di Clotilde Bertoni
[Interrompiamo per un giorno le vacanze di LPLC e riprendiamo la nostra programmazione ordinaria per pubblicare un intervento che affronta un tema di cui si è molto discusso in questi giorni: il dibattito parlamentare in Senato]
Nell’“Amaca” di giovedì 31 luglio, Michele Serra afferma che davanti alla guerra vera che infuria su Gaza, la guerriglia parlamentare in corso “appare un lusso”, visto che non è un problema “di vita o di morte”; e che i politici in essa coinvolti dovrebbero ricordarsene, per calibrare meglio “l’inimicizia e l’odio” che li agita e “non apparire ridicolmente suscettibili o platealmente nevrastenici”. Un discorso che ha le sue ragioni d’essere, ma che rasenta il sofisma, la fallacia logica: perché se rispetto a Gaza tutto passa certo in secondo piano, non è una ragione (in questo blog se ne è da poco parlato) per non prendere più nient’altro a cuore: specie se si tratta della riforma del Senato, che non farà morti in senso proprio ma è roba piuttosto seria; e che infatti genera una tensione dipendente non (o almeno non solo) da odio, suscettibilità o nevrastenia, ma innanzitutto da conflitti di idee profondi, da visioni diverse delle istituzioni e della politica.
Cose ovvie, beninteso. Ma se momentaneamente sono sfuggite anche a un giornalista solitamente serio e acuto come Serra, forse è perché ultimamente sfuggono a un mucchio di gente. Le dispute politiche sempre frequenti e le dispute culturali invece ormai rarissime (gli esponenti dell’establishment politico almeno sono abituati alle critiche, quelli dell’establishment culturale quasi più per niente, a toccarli non si azzarda quasi più nessuno) vengono frequentemente accolte come se fossero eventi luttuosi o brutti fatti di cronaca nera: con “costernazione profonda”, “vivo disagio”, “sincero sconforto”, “totale scoramento”, “imbarazzo verso gli italiani”, “vergogna di essere italiani” e via così.
Non si capisce cosa ci sia poi da vergognarsi e desolarsi tanto. In generale perché le polemiche, quando nascono da convinzioni e passioni serie, possono servire parecchio (a demistificare, riflettere, confrontarsi); nello specifico perché le battaglie parlamentari sono ineliminabile componente e forza del parlamento: le nostre migliori leggi sono nate tra liti e contumelie, le magagne e gli abusi di molti governi sono stati portati allo scoperto a suon di urla. I grillini che volevano aprire le Camere come una scatola di tonno hanno invece più semplicemente ridato loro dinamismo, rinverdendo una tradizione gloriosa, quella dell’opposizione parlamentare. E sia quelli di loro che credono di ingaggiare lotte mai viste, sia le anime belle che ne deprecano altamente la mancanza di contegno e l’irriverenza verso le alte cariche, dovrebbero andare a rileggersi i resoconti delle sedute del passato: da quelle in cui gli esponenti della Sinistra Estrema e i socialisti rinfacciavano a Crispi e Giolitti gli scandali bancari e il soffocamento dei primi scioperi; a quelle in cui non solo Matteotti e Gramsci, ma anche Modigliani, Turati, Amendola – prima di decidersi al tanto deprecato (e oggi evocato a sproposito) Aventino – tenevano testa alle feroci minacce fasciste (nel silenzio di tanti altri); a quelle in cui la splendida voce di Giuseppe Di Vittorio andava all’assalto di De Gasperi e Scelba, denunciando il veloce irrigidimento repressivo della Democrazia Cristiana, a tante altre ancora; al confronto, le scene di adesso non sono poi gran cosa.
Certo poi esistono anche degenerazioni strabilianti, e negli anni recenti ce ne sono state troppe: dei cartelli leghisti non se ne può più, lo spettacolo di Nino Strano che saltella per Palazzo Madama ingozzandosi di mortadella dà il voltastomaco, gli insulti sessisti rivolti ad alcune deputate danno i brividi (ma si sa, le donne in fondo hanno diritto al voto da meno di settant’anni, ce ne vuole di tempo per abituarsi a certi cambiamenti), le citazioni a sproposito tanto di alcuni politici quanto di alcuni dei giornalisti che credono di rettificarle, danno solo voglia di pensare ad altro (paragonando Grasso a Oblomov, Grillo ha fatto un grosso torto, al nobile, struggente personaggio di Gončarov beninteso; su “Repubblica” di oggi Francesco Merlo gliene fa un altro, dicendo che la citazione è inopportuna, perché il personaggio in questione è solo “il simbolo della viltà”).
