di Emanuele Zinato

Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita. (P. P. Pasolini)

Pasolini scriveva questo saggio, poi raccolto in Empirismo eretico (1972), prendendo avvio dalla morte di Kennedy, girata in diretta da un cineamatore tra la folla. Cosa ci dice, per allegoria, quella lontana riflessione pasoliniana riguardo al nostro presente o destino “libico”? A questa domanda bisognerebbe tentare di dar risposta anziché rimuovere le immagini della morte di Gheddafi, o allinearle (come ha fatto Repubblica, preparando il terreno alle banalità del prossimo saggio breve degli esami di Stato), ai cadaveri di Mussolini, del Che, di Ceaușescu, di Hussein…

L’ha scritto Helena Janeczek: le immagini degli ultimi istanti di vita del dittatore, il ferimento, il suo chieder clemenza, le percosse, gli insulti, il sangue, le lacrime, gli spari, sono oscene. Perché? Perché il vero “tema” (ciò che rende difficile parlarne, ciò che ce le rende moleste) infatti non è il sic transit, l’ “ei fu”, la caduta nella polvere, il corpo acciambellato di chi guidò cinque governi. E’ piuttosto la violenza corporea, uno stupro di massa esercitato su qualcuno che prima governava e incassava consensi deliranti e strette di mano e baci dai potenti della Terra.

 Dopo Vermicino, sappiamo bene cosa sia la spettacolarizzazione del morente e dopo il Golfo non abbiamo più alcun moto di sussulto davanti alla riduzione della guerra a fatto virtuale. Tuttavia stavolta un disgusto ci fa abbassare gli occhi, una tensione ci gela le mani. Assistiamo, come se stessimo spiando nel nokia di nostro figlio, a qualcosa di rivoltante: un viso che prima entrava nelle nostre tv imbellettato, guarnito in una grottesca uniforme da domatore, nei piani-sequenza luccicanti e nei primi piani irreali dei servizi televisivi, ora oscilla scomposto, a scatti, tra mani e gambe altrui, percosso in uno sconcio tafferuglio.

 Qualche mese fa, del resto, ci avevano messo in allerta: le immagini della fine di Bin Laden erano “troppo atroci”. Ora sappiamo di che consista questa atrocità: il corpo del capo strappato dagli altari, abbassato nella morte alla lingua del reality, dell’improvvisazione digitale, alla semiotica del deserto del reale, quella restituita dai video dei telefonini. L’assenza di un filtro di linguaggio o grammaticalizzazione ci turba: è la stessa retorica del grado zero che impera su Youtube, con le fulminee sequenze confuse, inframmezzate di gridolini e rumori corporei, le scene di sadismo o di sesso in classe, nei quartieri degradati, nelle tristi gite scolastiche. Il potente è tirato giù dagli spazi canonizzati dei network, gettato d’improvviso in quelli dell’adolescente che si cala le mutande durante la ricreazione, della ragazzetta che russa come se avesse un orgasmo in autobus, del gatto di strada bruciato vivo con l’alcool. A completare il quadro è l’immagine dell’uccisore-minorenne, che ci appare come personaggio e, insieme, come regista e narratore. Costui è indistinguibile, nel volto e nell’abbigliamento, dai suoi coetanei, migranti o meno, che abitano i nostri istituti professionali. Il ragazzetto agita una pistola d’oro, ha gli occhi vuoti: sembra che i suoi gesti di trionfo si svolgano senza convinzione, a puro beneficio dell’occhio del cellulare, del voyeurismo della rete. Analogamente, quando il gruppetto trascina il cadavere la gioia sanguinaria sembra simulata, le risa non sono liberatorie ma stentate. Come fosse un finto orgasmo. Solo il più anziano e malvissuto fra i militi alza la testa del morto perché si veda meglio, con l’occhio soddisfatto del cacciatore che esibisce all’obiettivo il cinghiale ancora caldo.

 Il cineoperatore dilettante di Dallas aveva cercato con mano ferma di farsi professionista e aveva filmato un lungo piano-sequenza girato in soggettiva che culmina con Jacqueline mentre tenta di recuperare sulla carrozzeria un pezzo del cranio del presidente. Per Pasolini, il lavoro del montaggio su quel materiale avrebbe potuto render narrabile l’immediatezza, interrompere il fluire insensato e offrirlo alla coscienza. Il cellulare anonimo a Sirte, tenuto in mano insieme alle armi, puntato a caso e compulsivamente sulla scena, intriso di sangue e di sputi, viceversa ci restituisce in un blob senza mediazioni e senza possibilità alcuna di una messa in forma, il rischio del nostro presente: l’insensatezza, la guerra tribale, il dissolvimento della civiltà, lo stupro di massa. Insomma: quel destino di “eclissi” esemplarmente delineato da Luigi Zoja, nell’intervista a Daniele Balicco.

 Poiché la forma è contenuto, e il medium è il messaggio, quell’immediatezza digitale è allegoria di questo nostro destino possibile e probabile: quello che per un trentennio ha covato nella più tracotante retorica neoliberista riguardo all’inservibilità della cultura critica e delle mediazioni e che ora viene alla luce, smascherato dalla crisi. A questo rischio, nessun argine saprà resistere, nessuna blindatura sarà abbastanza spessa e affidabile: solo l’invenzione collettiva di nuove grammatiche e di nuove parole potrà forse addomesticare la forza bruta delle cose.

