di Rino Genovese
[Questo articolo è uscito sul sito di «Il Ponte»].
Il nodo è inestricabile. Islamofobia e giudeofobia si tengono a vicenda. Quelli che a Parigi chiamano a manifestare a favore dei palestinesi di Gaza (tra cui il vecchio raggruppamento trotzkista Ligue communiste divenuta oggi il Nouveau parti anticapitaliste) fanno fatica a non essere travolti dall’ondata giovanile “algerina”, che viene dalle banlieues e ce l’ha con gli israeliani non in quanto tali ma in quanto ebrei. È vero, sull’ambiguità di uno Stato come terra promessa, nato dalla risposta alla catastrofe europea novecentesca, Israele ha costruito gran parte delle sue fortune: e tuttavia la distinzione andrebbe sempre tenuta presente a ricordo dei sommersi e dei salvati, come li chiamava Primo Levi, e per non strappare quella pur imperfetta democrazia che l’Europa ha conquistato faticosamente al prezzo di tanto sangue.
Tutto è cominciato, peraltro, non con la protervia di Israele (questa c’era fin dalle sue origini) ma con il dislocarsi della stella palestinese e araba da una politica laica, anticolonialista e nazional-patriottica con venature socialiste, verso un integralismo religioso su basi nazionalistiche, che a Gaza Hamas esprime in modo compiuto. Così nella metropoli postcoloniale, particolarmente in Francia, una gioventù nata dall’immigrazione si è andata sempre più collocando su posizioni islamiste quando non jihadiste in senso stretto. Ne sono venuti gli attacchi alle sinagoghe, una giudeofobia diffusa nelle banlieues che è il corrispettivo della islamofobia che serpeggia nei quartieri bene. Lo si deve affermare con forza: questa situazione è il risultato di un mondo – di un’Europa in primo luogo – che non ha mai veramente risolto la questione coloniale, cioè le sue conseguenze storiche nella cosiddetta madrepatria, e nemmeno – bisogna dirlo – nei paesi terzi il problema di un’autentica indipendenza, in primis economica, che riuscisse a far crescere una democrazia autoctona. Il fallimento pressoché completo delle recenti rivolte nel mondo arabo, con la lunga serie di sanguinose repressioni (si pensi in particolare all’Egitto), sta lì a dimostrarlo: si tratta di realtà sociali e politiche in cui la religione è diventata la maggiore forza di opposizione a regimi militari e dittatoriali per lo più corrotti.
In mancanza di un’iniziativa in grado di spezzare la spirale di islamofobia e giudeofobia, con i militanti filopalestinesi che a Parigi e altrove si scontrano con i militanti ebrei, il presidente Hollande e il suo primo ministro Manuel Valls hanno pensato bene di vietare le manifestazioni. Questa non è soltanto una discutibilissima decisione illiberale (nella incapacità di garantire il carattere pacifico delle manifestazioni, si tenta semplicemente di impedirle), è il sintomo, ormai da tempo conclamato, del fatto che i socialisti europei, dediti unicamente alla gestione, hanno rinunciato alla politica, alla possibilità di dare risposte e di fare proposte che si sforzino di districare l’inestricabile. La qual cosa, oggi come ieri, potrebbe essere detta politica socialista come capacità, o perfino soltanto speranza, di mutare la natura dei conflitti a sfondo nazionalista, etnico, religioso o comunitario, in conflitti sociali in cui a collocarsi nella contesa non sia il partecipante a questa o quella forma di vita (ebraica o musulmana o cristiana) ma l’oppresso contro l’oppressore.
[Immagine: Barriera di separazione israeliana (gm)].
NON RESTA CHE SCHIERARSI O STARE A GUARDARE
Ringrazio Genovese che con questo post offre almeno un altro spazio per confrontarsi sul nuovo conflitto in corso tra israeliani e palestinesi, permettendo di non sollevare in modo antipatico la questione in post letterari (come quello di Clotilde Bertoni di qualche giorno fa).
È dal 10 luglio che su «Poliscritture» ragioniamo dei nuovi bombardamenti su Gaza, dei razzi di Hamas, dei morti e della sofferenza dei civili (e perché no anche dei militari che combattono), del “silenzio degli intellettuali” spezzato in modi che possono sembrare disperati o gratuitamente provocatori (ad es. le dichiarazioni di Vattimo). Un’amica mi ha inviato alcuni articoli scritti nel dicembre 2008 al tempo dell’operazione «Piombo fuso». Confermano la ripetitività sconsolante dei fatti e dei commenti. Ce n’è uno di Felice Besostri (Cfr. Appendice) che sintetizza lucidamente l’amaro dilemma di quanti non vivono né in Israele né a Gaza: schierarsi o stare a guardare.