Ma malgrado tutto, ben vengano le grida e le zuffe: vanno messe in conto, sono il segno che qualcosa si muove ancora; a tacitarle ci possono riuscire solo le dittature, conclamate o subdole; e su quelle sì che c’è davvero da costernarsi.
“se rispetto a Gaza tutto passa certo in secondo piano” (Bertoni)
Non me ne voglia: così in secondo piano che qui – su LPLC – non un post è stato dedicato a quella tragedia “in corso” e i pochi tentativi di alcuni commentatori sono stati subito neutralizzati dai soliti “tiratori scelti anonimi” nel silenzio dei redattori del sito, che – suppongo da come mi risposero tempo fa – su Gaza (come sull’Ucraina) non sono “preparati” .
A me va benisimo che LPLC interrompa per un giorno le vacanze per parlare della “guerriglia parlamentare”, ma Gaza può essere evocata solo per tirar giù un Serra dalla sua Amaca?
@ Ennio Abate
Nelle ultime settimane abbiamo pubblicato due articoli sul conflitto fra Palestina e Israele:
http://www.leparoleelecose.it/?p=15641
http://www.leparoleelecose.it/?p=15752
La nostra linea è quella di intervenire quando abbiamo qualcosa di sensato da dire e di evitare le chiacchiere quando non abbiamo nulla da dire. Se lei cerca un po’ di chiacchiere e opinioni di seconda mano su Gaza, non farà fatica a trovarle altrove.
Il Parlamento servirebbe, in teoria, anche a discutere della politica estera italiana, Gaza compresa. A questo scopo servirebbero, sempre in teoria, anche i giornali e i giornalisti, Michele Serra compreso. In questo quadro, le infrazioni al galateo sarebbero, sempre in teoria, un fatterello marginale.
Però, tra il dire della teoria e il fare della realtà effettuale c’è di mezzo il mare, e siamo in agosto: si aprono allora gli ombrelloni, e passano sulla spiaggia i vù’ cumpra’ con i loro tappetini: come riporta fedelmente la signora Bertoni, “costernazione profonda”, “vivo disagio”, “sincero sconforto”, “totale scoramento”, “imbarazzo verso gli italiani”, “vergogna di essere italiani” e via così.”
I bagnanti comprano volentieri, fa sempre comodo sentirsi migliori del vicino (gli italiani di cui ci si vergogna e ci si sconforta sono sempre gli altri: gli italiani falsi, non gli italiani veri, cioè noi).
Questa solfa va avanti dal 1992, nella forma compiuta attuale. La Urpflanze di questo bel trucchetto nasce invece a quasi un secolo fa.
Cominciano i fascisti: i veri italiani siamo noi, gli altri se va bene interessati solo al proprio particulare, se va male traditori. Reagiscono simmetricamente gli antifascisti laici con “l’invasione degli Hyksos” (Croce), il “Che cos’ho io in comune coi servi?” (Gobetti) e poi giù, giù, scendendo nella cronologia e nell’assiologia fino alla folta schiera degli “antitaliani”, da Montanelli, a Scalfari, a Serra, a Franco Buffoni, che in un post qui pubblicato definì icasticamente gli italiani “popolo arretrato, superstizioso, cialtrone e mafioso, con Padre Pio nel portafoglio e il gratta e vinci in mano” [http://www.leparoleelecose.it/?p=9665]
Ora come ora, questa vecchia solfa serve (ed effettivamente serve parecchio) a una cosa sola: demoralizzare e disinformare il popolo italiano, così da giustificare la catastrofe economica e la disgregazione delle istituzioni messe in opera dai governi coloniali che si succedono, sempre eguali e sempre diversi come le stagioni, ormai da diversi anni.