30 thoughts on “Morte in diretta

  1. E se il vero senso di quelle immagini, la loro forza svelatrice, non fosse altro che mostrarci la vera faccia di chi andrà a gestire il potere in Libia? E se quella violenza non ci mostrasse altro che una verità prima taciuta per convenienza o per cecità? In pochi, prima, hanno dubitato delle forze “ribelli”; anche a “sinistra” il pauso all’intervento dei “volenterosi” è stato pressoché unanime. E se, più che “l’insensatezza, la guerra tribale, etc.”, l’oscenità di quelle immagini risiedesse proprio nello sbatterci in faccia la nostra incapacità di leggere gli eventi? Forse, più che di nuove grammatiche o di nuove parole, abbiamo bisogno di un nuovo modo di guardare le cose … Il nostro sguardo è malato; quelle immagini lo ribadiscono.

    NeGa

  2. Ho letto con interesse e adesione. Avrei un appunto e una domanda:
    1. la morte di Gheddafi non è una morte in diretta (come non lo erano le altre citate, a partire da quella di Mussolini): è una morte filmata per essere consegnata agli archivi. Questo implicherebbe che non l’evento della morte, ma la sua sceneggiatura sia prodotta ai fini della sua ripresa. Questo scansa l’equivoco grossolano, che Zinato stesso rifiuta, secondo cui le immagini derealizzerebbero qualunque cosa capiti loro a tiro;
    2. ma davvero la categoria di oscenità, che ricorre abbastanza spesso anche qui su LPLC (es.: http://www.leparoleelecose.it/?p=1463, http://www.leparoleelecose.it/?p=1087) è adeguata? non siamo forse in una condizione in cui tutto è passibile di essere messo in scena, in cui non esiste potenzialmente più nessun fuori onda?

    @ng
    La sua lettura è molto convincente.

  3. E se quella immagine di Gheddafi fosse un avvertimento del tipo: questa è la fine che faranno tutti coloro che oseranno contrapporsi a noi “democratici”?
    E se quella foto avesse fatto del “dittatore” Gheddafi un martire? (Provate ad accostarla, vista la vostra attenzione agli archetipi, al “Cristo morto” del Mantegna…).
    Aggiungo questa poesia. L’avevo scritta nel 2007 e l’avevo rivolta ai soli poeti. Oggi la estendo a tutti:

    I POETI IN TEMPO DI GUERRA NON TREMANO ABBASTANZA

    “Io questa mattina mi sono ferito
    a un gambo di rosa, pungendomi il dito.

    Lontano lontano si fanno la guerra
    Il sangue degli altri si sparge per terra .”

    Era qui a Milano una volta il poeta
    coi suoi libri, una rosa in un bicchiere e la radio spenta.
    Le grida nelle nostre piazze e gli spari
    di botto erano cessati.
    Altrove i guerrieri ammazzavano torturavano ora
    sempre lasciando una vittima viva
    una donna di solito che piangendo narrasse.
    Il poeta tremante ascoltò. Invece di una poesia
    scrisse sette amare canzonette e poi morì.

    Ma voi poeti, che dopo Auschwitz
    Ruanda, Afghanistan, Irak, eccetera
    declamate poesie nel sublime immobile
    ditemi: non sanguina mai la vostra rosa
    nel bicchiere? tremano almeno
    i versi quando li deponete nelle plaquettes?

    Uno ha detto: non si sentano in obbligo i poeti
    di scrivere versi contro la guerra. Giammai!
    In democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!
    Nessuno pretenda di più da loro.
    Facciano bene quel che sanno fare, le poesie.

    Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri.
    Pur essi quello che sanno fare, ben fanno.
    Addetta l’una al massacro permanente
    l’altra orgogliosa del canto suo sciancato
    maîtresses entrambe di democrazia
    – oh strano accoppiamento! – guerra
    e poesia assieme dunque procedano?

    Ma di una cara inerme offesa bestiola
    che in noi vive sotto anestesia
    voleva la salvezza il filosofo
    quando dopo Auschwitz ammonì i poeti:
    non scrivete, tremate!
    È quella che ancora oggi si dibatte sul tavolo operatorio
    tra le mani di ossequiati chirurghi della cultura.

    Ma barcollanti fantasmi di speranza ancora approdano
    da barconi sulle coste di questo Paese
    che in immonda puttanesca televisiva democrazia
    guerreggia fuori e tramortisce dentro
    donne, lavavetri e rumeni
    e annegherebbe in uno sputo tutta la loro carnale poesia.

    Oh belle statuine di poeti, via le pose civili.
    Altrove, in macabra pirotecnia
    uomini-bomba esplodono
    ma non raggiungono l’altezza della poesia
    che voi melliflui e solerti adagiate
    sull’opulento divano occidentale che l’accoglie.

    Se potete ancora, tremate.
    Non come già fate
    per la minaccia che i poveri giustamente
    portano ai ricchi coi quali trafficate.
    Tremate di fronte all’orrore
    da voi cancellato in nome della poesia.

