzina un repertorio linguistico assai vasto e preciso, sottoposto però a un’elaborazione ben superiore rispetto al livello dei poeti cosiddetti comico-realistici (i cui testi peraltro presentano parecchie affinità con molti dei registri dell’Inferno), e che addirittura arriva a produrre un tipo di metaforicità innovativa: essa viene praticata soprattutto nel Paradiso e prospetta un mondo possibile fatto di pure essenze e quindi una realtà intellettuale-spirituale e non materiale.

La difficoltà non è tanto quella di giustificare la posizione di Auerbach iuxta propria principia. Sarebbe in effetti possibile invocare presupposti di filosofia della storia se non altro di tipo vichiano, in base ai quali l’esempio di Dante, incarnando il verum, consentirebbe di vedere espresse al loro massimo grado le potenzialità del sistema figurale e della Stilmischung: al punto che «l’opera di Dante ha realizzato l’essenza figurale-cristiana dell’uomo e nel realizzarla l’ha distrutta» (Auerbach 1946, i, p. 220). Ma se si abbandona una concezione fondata su grandi cicli e su un orientamento finalistico (se non addirittura apocalittico) della storia, e invece si adotta, in una prospettiva evoluzionistico-cognitiva, quella di una continua commistione di forze (emotive, stilistiche, culturali ecc.) attive nel campo letterario, peraltro in un’inevitabile contemporaneità del non contemporaneo, si può solo affermare che il poema dantesco unisce per la prima volta una funzione performativa e addirittura politica della letteratura, ben attestata tra fine Due e inizio Trecento, con una speculazione filosofica e teologica che mira alla sistematicità e, in senso proprio, alla totalità. Per fare questo, Dante impiega modalità di pensiero e livelli di stile adeguati all’opera che poteva rappresentare addirittura l’ultimo libro della Bibbia. Ma il tipo di realismo del suo poema non dipende affatto da queste singole componenti, bensì dal grado di complessità stilistica (questa volta in senso moderno) che esso riesce a manifestare, integrando e quindi rendendo pertinenti potenzialità analogiche e culturali, viceversa separate nei testi dei grandi modelli coinvolti (da Aristotele e Virgilio ai profeti e salmisti biblici sino alla scrittura mistica, reinterpretata in senso letterario nei canti conclusivi del Paradiso).

Molti altri aspetti potrebbero essere sondati, ma è opportuno valutare alcune conseguenze. Il solo metodo storico-stilistico auerbachiano può risultare fuorviante là dove vengono fatte coincidere, di fatto sulla scorta di un’implicita filosofia della storia, costanti culturali di lunga o lunghissima durata e caratteristiche specifiche di una singola opera. È indubbio che il poema di Dante costituisca la realizzazione suprema della cultura cristiana e della sua concezione della vita terrena sempre in rapporto figurale con quella ultraterrena. Sarebbe però sbagliato trovare qui il fondamento del realismo dantesco, sia pure in combinazione con l’uso della mescolanza stilistica, uso che, si è visto, va interpretato con molti distinguo rispetto ai concetti di sermo humilis e di comico, nonché di quello, tipicamente novecentesco, di espressionismo. Il punto non è quello di giustificare l’esito grandioso considerandolo una sorta di applicazione di criteri che consentivano in teoria (ma non avevano mai consentito in pratica, per quasi un millennio) una rappresentazione figurale e mescidata della realtà storica. Si tratterebbe ora di capire in che modo un testo, in qualunque tempo, supera i limiti del «realismo ristretto», ovvero la mera elencazione di realia eventualmente divisi per livelli sociali, allo scopo di raggiungere uno stile che coniughi tratti marcati riconducibili alla creatività del singolo e tratti perenni da considerare in un’ottica di tradizione: l’elemento ora decisivo sembrerebbe non il superamento dei vincoli in sé (la coazione al nuovo di ascendenza romantica e avanguardista), bensì la creazione di un blending, di una fusione di elementi cognitivamente ricca e compatibile con le possibilità di ricezione ben più durevoli rispetto al periodo di successo che indichiamo come moda. Il filone realistico esaminato in Mimesis è insomma solo uno dei possibili, e lascia comunque il problema della giustificazione di un numero molto alto di classici, senz’altro non anti-realistici ma non inquadrabili, se non come eccezioni, nella linea fondamentale che conduce al realismo serio del quotidiano.

Si possono a questo punto orientare in un’altra direzione gli elementi raccolti da Auerbach, ma anche da Curtius, Spitzer e Contini, per sottolineare come, nella costruzione dantesca, emergano altri tipi di combinazione linguistico-stilistica, che rendono il suo testo diverso sia dagli antecedenti classici, sia da altri dello stesso autore (basta confrontare alcuni passi dottrinali del Convivio e la corrispondente realizzazione narrativa per esempio dei cieli paradisiaci). È lecito riconoscere tratti dalle forti implicazioni cognitive, come la soppressione di molti passaggi nella creazione di analogie, la velocizzazione delle sequenze narrative, l’uso di campi metaforici derivati da blending nient’affatto consueti. Sono tratti ben inquadrabili in una serie di costanti cognitive, poi riassorbite nell’ambito del simbolico letterario: per vari aspetti, essi rivelano una visione della realtà molto più affine alla Weltanschauung otto-novecentesca, fondata sul movimento e lo Streben, che non alla staticità epica o alla ieraticità artistica bizantina.