Insomma: se restiamo disoccupati, se ci fregano la pensione, se ci abbassano i salari e ci peggiorano le condizioni di lavoro, se ci tagliano la sanità, se ci massacrano di tasse, se migliaia di imprese chiudono o vendono agli stranieri, se ci fanno saltare i governi con un paio di telefonate internazionali; se firmiamo un solenne trattato di amicizia con uno Stato e due anni dopo contribuiamo attivamente alla sua distruzione, al brutale assassinio del suo presidente, alla sua riduzione a sanguinosa anarchia; se sul conflitto israelo-palestinese sappiamo fare solo chiacchiere da dare il diabete; se appoggiamo, allineati e coperti, formazioni nazistoidi in hanno scatenato una guerra civile che ammazza migliaia di civili e può portare l’Europa al conflitto diretto con una grande potenza nucleare, è perchè:
a) siamo maleducati (non come gli stranieri del Nord, educatissimi)
b) siamo corrotti (non come gli stranieri del Nord, onestissimi)
c) ciabbiamo le caste (non come gli stranieri del Nord, dove chi vale vale e si fa strada, senza raccomandazioni e parentele).
d) ciabbiamo il debito pubblico al millemila% (non come gli stranieri del Nord, che non cianno il debito ma il credito).
Sembra impossibile, ma dai e dai, a queste povere, sciape scemenze il popolo italiano, tanta parte del popolo italiano, ci ha creduto e ci crede abbastanza; perlomeno, abbastanza da votare Renzi e da non recarsi in piazza con la doppietta carica.
Domanda: chi gliele ha martellate e gliele martella nella testa, queste cretinate? C’è una bella fila; e ai primi posti in graduatoria, pure il sullodato Michele Serra, “giornalista solitamente serio e acuto”.
Perchè veda, signora Bertoni: il discorso di Serra e di tutte le altre donne Letizia del galateo coloniale è “un discorso che ha le sue ragioni d’essere”, ma la sua ragion d’essere c’entra zero con la corretta argomentazione filosofica o con la logica, aritotelica o booleana.
La ragion d’essere di questi discorsi di merda (mi scuserà l’infrazione al galateo) è imbrogliare e rincoglionire (di nuovo mi scuso) la gente che li legge, e punto.
E questi imbrogli, questo rincoglionimento, questa disinformazione sistematica e opprimente, cazzo se ce l’hanno una logica!
Questo “elogio della bagarre parlamentare” è, nella sua ispirazione tardo-azionista, del tutto incongruo e ricorda il volontarismo di Proudhon criticato da Marx. “Che cosa è la società, quale che sia la sua forma? Il prodotto dell’azione reciproca degli uomini. Forse che gli uomini sono liberi di scegliersi questa o quella forma sociale? Niente affatto. Presupponga un determinato stadio di sviluppo delle capacità produttive degli uomini e Lei avrà una forma corrispondente di commercio e di consumo. Presupponga gradi determinati di sviluppo della produzione, del commercio e del consumo, e Lei avrà una forma corrispondente di ordinamento sociale, una organizzazione corrispondente della famiglia, dei ceti e delle classi, in una parola avrà una società civile corrispondente. Presupponga una tale società civile, e Lei avrà un corrispondente Stato politico, il quale non sarà che l’espressione ufficiale della società civile. Queste cose Proudhon non le capirà mai, giacché egli crede di fare chissà che, quando dallo Stato si appella alla società civile, cioè dal compendio ufficiale della società alla società ufficiale.” Così si esprime Karl Marx in una lettera inviata a Pavel Vasilevič Annenkov il 28 dicembre 1846 (Marx–Engels, “Opere”, vol. XXXVIII).
Troppo spesso si tende a spiegare tutto con la manipolazione dei media, con gli inganni dei servizi segreti e con gli intrighi della classe al potere. Questi esistono, non c’è dubbio; ma in questo caso si sta parlando di qualcosa di più istintivo, di viscerale, di endogeno alla società civile stessa: un malessere profondo, al momento non superabile. Il fatto è che, nell’Occidente sviluppato e ancor più in Italia, l’economia non è in grado di garantire uno sviluppo equilibrato. La classica ricetta per rimediare alla sovrapproduzione di capitale è gettarsi nella speculazione finanziaria, utilizzando i capitali eccedenti in borsa, ma i tracolli hanno reso sempre più rischiosa questa via. Altre soluzioni, come l’esportazione di capitali, per esempio creando fabbriche in Romania, sono state largamente impiegate e difficilmente potranno offrire ulteriori opportunità, mentre l’esportazione di manufatti incontra una concorrenza troppo forte, non tanto nella troppo temuta Cina, quanto nella potenza europea che ha il primato nelle esportazioni mondiali, la Germania. A differenza di altri sistemi economico-sociali, che non sono vincolati a ritmi di crescita sostenuti e possono mantenere livelli di produzione pressoché invariati per secoli, il capitalismo ha bisogno di uno sviluppo continuo e la stasi ha conseguenze sociali e politiche gravissime. I capitali eccedenti cercano allora il profitto non più nella crescita della produzione, ma nella speculazione edilizia, nel traffico della droga, nell’usura, nelle costruzioni di grandi opere inutili, nelle truffe delle società finanziarie e negli abusi delle banche. Da un tale vicolo cieco si può uscire soltanto in due modi: con la guerra o con la rivoluzione.