  4. Il linciaggio di Gheddafi è stato una barbarie, d’accordo, ma non è stato gratuito o inutile: Gheddafi è stato assassinato per evitare di portarlo davanti a un tribunale dove avrebbe potuto rivelare tutto ciò che sapeva sui rapporti tra il suo governo e i paesi che fino a poco prima di averlo pugnalato alle spalle gli erano amici e avrebbe potuto rivelare chi in realtà siano Jibril e Jalil, gli attuali leaders del CNT e fino a poco fa suoi fedeli servitori. Insomma, Gheddafi era molto scomodo da vivo, e questa barbarie è stato un atto dovuto da parte dei “ribelli” (o fantocci che dir si voglia), uno scambio di favori tra i fedeli di re Idris (che rimpiangono, come hanno detto a Frattini, il regime coloniale fascista) e i paesi neo-colonialisti. Ed è probabile che questa “fine” di Gheddafi e della guerra sia anche l’inizio di una lotta sanguinaria tra le fazioni tribali libiche per il potere. Insomma, prossimamente su questo schermo assisteremo al sequel.

  5. Che la bestialità (mi scuso con gli animali, che non sono bestie) di chi ha massacrato il corpo del capo prima acclamato e di chi ha ripreso, con i potenti mezzi della moderna tecnologia una scena primordiale sia la lampante autodichiarazione di chi avrà in mano il potere in Libia è chiarissimo. Non dimentichiamo in ogni caso che le elezioni in Tunisia e non solo stanno prospettando l’avvento di governi non certo laici. Ma questo è un altro discorso.
    Mi viene invece da fare molte riflessioni, a proposito di questo argomento, su quanto, in altri post, è stato scritto e commentato in LPLC.
    Prima di tutto il fatto che, quella che chiamiamo civiltà, come ho già detto in uno dei commenti alla bellissima intervista di Zoja, non è che una sottile pellicola a coprire strutture mentali e agiti non diversi da quelli dei primordi della nostra specie e che basta poco a grattar via per farla riemergere. Non penso infatti si possa dire che chi ha massacrato e ripreso la scena sia peggiore o diverso. Ci metteremmo di nuovo nella posizione di chi giudica dall’alto della propria civiltà una cultura inferiore. Ha invece solo una pellicola più sottile. Prova ne siano appunto tutti gli altri esempi citati, da Mussolini in giù. Non sono scene nuove nella storia, solo che oggi abbiamo mezzi tecnologici per renderle universalmente pubbliche.
    Un’altra considerazione riguarda l’importanza del mito, come mezzo di conoscenza e di interpretazione dell’agire umano.
    L’uccisione rituale del capo, del re, del sovrano, nel momento in cui il suo potere si indebolisce, è ovunque presente. E non è tanto la semplice uccisione, quanto proprio il massacro, la devastazione del suo corpo, compresa l’azione distruttiva dell’irrisione e dell’esposizione oscena, che sostituiscono l’omaggio e l’adorazione di quello stesso corpo che, prima, era rappresentazione del e identificazione col potere. Dunque, sicurezza della sovranità. Basti pensare a quale cura mette, chiunque gestisca un enorme potere, nell’addobbare, rendere sontuoso, rendere simbolico, il proprio corpo. Renderlo unico. Proprio quegli stessi segni di individuazione che poi diventano oggetto di scherno, erano ritenuti la forma simbolica stessa del potere: le rigorose divise, i baffetti, la pelata, i paludamenti da circo, le cappellette a caciottella, i doppiopetto, fino a più recenti interventi di chirurgia plastica. Tutti indici, nei diversi casi, dell’importanza che il corpo assume in quanto simbolo.
    La sovranità detiene la propria forza e ragion d’essere fino a che il “corpo” del sovrano è forte e intatto. Nell’analisi che Frazer fa della figura del re-sacerdote del bosco sacro di Nemi, questo aspetto è presente. Lo stesso Artù – come tutti i sovrani dell’antico mondo celtico – perde il suo potere nell’istante in cui il suo corpo è ferito e indebolito. Ma non perde solo il suo potere, è la terra stessa che va in rovina. Perché la terra E’ il corpo del sovrano. Dunque, nel momento in cui quel corpo si indebolisce, va eliminato e ad esso sostituito un altro corpo, forte e vigoroso. I giovani che col cellulare riprendono l’ammasso di carne che un tempo era il Colonnello, sono forti e vigorosi.
    Tanto era simbolica l’esposizione del corpo vivo e potente di Gheddafi, tanto è simbolica quella di quello stesso corpo massacrato ed esposto.
    Credo che questa lettura potrebbe essere utile per comprendere meglio ciò che ci sta sotto gli occhi.
    Modernità, postmoderno, occidente, civiltà, in certe circostanze ritornano ad essere quel che sono, solo delle categorie.

    L’altra riflessione riguarda il valore dell’umanesimo. Zinato dice: “il nostro sguardo è malato”. E’ vero. Lo è perché al nostro sguardo abbiamo sostituito l’occhio non umano delle macchine. Tra la nostra coscienza e la realtà abbiamo inserito degli oggetti ma abbiamo dimenticato di averlo fatto e deferiamo a quegli oggetti il compito di “conoscere”.
    Quella della mancanza di elaborazione di questo aspetto è forse la più pericolosa delle tentazioni dell’oggi.
    Se un mezzo abbiamo per rendere quella pellicina più robusta e resistente, non è certo lo sviluppo della tecnologia o della scienza come l’occidente oggi la intende, ma dell’umanesimo, inteso come la costante capacità critica dei loro fini e della loro applicazione. La scienza in occidente – ma anche in oriente – nasce dalla filosofia e dall’amore, dunque, per la conoscenza. Cacciari dice che senza amore non c’è conoscenza. E l’amore è quell’umanesimo che oggi si tenta di ricacciare nel retrobottega.
    La conoscenza, da sola, non soltanto è inservibile, ma può diventare pericolosa. E’ l’atteggiamento con cui alla conoscenza ci si accosta e i fini per i quali la si persegue che fanno la differenza.
    Potrebbe essere questo un nuovo modo di guardare le cose. Quello di non dimenticare mai chi, perché e come sta guardando.