A me per ora non resta che testimoniare con altri “bruttissimi versi” la quasi disperazione, che non credo solo mia, in attesa che altri diano motivi per uscirne.
SULLA DIFFICOLTÀ DI DIRE DI GAZA IN POESIA (2)
di Ennio Abate
Non volete
nemmeno osservare le piccole persone
che stridono sotto le nostre scarpe?
Come l’agonizzante diventa un sasso lo sapete.
Come si butta via
Die Leiche il cadavere spezzato l’avete visto.
(F. Fortini, Perché alla fine…
da Paesaggio con serpente, p. 266,
Versi scelti (1939-1989), Einaudi 1990)
I
Sempre discutere. Ma la gente e i poeti non vollero più discutere.
La vita, la poesia, non è discussione, dicevano.
E la folla andava per le strade in silenzio.
E la poesia per boschi, per amori e per primordi.
Sempre andava la poesia coi suoi linguaggi lievi e giovani
intraducibili nei pesanti e gracchianti della politica.
In Occidente erano di moda i linguaggi della leggerezza.
E leggeri erano divenuti gli stessi detti degli uomini lupi
che allenavano giovani lupissimi all’esercizio del terrore e del progresso.
Oh, come carezzevoli le ombre delle parole poetiche!
Oh, come mordevano con dolci menzogne i lupi della politica!
II
Solo pochi, che in epoca più azzurra erano stati alleati dei poeti liberi
ed epigoni avevano visto frantumarsi il secolo della Grande Causa,
guardandosi incerti e tra loro sospettosi volevano convincerci
che, sì, i lupi potevano mordere in altri modi o solo altri lupi.
Ma i lupi mordevano sempre duro e dappertutto e
anche i poeti e a sangue soprattutto la gente comune.
E noi come piccoli kafka dallo sguardo spaurito
ma dal cuore coraggioso passando in mezzo al branco
li sentivamo ringhiare: non servono i poeti.
Subito dopo spezzavano le braccia dei combattenti appena catturati
con un colpo secco e violavano le donne lasciandole storpiate.
III
Altri, soprattutto i giovani (poeti per forza anche loro!), mangiavano assieme ai Proci
volgendo altrove lo sguardo. «Sarà stato il vento!», rispondevano.
« Il vento?». «Sì, proprio lui».[1] Sentivano « il rumore dei passi di una giovane sposa
che cerca suo figlio e chiede guardando nell’ora che si è fermata.»[2].
«Angeli che non parlano»[2] parevano. O se parlavano
raccontavano emozioni dai polpastrelli rosei
e esclamanti seppellivano sintassi e prosa di riflessione.
Non volevano più ruminare i fatti cupi, non li volevano collegare
li sputavano subito o l’ingoiavano così come apparivano….
Cullavano le loro menti color pastello nei sogni. «Come lo amavano, il niente
quelle giovani carni»[3].
IV
Non proprio a patti coi lupi, suggerivano altri, i saggi,
ma conviverci è necessario. I lupi non c’entrano nella poesia,
non puoi capirne le mosse in poesia. Per quelle la politica.
Il duello che ti dura nel petto è d’altra epoca.
Nominarli i lupi in poesia non serve. E a che pro parlarne
se tutti stanno diventando lupi e tutti li rispettano?
Vola alto con noi, impara dai giovani Telemachi [4], vecchio.
La resistenza la fecero i padri. I poeti vennero solo dopo gli spari.
Orsù, non gingillarti coi cocci. Non lustrarli. Non depositare negli appositi spazi
il tuo «risentimento imbellettato col rossetto del marxismo-leninismo»[5].
Basta accendere lumini ai santi padri scoloriti sognando irricomponibili sintesi!
V
Sì, la poesia è «un baule senza fori d’uscita» [6], lutto di sconfitta,
catacomba di martiri veri con cuori finti scolpiti su quelli veri.
Può scavare cunicoli. Non nelle cose. Soltanto nelle parole. Può svuotarle,
mostrare la falsità della guaina che ricopre l’orrore della storia
a quanti verranno dopo e se ancora s’ostineranno a non riprodurlo.