Il malessere crescente si esprime pertanto in una guerra strisciante all’interno della società stessa, guerra non dichiarata condotta per ora con mezzi soprattutto economici ma non meno efficaci, contro i lavoratori, i precari, i pensionati e i disoccupati.
La politica estera è la continuazione della politica interna e questa tendenza al conflitto si sviluppa, sotto le mentite spoglie d’interventi umanitari, ma con forti tendenze a fuoriuscire da questa forma che pone dei limiti, con le richieste di cambiare le regole d’ingaggio. I dirigenti politici non sono in grado di risolvere questi problemi: essi stessi sono il frutto di una selezione alla rovescia, che ha scelto i più reazionari. Sono incapaci non per causa propria, ma perché la società stessa è incapace di sciogliere il nodo che la soffoca. Il taglio chirurgico che potrebbe liberarla, ossia la rivoluzione, è, almeno per tutto un periodo, impossibile. Perciò continuerà questo clima di guerra e di caccia alle streghe, che, se non potrà svilupparsi verso l’esterno, tormenterà ancora la società al suo interno, cercando sempre nuovi capri espiatori. I riflessi del peggioramento possono essere còlti nello specchio deformante del parlamento. A questo proposito, nell’approccio dei vari ‘opinion maker’ si assume come presupposto ciò che non lo è affatto, ovvero che l’esito delle elezioni corrisponda senz’altro alla volontà popolare e sia rappresentativo della società. In realtà, l’unica ‘ratio’ che sta alla base del progetto di Berlusconi e di Renzi, come ha dimostrato anche la recente sentenza di assoluzione nei confronti del primo, è quella che cementa l’intesa fra le due destre e che punta a garantire ad ogni costo la governabilità capitalistica esercitata dalla triade Ue-Bce-Fmi, ricorrendo a dispositivi di carattere talmente autoritario e discriminatorio da far impallidire persino il ricordo della legge Acerbo. Ma se questa è la ‘ratio’, e non vi è dubbio che lo sia, assume allora un risalto davvero plastico la mistificazione ìnsita nel tipo di democrazia deforme ed autoritaria che la crisi ha partorito: una mistificazione che nasce da ciò, che una repubblica, la quale afferma solennemente nella sua Carta di essere fondata sul lavoro, esclude proprio il lavoro, cioè la classe operaia e in genere i lavoratori salariati, dalla partecipazione diretta alle istituzioni e all’esercizio del potere. Accade così che nel modello ferocemente classista di società, di cui questo progetto di controriforma elettorale è una perfetta metonimia, la classe dominante non si preoccupi neanche di salvare le apparenze, essendo del tutto sicura di controllare sia la gestione del potere politico di Stato sia gli esponenti dei partiti e le forze che dovrebbero rappresentare e difendere gli interessi delle classi subalterne. Che i seggi parlamentari siano infatti monopolio degli esponenti di corporazioni molto potenti è un fatto conclamato sin dalla precedente legislatura, giacché prevale nella loro acquisizione e distribuzione un coacervo formato non solo da professionisti della politica, ma anche e soprattutto da avvocati, giornalisti, medici, ingegneri, imprenditori ed alti funzionari della pubblica amministrazione. Un coacervo, va da sé, che, oltre ad essere socialmente ed economicamente omogeneo, costituisce una cerchia chiusa e determinata nella difesa dei propri interessi di fondo, impermeabile rispetto al potenziale afflusso di elementi nuovi che potrebbero alterare gli equilibri esistenti ed i privilegi consolidati, talché, anche quando essa decide di ‘rinnovare’ i suoi ranghi, lo fa cooptando gli elementi sicuri della sua classe. In questo senso i discorsi sulla formazione delle liste elettorali e sulla ‘libertà di scegliere’ i candidati da parte degli elettori, che pure hanno spazio nei commenti e nelle analisi, sono più squallidi del vento d’autunno che sussurra tra le foglie secche.