  6. ” la nostra incapacità di leggere gli eventi ” di cui giustamente dice NG, a cosa è dovuta? Pochi giorni fa ho letto che alcuni taglieggiatori, per convincere una loro vittima a pagare il pizzo, lo hanno fatto assistere alla messa in scena di un finto omicidio. Non so, potrebbe trattarsi di questo anche nel caso delle morti in diretta televisiva sui telefonini dei supremi capi che gridano wow! Fiction, diabolica fiction. Prendiamo l’incredibile morte di Bin Laden: ma davvero siamo disposti a credere che stava lì indisturbato, a poche centinaia di metri da una base militare, coi suoi parenti che saranno pure andati a fare la spesa, a scuola, dal medico? Davvero siamo disposti a credere che gli strateghi militari non considerino che morti così violente possano scatenare qualcosa di più dell’indignazione di interi popoli? Invece, nonostante tutto, nessuna reazione (che vuol dire nessun atto terroristico) , come se la fiction fosse in qualche modo concordata, una sorta di salvacondotto elaborato da raffinate menti. Si sa che di Gheddafi e di Saddam c’erano numerosi sosia: sarebbe interessante conoscere dall’autopsia lo stato di salute dell’uomo assassinato l’altro giorno… ma non lo sapremo mai… E poi, dai, non si sa mai nulla dei parenti, dei patrimoni, dei seguaci… Possibile che ucciso il capo finisca tutto? O non è più verosimile che ucciso il capo ne prende il posto il vice e così via? Per me potrebbe anche trattarsi di NUOVE NARRAZIONI… Fondate sul dato che chi interpreta i fatti non è disposto ad assegnare loro una plusvalenza di cosiddetta realtà, che infatti li riconduce sempre all’unica realtà ” utile ” ai dominatori. Potrebbe essere così anche per la letteratura… Scrivi quello che vuoi purché all’interno del perimetro nel quale io domino… Ipotizzo…

  7. Vero quanto osserva Donnarumma: osceno è parola ricorrente, in LPLC, e direi con accezioni molto diverse. L’uso che ne ho fatto qui, http://www.leparoleelecose.it/?p=1463, è in riferimento al non volere vedere di una società che di fronte al dolore e alla morte come scelta individuale preferisce il vuoto giuridico o, peggio, la condanna in nome dell’adeguamento a un codice etico di presunta ispirazione religiosa.
    All’opposto si colloca il vedere televisivo, o di internet, o delle riprese con il telefonino, in cui qualsiasi fatto pubblico o privato diventa spettacolo con o senza copione (ma un’idea, anche larvale, di sceneggiatura c’è sempre, secondo me): il parto di non so quale personaggio del Grande Fratello in onda più o meno in contemporanea con lo strazio sul corpo di Gheddafi. Nascita in diretta e morte in diretta.
    Concordo con Francesca Diano che l’accanimento sul corpo del capo e altre forme di violenza messe in scena siano sempre esistite e abbiano una loro spiegazione antropologica, anche fuori dalla videocrazia.
    Ciò peraltro non elude la questione di ciò che ha senso rappresentare, filmare, riprodurre in immagine e in che modo, e questo mi pare il quesito da cui parte e a cui torna l’articolo di Zinato.
    Il problema del rappresentabile, e di come rappresentarlo, accompagna il dibattito sulle arti figurative da Platone fino alla avanguardie novecentesche che, con un atto violentissimo, hanno fatto piazza pulita della responsabilità dell’artista e dello sguardo in generale. Togliendo alle opere d’arte funzione, legami con la storia e contesto si è aperta la strada alla più totale deresponsabilizzazione dell’universo visivo, nel frattempo cresciuto in maniera ipertrofica nella vita quotidiana di chiunque grazie alla tecnologia in video.
    Che vedere non sia un atto innocuo e implichi, e richieda, forme svariate di educazione e di allenamento critico lo sa chi studia le immagini quanto, intuitivamente, il vicino che osserva per ore i movimenti del condominio che ha davanti a casa. Ma nel flusso ininterrotto di immagini che ci riprendono di continuo e ovunque, telecamere videocamere satelliti etc.., è difficile stabilire una grammatica etica e formale. Assumersi la responsabilità, sì, questo dovrebbe essere una pre-requisito di qualsiasi sguardo.

  8. vi ho letto con attenzione ,e mi sono impegnata per comprendervi; concordo con il pensiero “che ognuno deve prendersi le sue responsabilità”.
    Aggiungo che oltre alle immagini crude …quello che è accaduto dimostra che il popolo è tiranno e violento tanto e come chi per anni a sparso il seme della violenza a pieni mani. (posso capire l’odio che può intanarsi nei cuori ,caratterialmente mi appartiene ,ma appunto deve vedersela con la propria responsabilità!) Avrei, e sarei stata felice, per il popolo, CHE AVESSERO DIMOSTRATO AL MONDO, il loro inizio democratico ,portando il loro aguzzino davanti un tribunale!
    Continuo con l’aggiungere che tutto ciò credo abbia poco a che vedere con la volontà del popolo…ma credo molti i fattori influenti ,non ultimo anche quello che riguarda il mio /nostro Paese… ribadisco che è un mio pensiero e di fatto ,non ho molta conoscenza dell’insieme … e auguro al popolo una sana e autentica democrazia ! grazie .