Le cose non si spostano poeticamente. E perciò i lupi silenziosi
dappertutto comandano e stritolano popoli, non rispondendo
ad appello o invettiva, lasciandoti in questo loculo di bambagia.
VI
Sei soltanto un poeta, un servo che in mezzo ai servi, trattenuto da altri servi
agisce nel tempo occidentale che gli resta, nell’io che si ritira
e medita ansioso. Non più tra i noi che assieme combattono.
E perciò Gaza è lì spoglia, in agonia, Itaca a cui nessuno vuole o può più tornare.
*Note
1. Giuseppina Di Leo, Nel non senso (pensando a Gaza) / BOZZA
2 . Mayoor, Israele.
3. Da «E questo è il sonno…», in Composita solvantur, pag 62 Einaudi 1994
4. Remo Ceserani, La generazione Telemaco e la critica letteraria. Su due libri di Stefano Ercolino
(http://www.leparoleelecose.it/?p=15700)
5. Da un commento su LE PAROLE E LE COSE (http://www.leparoleelecose.it/?p=15700#comment-256731)
6. Espressione tratta da una mail di un amico.
*APPENDICE
30 dicembre 2008
dal blog del circolo Rosselli di Milano
FELICE BESOSTRI, NOI DI SINISTRA, ISRAELE E LA PALESTINA
I fatti recenti in Israele/Palestina dalla rottura della tregua alla massiccia e
violenta rappresaglia israeliana scuotono sia le piazze del mondo arabo che
la coscienza di ciascuno di noi, che ne siamo spettatori senza la possibilità di
essere, non dico protagonisti, ma soggetti attivi, cioè in grado di influire, sia
pure in forma limitata, sugli avvenimenti.
C’è una differenza fondamentale tra due campi dell’opinione pubblica, che
non è quella tra filo-palestinesi e filo-israeliani, bensì tra tutti i filo da un lato e
dall’altro tutti coloro che hanno a cuore i due popoli e le singole persone, che
li compongono.
Questa divisione è trasversale, ma particolarmente acuta nella sinistra e nelle
coscienze individuali, di chi della sinistra fa parte.
C’è una forma sottile dell’antisemitismo, quella per cui gli ebrei – e per
traslazione gli israeliani – non solo sono diversi dagli altri, ma lo devono
essere nel bene e nel male, anzi più nel male che nel bene.
Agli ebrei e, particolarmente, agli ebrei israeliani non si perdona nulla o si
giustifica tutto in nome della loro storia, dalle persecuzioni che hanno patito
alle esigenze di sicurezza.
La sicurezza per gli israeliani non è semplicemente essere al riparo dalle
violenze del terrorismo, ma garanzia di potere sopravvivere come popolo e
come Stato in quell’area del Medio-Oriente.
I palestinesi, come ogni popolo della terra, hanno diritto alla loro identità ed
all’autodeterminazione, allo sviluppo ed alla dignità collettiva ed individuale:
in tutta la Palestina, ma soprattutto nella Striscia di Gaza, non ne possono
godere.
Il dramma, che allo stato appare insuperabile, è che le reciproche esigenze
non possano essere soddisfatte, che con la negazione totale e radicale
dell’altro.
Per Hamas la creazione di uno Stato Palestinese richiede l’annientamento
dell'”entità sionista” e lo stato futuro dovrebbe essere retto dalla sharia: uno
stato dove non ci sarà spazio per gli israeliani ma neppure per gli arabi
cristiani.
Per settori israeliani l’unica sicurezza concepibile consiste non solo
nell’erezione di muri invalicabili, ma nella deportazione fuori dai confini di
Israele della popolazione araba, compresa quella araba di nazionalità
israeliana: una sicurezza ossessiva troppo simile ad un’ideologia
totalizzante, come la purezza della razza.
Se il dilemma è questo, dobbiamo confessare la nostra impotenza e quindi
schierarsi da una parte o dall’altra.
Questa scelta di campo significa anche non poter andare troppo nel sottile
nel scegliersi la compagnia. Per tutti quelli che comunque ritengono
intollerabile la scomparsa di Israele e l’annientamento del suo popolo, stare
in compagnia di ex o post-fascisti di recente convertiti alla causa di Israele.
Per chi è preoccupato delle sorti del popolo di Palestina essere complice del
fanatismo integralista, dei terroristi e nel migliore dei casi tacere sul regime
iraniano.