Più in generale, sarà opportuno rileggere la tradizione letteraria classica e preromantica non come un percorso lineare di dominio della Stiltrennung, appena interrotto o messo in discussione dal realismo figurale dantesco e, in misura minore, da vari tipi di realismi creaturali; bensì come un ampio campo di forze, dotato di saldi elementi di continuità, come i topoi catalogati in Curtius 1948 (ma andrebbero poi notati quelli più propriamente biblici: cfr. almeno Boitani 2007, anche per altra bibliografia), e tuttavia dotato pure di elementi potenziali di variazione, che consentono l’inclusione di aspetti realistici, quotidiani o meno, ma spesso realizzati stilisticamente in modo tale da evidenziarne la carica gnoseologica: perché il realismo autentico è, in ogni tempo, una ricerca di significato. Quando per esempio Shakespeare crea i neologismi sincretici be-all e end-all (cfr. Macbeth, i, 7) fa emergere la componente dell’assolutezza insita nell’azione umana, e implicitamente la sua lontananza da un’assolutezza divina. Che si tratti del monologo di un nobile come Macbeth non toglie che qui, come in tanti aspetti della creatività stilistica shakespeariana, le continue reminiscenze bibliche vengono stravolte e ciò, metaforicamente, arriva a indicare che la realtà terrena è l’unica praticabile. Ci vuole il fantastico temperato della Tempesta per suggerire almeno una possibilità di conciliazione fra umano e oltre-umano: ma intanto, grazie all’insieme delle opere shakespeariane le armoniche della realtà si sono già allargate di molto, indipendentemente dalla rappresentazione del quotidiano.

È lecito concludere che la limitazione degli ambiti del rappresentabile nella narrativa (e in generale nella letteratura) preromantica è innegabile, ma non costituisce un ostacolo per il raggiungimento di vari livelli e modi stilistici del realismo, inteso in senso cognitivamente largo. Più che considerare le categorie di Stiltrennung e Stil­mischung costanti rigide e sufficienti a definire opere e periodi, si dovranno riconoscere le dimensioni scalari di questi usi, graduando in modo circostanziato l’adesione di un autore ai topoi relativi ai generi praticati e alla tradizione in cui si vuole inserire. In un periodo manierista, può essere sufficiente uno spostamento minimo per modificare un intero rapporto di filiazione (basti pensare all’inizio della Liberata rispetto all’Eneide); in un periodo barocco, il ritorno a un uso non banalmente metaforico bensì psicologico di immagini quali «la fiamma nera del peccato» può condurre a un effetto terribilmente realistico all’interno della più selettiva tragicità stilistica, come è stato già più volte notato a proposito di Racine. Il problema quindi non è più, come ai tempi di Auerbach, costruire grandi campate storico-culturali, all’interno delle quali riconoscere elementi di rappresentazione della realtà nonostante i vincoli retorico-stilistici, bensì quello di capire come i vincoli letterari, presenti sotto forme diverse in ogni epoca, possano essere rielaborati dagli autori maggiori per costruire un’immagine stilisticamente adeguata della propria visione del mondo.

Un cenno in appendice andrebbe poi fatto a un possibile, radicale cambiamento di prospettiva, che indurrebbe a considerare il procedimento figurale come un caso specifico dei processi analogico-allegorici sviluppati soprattutto nel mondo ebraico, in sede di ermeneutica biblica, e poi in quello sincretico cristiano-classico. Infatti, la permanenza di processi analoghi, laicizzati a partire dall’Ottocento e addirittura resi irrazionali o a-razionali nel grande movimento surrealista, spinge a considerarli come varianti storiche di una propensione biologica, corporea e mentale, che corrisponde a uno dei molti campi di indagine apertisi grazie alle categorie trasversali e interdisciplinari del cognitivismo. Questo sarebbe un compito davvero importante per la nuova critica: ricondurre i singoli casi storici di fenomeni ricorrenti a macrocategorie, che consentano di cogliere elementi di affinità accertabili e non meramente impressionistici, come a volte accadeva in contributi da rileggere adesso sotto una nuova luce, per esempio l’affascinante benché a volte irritante L’armonia del mondo di Leo Spitzer (1963).

Sulla scorta delle ultime considerazioni, spostiamoci ora al periodo otto-novecentesco, ossia alla fase storica in cui il realismo come rappresentazione seria del quotidiano arriva al suo culmine e progressivamente tramonta o si trasforma, giungendo alle sue forme parcellizzate e interiorizzate prese in esame nell’ultimo capitolo di Mimesis (dedicato, come si sa, principalmente a Virginia Woolf, ma altrove Auerbach si sofferma a lungo sulla Recherche). Potendo ormai considerare storicizzato il periodo che va quanto meno dalla nascita della narrativa realista francese agli esiti modernisti europei, che possono trovare un limite estremo in Finnegans Wake e nel Doktor Faustus (usciti rispettivamente nel 1939 e nel 1947; interessante che proprio a un confronto fra il romanzo manniano e Mimesis siano dedicate alcune suggestive pagine in Said 2004, pp. 137-40), è lecito osservare qual è il grado di entropia che la ricostruzione auerbachiana produce. In effetti, non solo vengono lasciati ai margini gli esiti in qualche misura compatibili con il filone dominante, per esempio quelli inglesi e soprattutto quelli russi, sui quali peraltro Auerbach sia pure brevemente prende posizione; ma vengono esclusi direttamente i numerosi esempi di scritture fantastiche o miste, sino al poi fortunatissimo modello kafkiano, dove il grande rigore descrittivo-mimetico si rovescia in un allegorismo privo di una chiave interpretativa sicura (con ciò minando il concetto stesso di «realtà», pur atteggiandosi in prima battuta a discorso realistico).