  9. La malattia dello sguardo è anche nel ridurre tutto a spettacolo. Le immagini arrivano a noi come immagini, ma dietro c’è un evento reale; per quanto a distanza, per quanto nascosta dietro il velo di un segno, la realtà di quella *esecuzione* non scompare. Possiamo farci tutti i discorsi che vogliamo, ma resta una barbarie che è quella di chi ha commesso il fatto con la complicità dei “volenterosi” (ricordo che il convoglio che trasportava Gheddafi è stato bombardato dalla Nato, e solo dopo sono interveniti i “ribelli”). Questo rimandano le immagini. A chi giova continuare a giocare con le interpretazioni “estetiche”? Davvero, non serve ricorrere al mito, all’antropologia o non so a cosa; quelle immagini sono *politiche* e quindi l’unica lettura sensata è quella politica. L’esposizione spettacolare arriva dopo, è un effetto di una serie di tensioni geo-politiche che l’hanno determinata e che la precedono. Lo ripeto: siamo noi che vediamo quell’evento come spettacolo; è il nostro sguardo che lo trasforma in reality; ma l’evento resta, nella sua crudezza, un’altra cosa dallo spettacolo. Bisognerebbe misurarsi con la sua realtà. Altrimenti resta la malattia di uno sguardo che si confronta solo con lo spettacolo e non con gli eventi.

    NeGa

  10. @ Alessandra Sarchi.
    Ha ragione, il distinguo sta nell’assunzione di responsabilità. Il problema delle immagini ( e del vedere) sta nel “guardare”. Che è appunto diverso dal semplice vedere. In questo caso, l’assunzione di responsabilità è di chi riprende col cellulare, di chi diffonde al mondo le immagini, di chi vi si sofferma con lo sguardo – magari con orrore – ma vi si sofferma. Ci si dovrebbe chiedere, in tutti e tre i casi: perché?
    Dove sta la differenza con le riprese accurate dei soldati entrati nei campi di concentramento dopo la fuga dei tedeschi? Con la decisione degli alleati di accompagnare i tedeschi delle cittadine vicine a vedere cosa si celava dietro quei fili spinati, accanto ai quali avevano vissuto per anni?
    La differenza sta nell’etica del guardare. Riprendere, diffondere le immagini dei prigionieri dei lager e dei cumuli di cadaveri e di oggetti accuratamente classificati aveva lo scopo di dimostrare al mondo quale abominio era stato perpetrato e come fosse stata giusta la guerra, costata decine di milioni di morti, contro la Germania.
    Riprendere, diffondere le immagini di Gheddafi, o dei cattivoni che come lui hanno fatto una brutta fine, ma che erano osannati fino a poco prima, è diventare esattamente come quello che è stato appena massacrato. E’ un atto, pur simbolico, ma tutto sommato, gratuito. Ma, se i cellulari, meglio se costosissimi e sempre più sofisticati, sono uno status symbol anche tra i ribelli – li abbiamo visti tutti quando sostavano nelle retrovie del fronte attaccati ai loro cellulari e imbraccianti armi sulle auto – perché non segnalare la propria presenza, dire: io c’ero! – in questo modo?
    A parte l’aspetto antropologico di cui prima parlavo, c’è anche questa banalizzazione dell’orrore, che in fondo non è che uno dei tanti spettacoli a cui assistere. Sono tanti i tipi di droghe che ottundono la coscienza. Dunque la responsabilità. Senza la quale non si dà etica.
    Non so, è una questione davvero complessa e per nulla di poca importanza. A me, se devo essere sincera, tutto questo fa venire i brividi.

  11. Ho guardato con orrore.
    Ho ascoltato le grida che avevano il pensiero della morte dentro.
    Ho visto il piacere della violenza.
    Gheddafi non era più Gheddafi: ero io .