Per chi ha coscienza non si può rimanere indifferenti rispetto all’umiliazione
quotidiana dei palestinesi ed alle vittime civili delle rappresaglie israeliane,
che non si possono liquidare come effetti collaterali, un prezzo comunque da
pagare, come delle vittime israeliane dei kamikaze e delle loro bombe sugli
autobus, nei mercati e nei luoghi di ritrovo.
L’indifferenza non si può giustificare con il fatto che gli avvenimenti sono
visibili in presa diretta e perciò vissuti come manipolazione dell’opinione
pubblica.
Al Jazeera ha allestito un secondo canale esclusivamente dedicato alle
rappresaglie israeliane e alle vittime palestinesi con l’effetto di moltiplicare la
collera delle masse arabe in contrasto con l’inerzia dei loro governi.
Cosa cambia rispetto ai fatti che non abbiamo gli stessi reportage dei
massacri nel Sud Sudan o che i genocidi del Ruanda sono stati perpetrati
lontano dalle telecamere?
Il fatto grave è la copertura mediatica del conflitto israelo-palestinese o non,
piuttosto, che in questo nostro villaggio globale le violenze in altre parti del
mondo non abbiano, non possano avere o non interessa avere una copertura
mediatica?
Fossimo soltanto degli impassibili analisti potremmo ridurre l’impatto emotivo
contestualizzando i sanguinosi avvenimenti: ci saranno le elezioni in Israele
e la strategia di Hamas è dettata non dalla dirigenza locale, bensì da quella
in esilio e pertanto sotto l’influenza, se non il controllo, degli Hezbollah
libanesi e dei loro patron siriani e libanesi. Sono cose ovvie, ma non riducono
il dolore delle madri delle vittime o la disperazione dei sopravvissuti alla
distruzione delle proprie case o dei familiari di chi è stato colpito da un razzo
Qassam.
La protesta degli amici di Israele contro la sproporzione della reazione
militare potrebbe essere più forte ed influente, se gli amici dei palestinesi non
tacessero sui lanci dei razzi, sulla detenzione del sergente Shalit, diventata
uno spettacolo teatrale, sugli atti di terrorismo, sui massacri di prigionieri o
sulle esecuzioni sommarie di presunti collaboratori, per non fare che alcuni
esempi, o sulla mancanza di libertà civili e sulla corruzione delle autorità
politiche ed amministrative palestinesi o sulle manifestazioni di giubilo ogni
volta che vi siano vittime israeliane o di ebrei, anche al di fuori della zona di
conflitto.
Chi crede nella possibilità,per quanto remota, di una futura possibile
convivenza ed uno sviluppo economico e sociale in Israele e Palestina, che
soltanto la pace o una tregua duratura possono garantire, deve continuare a
testimoniare.
L’alternativa è tacere e, perciò, richiudersi nelle proprie contraddizioni, in
altre parole abdicare, cioè rinunciare alle proprie idee di libertà e giustizia.
Questo prezzo non dobbiamo essere disposti a pagarlo, tanto più ora in
questi drammatici momenti.
Felice Besostri
di Sinistra per Israele
Senon si fa uno stato palestinese e non si ascolta l’Onu, inutile parlare, si sta operando un genocidio, state a gurdarepoeti. I olono hanno invaso tutte le terre, le mura impediscono ai palestinesi di andare in Israele. Niente paure ,pigri peti, è solo un popolo che scomparirà
@ Gaetano
Vabbè non parliamo fin quando non si fa lo Stato palestinese e non si [?!] ascolta l’Onu.
1) Nelle operazioni militari in corso, sul piano strategico la posizione più forte è quella di Hamas. Infatti,
a) L’obiettivo bellico dichiarato da Israele, far cessare i lanci di missili sul suo territorio, NON può essere raggiunto, neanche occupando la striscia di Gaza, perchè richiederebbe una numerosissima guarnigione permanente che Israele non può permettersi: le mancano sia le risorse economiche sia gli uomini (Israele è florida e ha un ottimo esercito, ma è piccola).
b) Hamas ha cercato, voluto e ottenuto l’invasione delle forze terrestri israeliane per due ragioni: 1) per causare perdite agli israeliani (si rammenti che sono soldati di leva, per ogni caduto ci sono famiglie che reagiscono anche politicamente) 2) ottenere una trattativa sulla cessazione del blocco della striscia di Gaza in cambio della cessazione dei lanci di missili.