È stato da più parti sostenuto che, comunque, queste scritture vivono in una contrastata simbiosi con quelle serie ed esistenziali, come possono essere definite le ultime esaminate da Auerbach: e questa linea resterà dominante, nel mondo occidentale, anche nel secondo Novecento e in sostanza sino ai nostri giorni. Tuttavia, non si può negare che attualmente siano le scritture realistico-esistenziali a rappresentare una zona ristretta nel campo delle narrative praticate a livello mondiale: basti pensare all’enorme successo, a partire dagli anni sessanta, del realismo magico o real meraviglioso sudamericano, delle varie scritture postcoloniali (spesso dotate di una forte carica mitologizzante) e da ultimo di quelle miste, realistico-misteriche, spesso trasmesse da versioni più o meno elaborate del paradigma poliziesco-indiziario. Il contesto sociologico è insomma fortemente cambiato, e così la possibilità di attribuire l’etichetta di realismo. Per esempio, in molti possono considerare le opere «realistiche» di Philip Roth o Alice Munro o Abraham Yehoshua più significative di quelle di Thomas Pynchon, David Foster Wallace o Roberto Bolaño: queste ultime però sono espressioni di un’istanza che, su un altro piano, viene spesso definita realistica, quella della rappresentazione seria o grottesca o fumettistica del caos, che sembra l’unico (anti)sistema in grado di rappresentare la complessità di rapporti ormai globalizzati e privi di ogni normalità quotidiana. Ma queste due forme di realismo, ristretto e allargato, convivono in questa fase con opere a netta prevalenza fantastica, come la fortunatissima saga di Joanne K. Rowling, che peraltro scrive pure romanzi a fondo psicologico: e il parametro del successo planetario, ormai decisivo per rafforzare o affossare tendenze, sembra parlare in modo inequivocabile, così come, nella prima metà dell’Ottocento, aveva parlato a favore di Balzac.

Come si possono valutare questi dati? Torniamo al periodo meglio storicizzabile (1830-1945, con propaggini almeno sino agli anni sessanta), e consideriamo entro quali limiti saremmo disposti ad accettare come realistiche opere che non rispettano i parametri della rappresentazione seria del quotidiano. Oltre alle forme esistenzialistiche, potremmo senz’altro accettare nella nostra classificazione quei testi che, pur raccontando situazioni al limite dell’assurdo o del fantastico, evocano aspetti che tendenzialmente classifichiamo ora come di pertinenza psicanalitica. Qui si tocca un’altra delle omissioni decisive di Mimesis: il versante del ritorno del represso, secondo le analisi di Francesco Orlando (sul versante moral-comportamentale, su quello funzionale o su quello razionale, di cui nella saggistica orlandiana resta solo qualche traccia in rapporto alla rappresentazione del soprannaturale); o in generale quello della esplicitazione dei rapporti mimetici, decisivo secondo René Girard in Dostoevskij e Proust – ma la casistica si potrebbe ampliare parecchio (da Conrad a Lowry alla Morante di Menzogna e sortilegio; per un confronto Auerbach – Girard, cfr. Antonello 2009). Ogni testo inseribile almeno in uno di questi filoni può vantare una componente realistica che va molto al di là della questione del rappresentare seriamente il quotidiano, che spesso è un ovvio presupposto, per far poi scaturire esiti imprevedibili e però inseriti nell’apparente normalità. Questi aspetti convivono nella percezione del mondo a partire da fine Sette-inizi Ottocento, e la letteratura si incarica di farli emergere prima che siano identificati nelle ricostruzioni di matrice psicologica o sociologica.