  12. Sollecitato dai già numerosi e interessanti commenti, fornisco qui un primo ventaglio di idee che essi mi suscitano. Ma non certo per liquidare gli interrogativi aperti.
    L’oscenità ben descrive la nostra reazione percettiva, di disagio, di malessere: come davanti al maiale straziato in “Iona che visse nella balena” di Faenza.
    E se il messaggio nascosto fosse un avvertimento, una richiesta occulta di allinearsi tutti alla democrazia esportata dell’occidente? Potrebbe essere anche così. Tuttavia l’intervento in Libia e il linciaggio di Gheddafi non debbono oscurare la primavera nel Maghreb e nel Machrek del 2011: quei mesi ci hanno detto che il vento può cambiare, che lo stereotipo di estremisti e fanatici religiosi non si adegua ai popoli arabi, che il peso di internet e di facebook per i nuovi movimenti è grande. Erano gli stessi mesi in cui da noi ci son stati i movimenti “se non ora quando”, le manifestazioni dei ricercatori, degli studenti e delle donne, i risultati elettorali di Milano e Napoli e quelli dei Referendum. Quei movimenti non hanno trovato tutte le nuove parole per criticare e giudicare l’intervento armato contro Gheddafi perché si trattava di un dittatore ben solidale ai più cinici potentati economici dell’occidente e dunque lo sconcerto ha prevalso sula chiarezza. Docce fredde e veleni del “dente della storia”, sempre più perfido e contraddittorio e violento di ogni buona intenzione. Molti si attendono – probabilmente con maligna gioia – che la medesima cosa accada coi “violenti” in relazione agli “indignati”.
    Mentre uomini-bomba esplodono e altri uomini sono disposti di certo a uccidere per mantenere intatti i propri privilegi, forse mi faccio illusioni sulle potenzialità disvelanti e critiche della letteratura e della cultura. Quando tuonano le armi, i versi o i discorsi inermi possono sembrare evasione e estetismo. Tuttavia in essi si nasconde, proprio perché cacciato da tutti gli altri luoghi, proprio perhé costretto a stare dalla parte del torto, il “sogno di una cosa”.
    A esempio, la responsabilità di leggere e decodificare le immagini è ancora un compito grande ( Pasolini che legge Canzonissima o lo slogan dei Jeans Jesus, Barthes che interpreta il salone automobilistico, restano dei modelli). A questo riguardo, rinvio all’intervista a Didi-Huberman di Isabella Matttazzi sul n. 62 di “Allegoria”: per Benjamin tutte le immagini che ci impongono un commento, un discorso immediato, sono immagini abusate, stereotipi visivi che attirano stereotipi del linguaggio. Un’immagine per essere significativa, deve creare un improvviso silenzio intorno a se, un vuoto di parola che permetta di costruire, su questo stesso silenzio, una parola “nuova” che comporti una reale rinascita di senso.
    Il mio intervento (che credo, forse con presunzione, ben poco postmodernista) ha anche un riferimento desueto e lontano: quello novecentesco dell’abolizione delle mediazioni (Lukacs e Fortini hanno scritto cose ancora attuali sull’estetica delle avanguardie, estetica del tutto sussunta dal marketing. Sotto la patina di quell’abolizione di mediazioni (al di sotto anche del ‘suicidio’ dell’intelletuale mediatore) vi era l’ideologia del capitale, il gestire in proprio la società intera da parte dei mercati, la fine della sottile pellicola rappresentata dallo stato di diritto. L’immediatezza delle immagini il deserto del del reality è figura di quell’ideologia, di quegli “stendardi della reazione” che per tre decenni hanno sventolato vittoriosi.
    Infine: cosa opporre al vuoto di senso della violenza di branco? Primo Levi nel Lager scrive: “io credo che proprio Lorenzo (l’operaio italiano che gli portò per sei mesi un pezzo di pane, gli donò una maglia e gli fece avere una cartolina dall’italia) debbo di esser vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di esser buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, etraneo all’odio alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tttavia metteva conto di conservarsi” ( Se questo è un uomo). Ecco: credo occorra opporvi questo. E credo che non sia un caso che ci provenga dall’eredità culturale di uno scrittore.

  13. “[…] solo l’invenzione collettiva di nuove grammatiche e di nuove parole potrà forse addomesticare la forza bruta delle cose.”

    Ovvero niente, se non siamo abbastanza foucaultiani, se siamo davvero convinti di essere, dei media, solo vittime e, nei media, non anche carnefici: se non ci rendiamo conto di essere noi stessi, da sempre, parte dell’orrore del Colonnello.
    Ovviamente Kurtz.

  14. Penso, consapevole di rischiare il tuffo nella banalità, all’esperienza di “Nick’s movie – Lightning over water” di Wenders-Ray. In un’epoca ben distante dal reality televisivo, dal voyeurismo organizzato da divano o scrivania, il cineasta tedesco ossessiona la pellicola con l’attesa di una morte e, dopo il suo passaggio, mostra il commiato/trionfo dei vivi sulla barca alla deriva. E’ il montaggio – dice bene Pasolini – a operare sul film come la morte sulla vita. Nel linguaggio di chi rimane – aggiungerei – come il ricordo.
    Montaggio che ha operato pure nel caso di Osama: sulle foto del cadavere affiancate in sequenza a immagini del vivo; e, ancora pochi mesi fa, sul ‘mistero’ delle star morte a ventisette anni (Amy Winehouse, Kurt Kobain, Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix, …); ma si passi anche per la villa di Jackson (le foto della sua autopsia sono state pubblicate qualche giorno fa) o si faccia un tour col telecomando o col mouse tra le case di Avetrana, le stanze di Perugia, ecc.
    Sono perplesso quando, negli anni del Grande Fratello, di youtube e dei reporter della porta accanto, si sollevano dei distinguo tra il video della morte di un dittatore e quello pornoamatoriale di una starlet. A garantirne l’efficacia è l’illusione di aver varcato una soglia senza essere stati visti, la sensazione che il solo sguardo ci possa fare partecipi di un orgasmo, di un grido di vittoria o, perché no, del lamento soffocato di un capo in ginocchio. E superata – forse? in parte?- l’era del delegare la ricerca di immagini al professionista, ciascuno sente il diritto/dovere di fare da sé: il gatto che va a fuoco e l’incidente in tangenziale diventano prove dell “io c’ero” in cui le responsabilità autoriali limitano la propria influenza ai soli commenti, alle sole didascalie del contenuto.
    Quando lo sguardo è alla portata di tutti, l’etica non è più in esso. E’ nella sua decodifica e nei modi della sua lingua. Lo sanno bene i governi e i loro oppositori, non solo in Maghreb o in Cina.