c) Ora, siccome Israele non può far cessare i lanci di missili con la forza ha di fronte a sè due opzioni: I) continuare con la punizione collettiva dei civili (crimine di guerra sanzionato dal diritto internazionale), e poi ritirarsi senza aver ottenuto niente, tranne la riprovazione dell’opinione pubblica mondiale II) intavolare una trattativa con Hamas. In entrambi i casi, Israele perde, anzi ha già perso, anche se dalla eventuale trattativa Hamas non ricava nulla di solido.
d) Lascio la valutazione politica ed etica della politica di Hamas al lettore. E’ senz’altro una linea politica estrema, adottata in una situazione altrettanto estrema. Giudicata politicamente: se funziona (se gli israeliani levano il blocco a Gaza) è giustificabile, altrimenti no. Secondo me non funziona, Israele e in particolare il suo governo non possono permettersi una disfatta così enorme. Giudicata eticamente: la trovo terrificante. Mi ricorda il passo del “De Bello gallico” in cui, in Alesia affamata assediata da Cesare, un capo Gallo propone di uccidere i figli e e di mangiarli per guadagnare il tempo necessario all’arrivo dei rinforzi: tanto di figli se ne possono sempre fare degli altri, mentre la libertà, una volta persa, non si recupera più. In quell’occasione, i Galli non se la sentirono (e persero). Non trovandomi ad Alesia, sospendo il giudizio. Se ci fossi stato, probabilmente avrei votato contro anche io.
2) Guardate che in Ucraina si stanno consumando, ad opera delle forze governative di Kiev, massacri molto PEGGIORI di quelli commessi da Israele a Gaza, solo che non ne parla nessuno; in Occidente chi sa tace (per non disturbare il manovratore) o mente (per dargli una mano) o non può farsi sentire (perchè non ne ha i mezzi): così, l’opinione pubblica finisce per non avere un’idea sparata della situazione; mentre sulla Palestina, dài e dài, qualcosetta si sa anche qui.
Inoltre, l’importanza dello scontro in Ucraina è infinitamente maggiore sul piano storico: ci si sta giocando l’ordine del mondo per le prossime generazioni, e ci si rischia uno scontro diretto fra NATO e Russia. Segnalo che proprio in questi giorni un gruppo di13 senatori USA ha presentato una proposta di legge “per prevenire ulteriori aggressioni della Russia ai danni dell’Ucraina e di altre nazioni europee”, che, se passerà, darà il semaforo verde a una escalation militare NATO contro la Russia. Per la Russia sono in gioco interessi vitali. La Russia dispone di circa 8.000 testate nucleari strategiche. La Russia è vicina, per andare a Mosca ci si mette come per andare da Milano a Palermo.
3) La situazione in Palestina è insolubile perchè:
a) Israele si è costituita come stato ebraico, alla cittadinanza del quale ha diritto qualunque ebreo nel mondo.
b) ne consegue che Israele non può nè accettare i confini pre-guerra del ’67 (non avrebbe abbastanza spazio vitale per ospitare i coloni) nè incorporare i palestinesi senza formalizzarne anche giuridicamente l’apartheid (la dinamica demografica di ebrei e palestinesi è tale che una Greater Israel della quale fossero cittadini a pieno titolo entrambe le etnie sarebbe subito governata dai palestinesi, che potrebbero trasformarla, per via elettorale, anche in uno Stato islamico, con le conseguenze immaginabili).
c) sembrano dunque impraticabili sia la soluzione due Stati, sia la soluzione uno Stato. La soluzione “cancelliamo i palestinesi” uccidendoli quasi tutti o espellendoli con la forza è praticabile sul piano militare, non sul piano politico, per le ripercussioni sul sistema delle alleanze internazionali. La soluzione “cancelliamo Israele” è praticabile sul piano politico, nel caso (improbabile, non impossibile) che gli USA in futuro se ne disinteressino; impraticabile sul piano militare, perchè Israele possiede circa 200 testate atomiche.
d) soluzioni diverse ce ne sarebbero, in teoria, ma andrebbero tutte imposte a entrambi i contendenti con la forza, dall’esterno, e garantite per un tempo molto lungo dalla presenza di forze di pace internazionali, molto numerose e con ampia libertà d’azione sul campo (in realtà, forze d’occupazione); il che di fatto configurerebbe un Protettorato (retto da chi?).
e) spero e credo che brucino nel più profondo dell’inferno i responsabili politici primi di questa situazione senza via d’uscita, vale a dire i dirigenti politici dell’Impero britannico che diedero la Palestina ai sionisti.