Di certo, possiamo adesso indicare come dominante comune ai vari tipi di scrittura realistica postromantica la spinta a indagare le forme di ribellione rispetto a ogni norma vincolante. Il quotidiano viene sì rappresentato in sé, ma ciò che conta, nel racconto, sono le forme con cui si tenta di evadere o di superare la condizione di partenza, comunque insoddisfacente, che si tratti di Eugène de Rastignac, Emma Bovary, Mattia Pascal o Stephen Dedalus. Nel contempo, si manifesta anche l’eversione rispetto al quotidiano, attraverso gli elementi oscuri o inquietanti insiti in molte specie di fantastico-soprannaturale, oppure, laicamente, nel delitto e nelle inchieste sui delitti – le quali, come giustamente ha sottolineato Moretti 2005, pp. 85-93, nascono dapprima come varietà generiche di romanzesco, e solo dopo il grande successo di Arthur Conan Doyle assumono come prevalente quella del poliziesco a paradigma indiziario. Al fondo di queste varie tipologie di narrativa sta l’elemento comune della rivolta: solo raramente si arriva a una tematizzazione di questo aspetto, e solo nel momento della massima politicizzazione rivoluzionaria, nei primi venti-trent’anni del Novecento, la letteratura nascerà dall’alveo delle spinte eversive, come in parecchi casi aveva fatto esplicitamente nel primo periodo romantico, intorno al fatidico 1789. Ma questo aspetto consente di capire molto meglio perché alcuni testi ben distinti dal «realismo quotidiano» a noi possano sembrare senza dubbio realistici ed emblematici: il destino di oppressione di un qualunque antieroe kafkiano non è meno significativo, sul versante della lotta col padre, di quelli dei protagonisti di Tozzi, Svevo o Gide.

Cognitivamente, le modalità del racconto degli scontri sostenuti in qualunque modo dai personaggi romanzeschi (da eroe o da inetto, sul versante dell’azione o su quello dell’introspezione, sino a far emergere le lacerazioni profonde) risultano importanti per comprendere lati nascosti del rapporto io-mondo quando escono dai modelli mentali previsti per le vicende degne di racconto. È possibile insistere sull’insignificanza del ruolo dei singoli nell’ambito delle società contemporanee, ma il racconto diventerà emblematico quando consentirà di intuire un aspetto non scontato di quella stessa insignificanza: è questo il punctum (nel senso indicato da Roland Barthes, 1980) delle epifanie laiche, dei momenti dell’essere o delle intermittenze del cuore, che però altro non sono che la rivelazione dell’unico momento di autenticità e quindi di «vera» realtà nel flusso dei triti fatti di ogni vita comune. Anche in questo senso, il realismo della letteratura sino alla conclusione della grande fase del modernismo è molto più connesso alla possibilità di rendere significativi, con una stilizzazione della modalità narrativa, alcuni nuclei essenziali e spesso fugaci, ma rivoluzionari, che non alla mera trafila della ricostruzione storica, sia pure carica di connotazioni personali e sociali, secondo le prerogative di Auerbach o, diversamente, di Lukács.

Se ora dovessimo delineare sia pure sinteticamente la fase successiva a quella affrontata da Auerbach, dal secondo dopoguerra e soprattutto dagli anni sessanta ai nostri giorni, saremmo tenuti a considerare alcuni macrofattori. In primo luogo va indicato quello del progressivo allargamento delle potenzialità economico-commerciali, informative-massmediatiche e ora persino virtuali (in quanto estensione delle facoltà corporee nella cosiddetta «realtà aumentata»), che ogni individuo può avere a disposizione, se dotato di collegamenti adeguati. La rete non sarebbe quindi solo un’espressione della globalizzazione ma diventerebbe pure un suo fattore decisivo di crescita, dato che rende irrisorie le barriere geografiche, riduce progressivamente quelle culturali e linguistiche, consente di operare continuamente su ogni fronte della comunicazione e dell’attività finanziaria.

Su questi punti schematici si tornerà più avanti (si veda il cap. iii), ma è ovvio che le obiezioni politiche e ideologiche a questa tendenza possono essere fortissime, e si manifestano di frequente in fasi di rivolta, a volte accesa; tuttavia, rispetto al periodo proseguito sino agli anni sessanta, è evidente che la più macroscopica differenza è quella della mancanza di una ribellione radicale, anche per l’assenza di un’alternativa credibile, di un’utopia rivoluzionaria sostenibile. Guido Mazzoni (2013) ha esaminato la fase successiva al trionfo del «discorso del capitalista», ovvero alla sostituzione di un ideale palingenetico ed egualitario con uno di welfare diffuso senza cambiamento dei fondamenti della produzione e del controllo del potere economico (quello politico appare ormai del tutto subordinato al precedente). Sono questi aspetti che possono affiorare nei romanzi realistico-esistenziali contemporanei, senza però che essi si inseriscano, solo per questo, in un discorso cognitivamente innovativo sui fondamenti della realtà: la mancanza di «grandi narrazioni» (Lyotard) è una conseguenza della relativizzazione che ogni punto di vista sul mondo subisce, quando appunto l’ottica è planetaria e globale.

Auerbach aveva intuito, soprattutto nel suo discorso sulla Filologia della letteratura mondiale (1952), che questa tendenza comincia con il trionfo del sistema culturale statunitense e si accentua quando la diffusione vasta e la fruizione immediata di un’opera diventano prerogative per la sua valorizzazione da parte del sistema capitalistico. In questa prospettiva, ogni elemento umanistico, ogni aspetto stilistico, ogni idea di tradizione sembrano destinati a evaporare, magari dopo una fase liquida come quella attuale: quanto è già avvenuto nel campo dell’arte e della musica, con l’emarginazione o l’assorbimento di ogni tratto stilisticamente marcato (di avanguardia o anche di sperimentazioni esistenziali non eversive), e con la creazione di una nuvola (cloud), l’immagine più emblematica della realtà davvero virtuale di tutto ciò che entra attualmente nel web. Il concetto di realismo quotidiano dovrebbe quindi comprendere ormai aspetti puramente legati all’immaginario collettivo, ai miti d’oggi, al valore simbolico assunto da ogni oggetto del desiderio mimeticamente inseguito da milioni di persone, che molto spesso non sanno niente l’uno dell’altro, salvo incontrarsi velocemente in un social network.