  15. 1.
    “E se il messaggio nascosto fosse un avvertimento, una richiesta occulta di allinearsi tutti alla democrazia esportata dell’occidente? Potrebbe essere anche così. Tuttavia l’intervento in Libia e il linciaggio di Gheddafi non debbono oscurare la primavera nel Maghreb e nel Machrek del 2011: quei mesi ci hanno detto che il vento può cambiare, che lo stereotipo di estremisti e fanatici religiosi non si adegua ai popoli arabi, che il peso di internet e di facebook per i nuovi movimenti è grande” (Zinato)

    E se – questione in LPLC non dibattuta, ma almeno da non scartare a priori – la stessa “primavera araba” fosse stata in buona parte (non dico tutta) assecondata, teleguidata da qualche ibernatore “democratico” collocato a Washington o a Londra o a Parigi in modo da congelarla o azzopparla sul nascere? Vi ricordano qualcosa le bombe di Piazza Fontana che misero fine all'”innocenza” del ’68?

    2.
    “Gheddafi è stato assassinato per evitare di portarlo davanti a un tribunale dove avrebbe potuto rivelare tutto ciò che sapeva sui rapporti tra il suo governo e i paesi che fino a poco prima di averlo pugnalato alle spalle gli erano amici e avrebbe potuto rivelare chi in realtà siano Jibril e Jalil, gli attuali leaders del CNT e fino a poco fa suoi fedeli servitori” (errebì).

    “Che la bestialità (mi scuso con gli animali, che non sono bestie) di chi ha massacrato il corpo del capo prima acclamato e di chi ha ripreso, con i potenti mezzi della moderna tecnologia una scena primordiale sia la lampante autodichiarazione di chi avrà in mano il potere in Libia è chiarissimo. Non dimentichiamo in ogni caso che le elezioni in Tunisia e non solo stanno prospettando l’avvento di governi non certo laici. Ma questo è un altro discorso” (Diano)

    Proprio per una decodifica etica e politica delle immagini (oscene? ma se le mostrano alla TV sono in-scena…) e visto che si tratta di spettacolo (organizzato, dunque, almeno al 70-80%, ad essere prudenti), non fermarsi alle comparse e risalire alla regia. E, dunque, non fermarsi neppure agli attuali leader del CNT, ma risalire alla regia della Nato che organizza le “guerre democratiche”.
    Non so quali giornali leggiate, ma provate a sentire questa voce fuori dal coro:

    Il «Telegraph»: così la Nato
    ha spinto ” il raìs ”
    nelle mani
    dei miliziani islamici di Misurata

    di Manlio Dinucci
    Il Manifesto 22 ottobre 2011

    Le immagini di Gheddafi linciato e ucciso da una folla inferocita di miliziani sono state diffuse su scala mondiale, per dimostrare che quella libica è stata una ribellione popolare conclusasi col rovesciamento dell’odiato dittatore. Versione semplicistica, facente parte delle potenti «armi di distrazione di massa» usate nell’operazione Protettore Unificato. Ben diversa la realtà che sta venendo a galla, come dimostra la documentata ricostruzione degli avvenimenti fatta ieri dal quotidiano britannico The Telegraph.

    Dopo aver svolto un ruolo chiave nella conquista di Tripoli, gli agenti della Cia e del servizio segreto britannico MI6, che operano sul terreno in Libia, si sono concentrati nella caccia a Gheddafi, sfuggito ai massicci bombardamenti Nato.

    Mentre i droni e altri aerei spia, dotati delle più sofisticate apparecchiature, volteggiavano giorno e notte sulla Libia, forze speciali statunitensi e britanniche setacciavano la zona di Sirte, probabile rifugio di Gheddafi. Questi, nelle ultime settimane, è stato costretto a interrompere il silenzio telefonico, usando un cellulare forse di tipo satellitare. La conunicazione è stata intercettata, confermando la sua presenza nella zona.Quando un convoglio di alcune decine di veicoli è uscito dalla città, è stato subito avvistato dagli aerei spia: un Rivet Joint statunitense (che può individuare l’obiettivo a 250 km di distanza), un C160 Gabriel francese e un Tornado Gr4 britannico.

    A questo punto un drone Predator statunitense, decollato dalla Sicilia e telecomandato via satellite da una base presso Las Vegas, ha attaccato il convoglio con numerosi missili Hellfire.