Esiste un nesso fra la sporca guerra dell’imperialismo euro-americano in Ucraina e in Siria, il sanguinoso e, fino a non molto tempo fa, “dimenticato” conflitto che continua a dilaniare l’Iraq, la definitiva ‘balcanizzazione’ della Libia (che riproduce il destino della Somalia), il riaccendersi del conflitto tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza e l’andamento delle Borse nel quadro della crisi economico-finanziaria mondiale?
Certo, fra questi eventi esiste un preciso rapporto temporale di successione o di concomitanza (quale che sia stato il loro inizio, hanno raggiunto l’acme durante questa estate), così come esiste un preciso rapporto di connessione spaziale (tutti gli eventi or ora citati si collocano nell’area, sempre più nevralgica per le relazioni internazionali, dove si trovano materie prime di importanza strategica per lo sviluppo tecnologico e industriale dell’Occidente, come petrolio, gas naturali, minerali e diverse specie di metalli pregiati), ma esiste soprattutto un preciso rapporto causale, che li stringe l’uno all’altro in una catena di ferro e di sangue che ha il nome di imperialismo (un nome che anche in questo dibattito sembra impronunciabile, segno evidente della sua egemonia). E l’imperialismo porta con sé la guerra come la nuvola la tempesta, secondo l’efficace metafora di un prestigioso dirigente socialista francese, Jean Jaurès, che fu assassinato esattamente cento anni fa (dunque alla vigilia della prima guerra mondiale) proprio per la sua coerente opposizione al militarismo, cioè ad uno dei malefici rampolli generati da questo mostro. Un mostro che si potrebbe definire trifauce, in quanto materiato di sfruttamento, guerra e oppressione coloniale.
Orbene, il fatto che l’epicentro delle contraddizioni generate da questo sistema mondiale sia oggi situato in Africa non è casuale, ma dipende dal crescente antagonismo fra i paesi imperialisti, in particolare tra gli Usa, la Francia e la Gran Bretagna (esattamente come durante la crisi di Suez del 1956), impegnati, per un verso, a sfruttare ricchezze naturali e manodopera presenti in questo continente e, per un altro verso, a prevenire, controllare e reprimere (non solo il risveglio del fondamentalismo islamico, con il quale è sempre possibile stabilire alleanze più o meno strette, come ha dimostrato nel 2011 l’appoggio ai ribelli di Bengasi e trent’anni fa l’appoggio ai ‘talebani’ usati come lancia spezzata contro il governo laico, progressista e filosovietico di Najibullah in Afghanistan, ma anche) la rinascita del panafricanismo e il sostegno economico e politico che la Cina fornisce a questo fondamentale processo. Le armi, di cui si serve il neocolonialismo per fronteggiare le lotte di liberazione nazionale e perpetuare il dominio dei monopoli occidentali attraverso l’appoggio alle borghesie compradore che mediano l’espropriazione delle risorse di questi paesi, sono la strumentalizzazione dei conflitti intertribali e l’organizzazione di gruppi armati in funzione repressiva e antipopolare, senza eccettuare l’assassinio (si pensi al dirigente nazionalista congolese Lumumba, fatto trucidare nel 1961 dall’allora colonnello Mobutu che poco dopo avrebbe rovesciato Kasavubu, prendendo il potere nel Congo e cambiandone il nome in Zaire) e il genocidio (si pensi a quello contro un milione di tutsi, che nel 1994 in Ruanda compì la minoranza hutu, appoggiata dalla Francia, allo scopo di fermare il Fronte patriottico del Ruanda, formato da etnia tutsi e nazionalisti hutu).
È allora doveroso precisare che i ‘mass media’ occidentali, sia allora che oggi, hanno coperto con il silenzio e con la mistificazione le colpe dei paesi che si dicono civili e che usano l’espressione di Terzo Mondo come sinonimo di arretratezza e di barbarie; parimenti, associazioni quali ‘Medici senza frontiere’, ‘Nigrizia’ dei missionari comboniani e tante altre, sostanzialmente al servizio degli imperialisti, quando non sono rimaste silenti e complici di fronte alle guerre di aggressione (come nel caso della guerra contro la Libia), si sono limitate a versare lacrime di coccodrillo su tali fatti, occultando sotto la maschera umanitaria le spregevoli azioni del colonialismo vecchio e nuovo (queste, sì, veramente barbare per le modalità tattiche, per i loro fini strategici e per l’impiego di una tecnologia militare tanto sofisticata quanto distruttiva).