Queste constatazioni, largamente discusse nella sociologia nonché nella filosofia morale contemporanee, possono avere almeno una ricaduta certa sul concetto di realismo narrativo (per le considerazioni successive, si confrontino da ultimo le osservazioni di Donnarumma 2012, già autore di vari saggi su questi argomenti). Non sarà più la discriminante del rapporto con la storia evenemenziale a segnare il grado di realismo di un’opera, tanto è vero che molti scrittori, a cominciare da DeLillo, avvertono che quanto appare impossibile nei loro testi è invece il punto di maggior contatto con l’autentica realtà attuale. Anzi, i proclami per un ritorno alla concretezza dei fatti, invocata dopo la fine del cosiddetto postmodernismo che predicava crisi di tutti i fondamenti epistemologici e filosofici, sembrano implicare soprattutto un bisogno di certezze o addirittura di verità (secondo un cortocircuito reale = vero dalle lontane e blasonate ascendenze: cfr. D’Agostini 2013). Ma si dovrebbe invece accettare ormai la condizione di modifica evolutivo-cognitiva, che non implica alcun finalismo nelle vicende terrene e sottolinea gli incessanti adattamenti e le continue ricombinazioni della nostra realtà, ovvero del mondo in cui il versante interiore dell’individuo e quello esterno delle res e degli altri sono in simbiosi attraverso la perenne mediazione del nucleo corpo-mente (per alcune prospettive in questa direzione, si veda Casadei 2011; sul problema dell’evoluzione letteraria, un primo approccio teorico è quello della letteratura vista da lontano – cfr. Moretti 2005 –, che si fonda sulle precedenti analisi dedicate dallo stesso Moretti al romanzo moderno e alle opere-mondo).

In questa fase, insomma, la ricostituzione di un paradigma del realismo si può attuare costituendo un’ampia gamma scalare di soluzioni più o meno significative nel cogliere l’attuale posizionamento di ogni individuo nel mondo real-virtuale. Non sono più decisivi i parametri oppositivi di vero/non vero, finzione/non finzione, story/history, insomma quelli che avevano garantito un background nel periodo aureo della narrativa in quanto interpretazione autentica del mondo concepito come cronaca di eventi. E tuttavia, per ottenere opere che, sul solo versante della scrittura o anche in quello dell’ibridazione intermediale, riescano a diventare forme simboliche del presente, occorre ancora confrontarsi con il problema della tradizione e con quello dello stile, inteso in senso cognitivo. In altri termini, un nuovo realismo dovrà assumere al suo interno il paradigma dell’espansione sempre più incontrollabile a tutti i livelli sociali e culturali, implicito nel concetto stesso di globalizzazione, e dovrà tentare di confrontarlo con le forme letterarie e artistiche di lunga durata, per verificare su quale base riesca semmai a emergere una nuova sintesi delle singole componenti che segnano lo Zeitgeist: dalla soddisfazione di desideri moderati, alla velocizzazione delle esperienze e dei rapporti, alla convinzione di poter modificare sempre il proprio status e persino la propria identità, all’epurazione della morte come memento etico-religioso. Tutto ciò si deve esprimere in uno stile che sia marcato, complesso e non banalmente traducibile.

Purtroppo, questa necessità si scontra con i presupposti del potere culturale attuale, sia a livello di propagazione, sia, soprattutto, a livello di ricezione: non a caso, si farebbe fatica a indicare, negli ultimi trent’anni, un’opera letteraria che abbia ottenuto il riconoscimento di duratura per le sue qualità e per il suo grado di realismo; persino riguardo agli ipotetici classici si farebbe fatica a citare qualche nome condiviso dopo quelli della fase modernista. E forse pure questo dimostra la necessità di rifondare i nostri paradigmi di realismo, che devono confrontarsi ormai con la pervasività del modello reticolare e insieme con la capacità di ogni individuo di connettere esperienze variegate (biologiche-inconsce, biografiche-consce, naturali-culturali…) attraverso una fusione cognitivamente ricca e densa.

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[Immagine: Gerhard Richter, Overpainted Photograph (gm)].