Naturalmente, la corrispondenza tra le gerarchie sociali e le istituzioni politiche non è mai così totale da risolversi in una completa coincidenza, poiché esiste un certo margine di oscillazione che lascia spazio ad un simulacro di parvenza democratica. Può quindi verificarsi, come è successo con il M5S, che una lista elettorale scompagini i soliti giochi e provochi qualche attrito e un minimo di conflittualità, peraltro più apparente che sostanziale. Si tratta, nondimeno, di una variabile il cui impatto è, comunque, limitato sia per la natura neo-qualunquista e piccolo-borghese, cioè endosistemica, del M5S, sia per l’estraneità del medesimo alle questioni e alle rivendicazioni che interessano le masse lavoratrici. La nuda verità è allora questa: il lavoro non ha alcuna rappresentanza nelle istituzioni elettive di questa repubblica, poiché è incompatibile con la natura ferocemente classista del sistema socio-economico di cui questa repubblica è l’involucro giuridico-formale.
La discussione scaturita dal pezzo di Bertoni mi lascia (come sempre, d’altronde) interdetta non tanto per i contenuti quanto per quello che considero un esiziale vizio di forma che poi diventa qualcosa di ben più grave: l’incapacità di cogliere il senso complessivo di quello che l’altro sta dicendo per aggrapparsi a dettagli secondari o di contorno. Su questo senso complessivo occorrerebbe confrontarsi, e non sulle pezze d’appoggio dell’argomentazione. A me sembra che Bertoni abbia voluto dire semplicemente questo: stiamo attenti a non scandalizzarci troppo della bagarre parlamentare perché da sempre la bagarre è stata sinonimo di confronti democratici e il silenzio di sospensione della democrazia. Punto. Su questo bisognerebbe confrontarsi, magari chiedendosi fino a quando la bagarre stessa è sintomo di vitalità e quando comincia a diventare essa stessa delegittimazione. Ma tutto il resto, compresa l’allusione a serra e in seconda battuta alla sua citazione su ha Gaza, sono secondari. Chi non é interessato all’argomento può semplicemente fregarsene del pezzo, perché l’affermazione che c’è ben altro a cui pensare è semplicemente assurda. Ma c’e di piu. l’incapacità di ‘stare sull pezzo’ mi sembra un pericolosissimo segnale di una più sostanziale e radicale incapacità di confrontarsi veramente con le ragioni dell’altro, senza mettere avanti la propria scala di priorita e la propria emotività. Rispondere veramente all’altro, dialogare veramente con l’interlocutore, chiunque esso sia e in qualsiasi contesto, sarebbe l’unica reale forma di confronto democratico, nonché l’unica strada per non trasformare la bagarre parlamentare in una kermesse insensata e delegittimante. Sarebbe anche quello che dovremmo riuscire a insegnare a scuola, l’unica vera fondamentale lezione di educazione civica che dovremmo impartire, ma questa è un’altra storia.
Perfettamente d’accordo con l’intervento di Marina Polacco. Commentatori, per favore, attenetevi ai pezzi proposti; poi altrove, sui vostri blog, imposterete le questioni in modo diverso e tratterete dei temi che più vi premono anche dicendo che quelli di “Le parole e le cose” sono reticenti su questo e su quello.
Gentile Signora Polacco e Caro Genovese,
se il contenuto dell’articolo di Clotilde Bertoni si esaurisce nel dire: “stiamo attenti a non scandalizzarci troppo della bagarre parlamentare perché da sempre la bagarre è stata sinonimo di confronti democratici e il silenzio di sospensione della democrazia. Punto.” l’unico commento possibile è “Certo, come no.”
Ho aggiunto altro per la seguente ragione: che secondo il mio avviso, chi sui media fa tanto casino sul casino parlamentare in corso, lo fa allo scopo (consapevole o meno non saprei, non possiedo il sincerometro) di compiere un’azione diversiva, cioè di distogliere l’attenzione del pubblico da ciò che veramente conta (i contenuti) a ciò che conta zero o zero virgola cinque, cioè la buona o mala educazione dei contestatori. Esattamente come gli stessi media fanno per altre vicende altrettanto o più importanti, come quelle che ho elencato più sopra e non ripeto.
Suggerivo dunque: attenzione a non cascarci, guardiamo la luna invece del dito.
Sono andato fuori tema? Non so, i professori siete voi, la classe è vostra, accetto di buon grado i vostri voti e anche un’eventuale bocciatura.