In realtà, quella che l’imperialismo conduce è una guerra quotidiana contro due miliardi di uomini per garantire il benessere a 500.000 uomini (per i popoli dell’Occidente capitalista si tratta di un relativo e ormai decrescente benessere, ma non di libertà, poiché, come insegna Lenin, un popolo che ne opprime un altro non è un popolo libero). La crisi economica mondiale non lascia alternative all’imperialismo, per cui vale, sia verso i paesi e i popoli dominati sia fra le sue diverse e concorrenti sezioni, la regola ‘mors tua, vita mea’. Gli inviti alla moderazione, che vengono rivolti dai governi occidentali all’esercito israeliano impegnato a completare con una catena di eccidi l’azione distruttiva e sterminatrice posta in atto sin dalla sua fondazione contro la popolazione palestinese, sono soltanto una manifestazione di cinismo e di ipocrisia, perché è ormai assodato che l’imperialismo non vuole fare se non quello che può fare. Così, la circostanza per cui despoti medievali (come quelli sauditi) od oppressori superarmati (come quelli israeliani) sono considerati ‘amici’ senza riserve dall’Occidente non è il frutto di una scelta, ma è la conseguenza della necessità, in cui esso si trova, di garantirsi la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e il controllo delle vie di comunicazione lungo le quali transitano le materie prime.
L’attuale situazione africana e mediorientale comprova in modo impressionante le conseguenze rovinose del capitalismo selvaggio, cioè della dittatura dell’economia del profitto e della rendita, che costringe i paesi imperialisti, in base ad una logica delle cose e dei fatti che è assai più potente delle intenzioni e delle dottrine, così come delle false giustificazioni ‘umanitarie’, a porsi solo obiettivi economici, senza considerare gli aspetti politici e sociali (= fine del capitalismo dal volto umano). Ma se è vero che la globalizzazione, prima ancora di essere un progetto, è una necessità vitale imposta dal mercato capitalistico mondiale, è anche vero che essa si converte per esso in una necessità mortale, perché “il capitale non lavora più da solo alla sua dissoluzione; ha fatto in modo che al suo abbattimento collabori il mondo intero” (Marx).
Malgrado l’articolo che ho postato sul mio blog
http://ideologiaverde.blogspot.it/2014/07/cosa-accomuna-crisi-economica-globale-e.html
abbia un incipit molto simile a quello dell’intervento di Barone (giuro tuttavia di non averlo copiato, ho letto Barone solo adesso), malgrado conveniamo su molti aspetti, a me preme sottolineare come tutto questo non sia come dire il regolare funzionamento tenuto da una nazione imperialista, ma che al contrario proprio il concentrarsi di tanti e tanto differenti tipi di crisi è il sintomo che questo impero ha il fiatone, non regge questo ritmo dello svolgimento degli eventi mondiali. E’ quindi un gigante ancora forte ma che inizia ad annaspare, come un grande atleta che improvvisamente scopre di essere in debito di ossigeno, che si dibatte ma senza avere uno straccio di strategia di uscita dalle crisi. Il massimo che sembra essere in grado di fare è quello di ritardare la propria caduta.
Voglio essere chiaro, questa sua debolezza lo rende ancora più pericoloso, questo aspetto da ultima spiaggia della sua lotta significa che non arretrerà purtroppo rispetto all’uso di nessun mezzo a sua disposizione per sopravvivere, fosse anche per un periodo breve di tempo, e di mezzi distruttivi ne ha una quantità enorme, e c’è da temere che anche l’armamentario nucleare non verrà escluso dai mezzi da utilizzare.
Ciò che ancora credo vada sottolineato è la sostanziale ignavia dei paesi europei, incapaci anche in ordine sparso se necessario di tagliare il mortale cordone ombelicale che li lega agli USA, e che conferma la perdita di sovranità nazionali in funzione dell’internazionale del capitale, ormai in grado di assumersi in prima persona le scelte anche squisitamente politiche fondamentali, e di imporle senza tanti complimenti ai vari governi, incluso quello USA.