7 thoughts on “Per Auerbach, contro Auerbach

  1. Ma che senso ha mettere quindici pagine di bibliografia per un intervento in un blog?

  2. Mimesis è’uno dei capolavori della saggistica filologica, stilistica e semantica del 900, su cui si sono formati generazioni di studiosi, saggisti ,recensori e che si occupa del realismo non in maniera categoriale, ma come dato da cui partire. Il metodo è molto chiaro e di grande serietà e impegno. Si parte da un campione letterario per ampliarsi nel contesto dello scritto,narrazione, epos etc., nel lambito psicologico dello scrittore, fino a giungere al contesto storico, non nazionalista, ma mondiale. Tutto il mondo occidentale appare connesso,partendo dal paricolare all’universale. Dice il grande filologo:” vorrei suggerire al lettore i pensieri attraverso la pura e semplice presentazione di un susseguirsi di dati singoli… Ho fatto riferimento Alla distinzione di stli e mescolanza di stili.”
    Faccio un esempio dell’analisi perfetta del calzerotto Marrone, poche righe tratte da La gita al faro di V.Woolf. La madre sta mettendo un calzerotto al figlio, mentre parlano di una prossima gita al faro, suona il telefono, si leggono le parole di un amico che sta lavorando in una fabbrica, così si apre un altro scenario. Poi continuala vita quotidiana della signora Ramsay, che esprime un tempo interiore e un tempo esteriore, che interferisce con l’ambiente, il mondo in cui vive, sulla agazza svizzera, sulla casa sul sig Bankes, sugli sguardi e le chiacchiere della gente sulla sinora Ramsay. Tutte le divagazioni si esprimono in una narrazione pluripersonale, che giunge a toccare il fondo del mistero della sgnora Ramsay.Si procede a cerchi concentrici dino a giungere a un cntesto e a un ordine esistenziale che la vita nel suo scorrere non può offrire.
    Questo metodo si può usare per tutti gli autori, purche siano di un certo valore e impregnati di una visione
    Del mondo. Scrittori e opere di lunga durata, non di facile successo, su cui c’è poco da analizzare.
    E’ quindi un’opera che si può arricchire di nuovi talenti letterari , ma che appare utile lungimirante,attenta analisi del testo. Edella letteratura internazionale. Così ci si appassione alla lettura del mondo, all’analisi degli stili, ai personaggi, al contesto spazio-temporale,alla storia e alla microstoria.
    Leggendo quest’opera o anche un capitolo di questa, si educano generazioni alla lettura, alla cultura, all’amore per i libri, per la narrazione e i personaggi
    E’ un metodo a cerchi, partendo da un campione, che consiglierei a tutti,aggiungendo autori di grande validità e non modificando il metodo

  3. Penso che l’ampia disamina condotta da Alberto Casadei avrebbe tratto non poco giovamento da un confronto più approfondito tra le definizioni di realismo elaborate da Marcuse (non presente fra gli autori citati), da Adorno, da Lukàcs e da Auerbach. In particolare, quest’ultimo, termine obbligato di confronto per qualsiasi tematizzazione della categoria filosofica ed estetica di realismo, va tenuto ben presente, poiché sostiene, andando ben al di là di una nozione elementare di realismo o di un rozzo contenutismo, che la letteratura possa costituire lo specchio fedele della realtà nella misura in cui riesce a riflettere in modo organico e compiuto le contraddizioni dello sviluppo sociale. Ciò implica che lo scrittore sia in grado di produrre una visione non meramente fenomenica delle condizioni strutturali della società oggetto di indagine ed osservazione, indicando nel contempo la direzione dell’evoluzione futura. In questo senso, contrariamente alla tesi, più o meno esplicita, che circola nel saggio di Casadei, è veramente ‘realistica’ l’arte che coglie “ciò che è tipico”, afferma Lukàcs, di un determinato periodo storico, e ‘non-realistica’ quella che ‘imita’ naturalisticamente la vita quotidiana, anche, per così dire, nella sua ‘realtà microfisica’, poiché questo tipo di operazione deforma in senso antidialettico il rispecchiamento della realtà. Insomma, è veramente realistica quella rappresentazione letteraria che riesce a cogliere i momenti umanamente e socialmente essenziali di questo o quel periodo storico. In Auerbach, è vero, la categoria di ‘realismo’ è usata in modo talmente ampio e polisemico da abbracciare la letteratura europea che va da Omero e dalla Bibbia fino al medioevo cristiano, al realismo ottocentesco francese e ad alcuni scrittori contemporanei, non senza esclusioni vistose, come quelle del romanzo realistico inglese del ’700 e dell’’800. È vero, peraltro, che in Auerbach vi sono, confliggenti fra di loro, almeno due accezioni di ‘realismo’: da un lato, un realismo che si potrebbe definire psicologico ed esistenzialistico, ben esemplificato da certe ‘situazioni-limite’, come quella di Abramo che deve sacrificare Isacco; dall’altro, un realismo ad elevato coefficiente storico e descrittivo, come quello dell’Ottocento francese.

    In conclusione, sarebbe, a mio avviso, fuorviante ed improduttivo affermare che esiste un solo tipo di rappresentazione realistica, contrapponendo, come ha fatto Lukàcs, realismo e formalismo con la correlativa condanna delle avanguardie e della sperimentazione. Conviene quindi riprendere l’aureo aforisma, monistico nel referente ma pluralistico nelle modalità, formulato da Brecht proprio in polemica con Lukàcs, quando il primo ebbe ad osservare che la verità, come può essere taciuta in molti modi, così deve esser detta in molti modi. Il realismo, in effetti, non può essere esaurito né da una sola definizione né da un solo tipo di rappresentazione ‘oggettiva’, poiché in ogni opera sarà inevitabilmente commisto ad elementi residuali del passato così come ad elementi anticipatori del futuro. Come diceva il sommo Goethe, tanto ammirato da Lukàcs, nessuno può considerare la verità come una moneta da mettere in tasca e da portare a casa. Questo non significa che essa non esista e che ad essa non occorra tendere con tutte le forze e con tutti gli strumenti di indagine a disposizione, poiché sia lo scrittore onesto che il critico probo non possono mai dimenticare che la verità totale è la somma dialettica delle verità parziali.