Il pezzo di Bertoni, con finezza e senza mai oltrepassare la misura, denuncia il brutto clima di unanimismo, promosso in particolare da “Repubblica”, intorno alla trovata del piazzista fiorentino che sta passando come riforma del Senato. Si tratta di una riforma che altera profondamente gli equilibri istituzionali: da un lato è semplicemente idiota (un Senato non elettivo formato da un centinaio di rappresentanti regionali); dall’altro allude a una forma di presidenzialismo o di premierato forte – se si pensa alla contemporanea proposta di legge elettorale – del tutto in contrasto con una repubblica di tipo parlamentare come la nostra. Chi in passato si è opposto a una riforma costituzionale berlusconiana di sapore molto simile, che fu cancellata dal successivo referendum, non dovrebbe essere acquiescente o addirittura sostenere questa vanificazione del Senato che si cerca di far passare come una semplificazione dei lavori parlamentari. Opporsi con durezza – come purtroppo nei giorni scorsi soltanto un pugno di senatori di sinistra e un numero ben maggiore di senatori (semi)qualunquisti – è ciò che bisogna fare.
Mi scuso con tutti se, per motivi contingenti, replico un po’ in ritardo e troppo rapidamente.
Per Abate: non posso che associarmi a quanto le ha già ricordato LPLC e a quanto hanno già detto Marina Polacco e Rino Genovese; avevo già espresso considerazioni in linea con le loro in relazione ad altri suoi interventi su miei precedenti post.
Per il signor Buffagni: sono d’accordo, spesso la grancassa mediatica amplifica la bagarre strumentalmente. Non mi è chiaro invece l’ammonimento che mi rivolge verso la fine del suo primo commento (il mio pezzo nasceva appunto in polemica con quello di Serra). E nemmeno mi è chiaro il senso del suo conclusivo passaggio al turpiloquio.
Per Barone: mi scusi ma onestamente, se qui se c’è qualcosa di incongruo a me sembra il commento suo (anche in questo caso non posso che far riferimento a quanto dicono Polacco e Genovese). Ad ogni modo, il suo discorso tira in ballo questioni enormi, che richiederebbero non dico un altro post ma piuttosto un libro intero; e ha ragione nel ricordare che le democrazie rappresentative sono spesso insufficienti, deboli, viziate alla base: questo però non cancella l’importanza che lo scontro parlamentare può avere e ha avuto in momenti diversissimi, traducendosi, oltre che, come ricorda Polacco, in confronto democratico, anche in attacco essenziale a mistificazioni e storture di governi vari. Se il mio pezzo le è sembrato tardo-azionista pazienza; ma lo spirito non era quello, glielo posso assicurare.
Mi scuso ancora, stavolta solo con Rino Genovese… per un problema tecnico, leggo solo adesso il suo secondo commento, che porta avanti la riflessione: grazie.
@ Le parole e le cose
Sì, ho scritto il commento in fretta e in quel momento non mi sono ricordato dei due post di Balicco e Genovese. Dunque, ho sbagliato a scrivere «non un post è stato dedicato a quella tragedia “in corso”».
Ciò detto, resta sintomatico il quasi silenzio che li ha seguiti.
Gentile Signora Bertoni,
le chiarisco il senso del mio “ammonimento” e del mio “passaggio al turpiloquio”.
1. “ammonimento”: Serra et alii sui media non spostano l’attenzione dalla riforma del senato al galateo perchè sono strabici o ignorano la logica aristotelica, ma perchè fanno, sistematicamente, opera di diversione; e la fanno perchè conviene alla loro parte politica spostare l’attenzione del pubblico da ciò che conta a ciò che conta zero o zero virgola cinque. Non è la prima, e neanche l’ultima volta. Così, ad esempio, all’insediamento del governo Monti “l’Unità” (R.i.P.) titolò in prima pagina “Liberazione”, con tanto di tricolore sventolante; o quando l’Italia aggredì la Libia due anni dopo aver firmato un trattato di amicizia con quel paese, i media come un sol uomo scoprirono i tanti deprecabili difetti di stile, estetico e politico, di Gheddafi.
2. “passaggio al turpiloquio”: ho espresso il pensiero qui riformulato al punto 1 usando un paio di parolacce, replicando anche formalmente il fenomeno che lei descrive nel suo articolo: contenuto serio espresso in forma inopportuna. Che cos’è più rilevante? Il contenuto serio o la forma rozza? Nel suo articolo, lei dice che è più importante il contenuto serio, e io sono d’accordo con lei.