Caro Cucinotta, il Suo articolo testimonia come, di là da inevitabili e contingenti divergenze, sussista fra di noi un ‘idem sentire’ che rende affini i nostri commenti sulle principali questioni di politica interna e internazionale. I ‘quattro moschettieri’ che intervengono nello spazio dedicato di questo sito (Abate, Barone, Buffagni e Cucinotta) continuano infatti, da differenti angolazioni e con differenti modalità, a battere sugli stessi chiodi e a mirare allo stesso bersaglio, e i loro colpi, figli come sono di Polemos e di Dike, suscitano consensi e dissensi, perfino avversioni, mai indifferenza. “Fiso guardando, pur che l’alba nasca”, ringrazio perciò la direzione di questo sito per la sua apertura alle istanze che noi rappresentiamo e La saluto cordialmente.
Israele non è stato regalato a nessuno da nessuno, è nato dalla pura volontà di un gruppo umano marginalizzato da migliaia di anni e dunque eminentemente rivoluzionario. Fu uno scontro di volontà, vinse la più forte. A mio modo di vedere metastoricamente non sarebbe potuta andare che così, tutto, come si dice, congiurava in suo favore.
Caro Barone,
l’entusiasmo che lei ha per se stesso, e per i propri tre interlocutori privilegiati, è molto bello; forse solo la sua convinzione di non suscitare mai indifferenza è lievemente eccessiva (chissà, ci saranno anche lettori che non approvano, non contestano, non avversano i vostri commenti ma semplicemente li saltano a piè pari); comunque non importa.
I moschettieri, però, la prego, li lasci stare. Quelli, Dumas è chiaro al riguardo, sono un po’ idealisti un po’ scanzonati, prendono sul serio alcune cause ma mai se stessi, non si autoincensano, sono anzi molto schivi sui propri meriti, non insultano mai nessuno, difendono i deboli, restano giovani pure quando invecchiano, sono sempre, perdoni il termine desueto, veri signori.
Voi ricordate piuttosto (che dirle, nomen omen) certi baroni d’antan. Oppure, se proprio ci tiene al numero, i quadrumviri di Mussolini.
E bravo Umberto Equo, analisi fantastica.
@ Scaramouche
La differenza tra me e te consiste in questo: io scrivo, intervengo e commento manifestando senza timore e senza reticenza la mia identità personale e il mio pensiero marxista e comunista; tu invece ricorri ad uno pseudonimo per mascherare i tuoi conati denigratori e spacciare un sarcasmo di stampo reazionario.
E bravo pure Scaramouche, mi fa piacere che piacciano anche a lei i “Tre moschettieri”.
Io più modestamente avevo proposto il Quartetto Cetra, ma insomma…
@ pseudinimi vari
Ma parlate di Gaza se ne siete capaci. Dite – non a i tre moschettieri o al quartetto Cetra ma ai lettori di questo blog – cosa pensate, cosa sentite, come ragionate (se ancora ne siete capaci) su questa tragedia.
SEGNALAZIONE: http://www.poliscritture.it/2014/08/01/sio-fossi-gaza-1/
S’io fossi Gaza…(1)
di Ennio Abate
Dal 10 al 31 luglio il post “Punti interrogativi” dedicato agli eventi di Gaza ha ricevuto più di 180 commenti. Abbiamo accompagnato la tragica vicenda come abbiamo potuto: con poesie, riflessioni a caldo, dialogando e, a volte, polemizzando. Ho anche segnalato analisi e appelli di vario orientamento politico. E chi ha ritenuto giusto firmarli l’ha fatto. Le bombe continuano a cadere e ad ammazzare. Le diplomazie fanno i loro giochi sporchi e puliti. I mass media a informare e disinformare. La gente e gli intellettuali a tacere. Noi come singoli possiamo solo continuare a riflettere, scrivere, eventualmente manifestare. Ma mi pare anche ora di rivedere, ciascuno per conto suo, quanto si è detto e scritto in questi venti giorni. O anche prima, in altre occasioni, perché il conflitto tra israeliani e palestinesi ha una lunga storia. Dagli spunti dei 183 commenti e da altre letture ricaverò i pezzi di un mio personale “riordinadiario” che pubblicherò mano mano. Altri eventuali contributi, che abbiano Gaza come tema di partenza, verranno – spero – da quanti non si rassegnano di fronte al non senso della storia. [E.A.]