  4. Errata corrige: nella frase del mio commento che qui di séguito trascrivo: “In particolare, quest’ultimo, termine obbligato di confronto per qualsiasi tematizzazione della categoria filosofica ed estetica di realismo, va tenuto ben presente, poiché sostiene, andando ben al di là di una nozione elementare di realismo o di un rozzo contenutismo, che la letteratura possa costituire lo specchio fedele della realtà nella misura in cui riesce a riflettere in modo organico e compiuto le contraddizioni dello sviluppo sociale”, il soggetto “quest’ultimo” va riferito ovviamente non ad Auerbach, ma a Lukàcs.

  5. Ringrazio per queste osservazioni, e specifico subito che la bibliografia riportata sarebbe relativa all’intero volume *Letteratura e controvalori* (Donzelli), da cui non è stato possibile ricavare quella specifica per le pagine riportate. Nel volume affronto da molte angolature, anche teoriche, la concezione del realismo: le classiche indicazioni di Lukacs o Adorno sono abbondantemente esaminate. Quanto ad Auerbach, personalmente ne riconosco la grandezza, e proprio per questo credo sia utile discutere in dettaglio le sue posizioni, mettendone in evidenza anche i limiti. Per esempio, la sua concezione del ‘realismo figurale’ nel poema dantesco, se presa in senso assoluto (e non solo come presupposto), risulta purtroppo fuorviante o eccessivamente generica. Anche l’evoluzione della narrativa occidentale dopo i culmini del modernismo richiede a mio avviso categorie interpretative nuove rispetto a quelle auerbachiane.

  6. Auerbach e il realismo di Dante

    Auerbach ha esaminato, come filologo e linguista, il senso e gli usi della parola “figura”, dapprima nella letteratura latina, per formulare una affascinante teoria della figura nel medioevo, secondo cui ogni personaggio o fatto dell’AT è figura di uno del NT; successivamente l’ha estesa al dopo Cristo in analogia al prima, come “figura rovesciata” che ripete tratti caratteristici della vita di Cristo, poi ad ogni realtà storica, che diventa “figura” di quella metastorica, eterna, escatologica, nella mente di Dio (che è ben altra cosa da quanto affermato e analizzato nella sua prima teoria della figura). Infine l’ha applicata con rigore astratto alla Commedia, senza alcun controllo sul testo del poema, che secondo lui rappresenterebbe la realtà (escatologica) dei personaggi incontrati, come appaiono nella mente di Dio, di cui la realtà fisica storica sarebbe solo “figura”.
    È un doppio salto (prima alla presunta concezione storico-teologica medievale e dantesca, poi al caso specifico dei personaggi del poema) arbitrario, irrazionale e totalmente privo di verifiche, frutto di idola specus, cioè di fideistica estensione della propria teoria a casi diversi. Ma siccome l’idea di partenza è affascinante e filologicamente approfondita molti dantisti hanno finito per accettare come dogma anche le sue applicazioni più arbitrarie, esempio tipico di idola teatri.
    Diventa inutile citare passi della Commedia in cui si nega esplicitamente la realtà di ciò che viene rappresentato o si afferma l’impossibilità per chiunque di conoscere il giudizio divino… Avevo già segnalato l’illogicità della tesi di Auerbach e gli svarioni della sua lettura di Farinata e Cavalcanti; ne ho ricevuto rifiuti e proteste indignate come se avessi bestemmiato. Eppure già Freccero a proposito di tale lettura aveva osservato che Auerbach è “cieco nei riguardi delle citazioni disseminate nel testo” . Ho poche speranze di riuscire a far leggere il poema a chi preferisce leggerne i commenti laureati, ma ci provo con qualche altro esempio…
    Un esempio vistoso di come Auerbach proceda astrattamente, macinando i testi a proprio uso senza farne alcuna verifica, è la sua analisi di Par. XI ; delle sviste possono capitare a tutti, ma un simile concentrato non mi pare accettabile: non è vero che “Dante e Beatrice si trovano nel cielo empireo”, né che Domenico sia “serafico e savio” (è cherubico, mentre serafico è Francesco, vv. 37-39; e la distinzione non è di poco conto ), né che la provvidenza inviò due principi affinché la Chiesa “potesse andare verso Cristo”: molti dantisti pensano che “lo suo diletto” significhi “Cristo” e non “il suo piacere” , ma stupisce che lo faccia Auerbach che insiste (troppo e fuor di luogo) sull’aspetto carnale erotico delle nozze di Francesco con Povertà. Non è vero che questa sia “una donna spregevole, la quale chiamasi povertà oppure morte”: la povertà è sprezzata, “dispetta”, come lo era Francesco e prima Gesù, ma tutt’altro che spregevole; e non è morte, che è temuta e evitata ancor più della povertà ma non disprezzata. Altrettanto errato è che “la cui sostanza si palesa anche nell’aspetto”: al contrario, solo l’aspetto è sgradevole, mentre la sostanza è tanto “piacevole” da dare perfetta letizia e indurre “lieti sembianti” che convertono altri (Par. XI 76-84), come già accadde agli apostoli, altrettanto poveri (Par. XXIV 106-110); che poi sia “assolutamente necessario intendere la porta del piacere nel senso più proprio, come fatto carnale, la porta come accesso al corpo femminile”, è una stravaganza che andrebbe ben diversamente motivata per essere proponibile: dovrebbe almeno spiegarci qual è la porta carnale della morte, poiché alla povertà, “come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra”; oltre all’inspiegato e inspiegabile e probabilmente inconsapevole capovolgimento, secondo cui la povertà (sposa, nel testo di Dante, di Gesù e poi di Francesco), come la morte, assumerebbe il ruolo maschile mentre il corpo femminile sarebbe quello di chi rifiuta di accoglierle “come fatto carnale”. Credo che ogni dantista boccerebbe un alunno che all’esame dicesse simili corbellerie, se non le avesse lette prima nel sacro testo di Auerbach. Dante invece ha già spiegato a Forese che “già non fia il tornar mio tantosto, / ch’io non sia col voler prima a la riva” (Purg. XXIV 77-78). Infine non è assolutamente vero, ed è errore di fondo di tutta la lettura di Auerbach, oggi purtroppo accolta da molti dantisti, che “Dante li coglie [i personaggi della Commedia] sul luogo che ad essi il giudizio divino ha assegnato”; del resto, Francesco non è incontrato, bensì descritto da Tommaso. Vorrei anche aggiungere, se non temessi di suscitare solo altri dubbi e obiezioni, che la Povertà cui si sposa Francesco “nel suo farsi pusillo” (Par. XI 111), come prima Gesù, “umile” (Mt 11,29), è quella dei “poveri di spirito” (Mt 5,3) citata nella cornice dei superbi; quella materiale ne è solo immagine, e da sola è stata amata da molti, ebrei e greci, che ne andavano orgogliosi. Ai “mendicanti dello spirito” infatti appartiene il regno dei cieli; in Par. XXII 88-90 Benedetto cita Francesco per l’umiltà e Pietro per la povertà; anche Dante in Par. XXIV 109 ricorda la povertà (materiale) di Pietro, mentre quella di Francesco è solo sua (oltre che di Gesù) e gli merita il “suo regno” (Par. XI 116), così come già parlava “regalmente” al papa, indifferente al “parer dispetto” (Par. XI 90-91) come Gesù in croce ; si noti a conferma che l’unica altra occorrenza di “regalmente” nel poema è riferita (in Par. XXX 70) a Beatrice, immagine di Gesù umile, che già appariva in vita “benignamente d’umiltà vestuta” (Vita nuova XXVI, v. 6).
    Virgilio propone Catone come campione della libertà, dice di condurre Dante alla ricerca della libertà e in Eden dichiara di averlo reso libero; ma Beatrice lo rimprovera, lo corregge, lo guida per ben altra strada, e alla fine Dante le dirà “tu m’hai di servo tratto a libertate” (Par. XXXI 85). Ma Auerbach , sempre indifferente al testo dantesco, prosegue per la sua strada e pretende di vedere nel Catone storico una “figura futurorum”, “una prefigurazione di quella li¬bertà cristiana […] per raggiungere la quale Dante è cinto del giunco dell’umiltà, finché la conquisterà realmente e sulla sommità della montagna […]. È la libertà eterna dei figli di Dio, che disprezzano ogni cosa terrena”: decisamente Auerbach il Paradiso non deve averlo letto: in Eden Dante impara l’errore (unico vero peccato) d’aver seguito il legalismo di Virgilio (che rende servi, non liberi); in paradiso impara ad apprezzare lecitamente ogni cosa terrena (dopo il cielo del Sole in cui se ne trova “sciolto”… ambiguamente nel senso evangelico di “assolto”) e solo alla fine si riconosce veramente libero grazie a Beatrice. Inoltre, se “il Catone che qui appare nel Purgatorio è la figura svelata e adempiuta, la verità di quell’avvenimento figurale”, non si capisce cosa possa esserne di lui dopo il giudizio universale, dato che il purgatorio non fa parte dei novissimi. Per lo stesso motivo non possono essere figure adempiute neppure i personaggi incontrati in purgatorio…
    In realtà Catone non è neppure “salvo”, nel suo ruolo di guardiano rigido, negato all’arte, sordo al canto di Casella che intona la canzone di Dante “Amor che ne la mente mi ragiona” da cui perfino Virgilio, sempre pronto a sollecitare Dante a non perder tempo, era stato affascinato; Catone, indifferente all’amore e ai ricordi, non può accedere neppure alle prime falde del monte, cui è condannato a indirizzare gli altri, destinati alla salvezza. Mi pare che stiano molto meglio i nobili poeti nel limbo che non Catone, preso tal quale da Aen. VIII 670, in ottemperanza (umoristica) alla descrizione che ne ha dato Virgilio come legislatore delle anime salvate (“pios, his dantem iura Catonem”).

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