    Anche se non viene specificato, si tratta di uno dei Predator MQ-9 Reaper dislocati a Sigonella, dove si trova il personale addetto al rifornimento e alla manutenzione, e guidati da un pilota e un addetto ai sensori seduti a una consolle negli Stati uniti, a oltre 10mila km di distanza. Il Reaper, in grado di trasportare un carico bellico di una tonnellata e mezza, è armato di 14 missili Hellfire («fuoco dell’inferno») a testata anticarro, esplosiva a frammentazione o termobarica. Subito dopo, il convoglio è stato colpito anche da caccia francesi Mirage-2000 con bombe Paveway da 500 libbre e munizioni di precisione Aasm, anch’esse a guida laser. Questo attacco è stato decisivo per la cattura di Gheddafi.Tali fatti dimostrano che, in realtà, è stata la Nato a catturare Gheddafi, spingendolo nelle mani di miliziani islamici di Misurata, animati da particolare odio nei suoi confronti. E che è stata la Nato a vincere la guerra, non solo sganciando sulla Libia 40-50mila bombe in oltre 10mila missioni di attacco, così da spianare la strada ai «ribelli», ma infiltrando in territorio libico servizi segreti e forze speciali per attuare e dirigere le operazioni belliche.Il piano – deciso a Washington, Londra e Parigi – era quello di eliminare Gheddafi, che in un pubblico processo avrebbe potuto rivelare verità scomode per i governi occidentali.
    Non è quindi escluso che tra la folla di miliziani urlanti, dietro al «ragazzo con la pistola d’oro» cui viene attribuita l’uccisione di Gheddafi, vi fossero ben più esperti killer di professione.
    Manlio Dinucci

  16. Al di là del significato politico e storico dell’esecuzione di Gheddafi e dell’uso che viene fatto dello spettacolo della sua morte violenta, rimane l’orrore di essere seduti in poltrona ad assistere alla morte violenta di un altro uomo, come già era accaduto con le Twins Towers : siamo nell’era dello spettacolo della morte.
    ( Anche la morte di Simoncelli .. ) Questa eucarestia mediatica dell’orrore scandisce il tempo che viviamo.

  17. Non ho visto quelle immagini. Mi chiedo se poi dipendano così tanto dal nostro sguardo, come i video degli adolescenti violenti (che – forse – non sarebbero tali o tanti se non fosse che possono essere così facilmente condivisi). Forse Gheddafi sarebbe stato trucidato e linciato allo stesso modo, video o non video. Certo, la potenza di una ripresa “immediata” (in realtà mediatissima dalla consapevolezza, appunto, dei media) fa subito a scuoterci (e a normalizzarsi, tanto che già sta nelle coscienze con le definizioni apposite: “ecco la fine che fanno i dittatori”). E fa presto anche a denunciare la nostra collusione, foss’anche di semplici astanti, con l’impero di affari e dominio che così come oggi sostiene il tiranno, domani lo sopprime. Ma non fa lo stesso anche la mancanza di immagini, in fondo? Il nulla, o quasi, che viene da Guantanamo è altrettanto urticante, a pensarci bene, e forse più difficile da denunciare poiché senza testimonianza: non possiamo sprigionarne indignazione, e quindi nemmeno compiacerci dell’esposizione del suo abisso.

    Ecco, l’indignazione, per esempio, è un nodo cruciale in questa faccenda. Sia la sua assenza che la sua reiterazione hanno qualcosa di sospetto. Sono le briciole della politica che sono state lasciate a noi cittadini depotenziati: l’indifferenza, il cinismo, la rabbia, ma non l’organizzazione, non la pressione. Dice bene Gambula, bisogna fare i conti con la *realtà*, quel pozzo vuoto imbevuto di morte (delle morti ‘degli altri’, perlopiù). Da una parte ne siamo ossessionati: vogliamo le prove, le prove del DNA, la verità vera sui mandanti, la definitiva attestazione di come sono andate le cose. Dall’altra: la verità non è che un processo a cui non siamo stati convocati; questa realtà pare che dica – nessuna nuova – che la nostra politica è esautorata, che il nostro stare assieme nella polis è vacuo. Di certo “l’invenzione collettiva di nuove parole” è urgente, andrà insieme all’invenzione di nuove collettività, mi auguro, prima che della rivoluzione – che certo ci sarà – si appropri qualcuno di meno umano.

    Grazie a Emanuele Zinato per questo approfondimento importante e a tutti i commentatori per la possibilità di questo scambio.

  18. “…ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa di ancora intero, di non corrotto e non selvaggio, etraneo all’odio alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene” (P. Levi).

    “Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini” (G. Debord)

    Grazie a tutti per la bella discusione.

  19. Mi sembra non ci si sia soffermati su un particolare che, nei vari video che su questo fatto sono stati diffusi in questi giorni, mi sembra possa costituire un dato ermeneutico importante. Le sequenze fanno riferimento a tre distinti momenti del fatto: la cattura del colonnello, si nelle mani dei ribelli, ma ancora vivo e addirittura implorante; l’esibizione del corpo del dittatore fra la folla in delirio; l’esaltazione popolare del (presunto) tirannicida. Nella figura di quest’ultimo spiccano due caratteri che potrebbero essere attribuiti ai due campi del passato e del presente: il simbolo, la pistola con la valenza di uno scettro da una parte, la gioventù ribelle e fiera dall’altra. Il vecchio potere, carico di violenza – arma – e di corruzione, sfruttamento delle risorse, degradazione morale ecc – oro – viene preso in mano dalla nuova generazione, portatrice del cambiamento, della transizione, del glorioso avvenire – democrazia? sharia? altro? ognuno interpreti, a suo gusto, i giochi sono aperti.

    Il montaggio non c’è stato: non ve n’è stato il tempo, non ve n’è stata certo la necessità. Tre sequenze differenti, tuttavia, composte a costruire un edificio di grande valenza simbolica. Dopo il grande bagno di sangue rigeneratore, sacrificato il capro, è aperta la strada ad un futuro radioso, con i suoi necessari addobbi. Lo scalpo. Cosa rimarrà di tutto ciò? Il nuovo prenderà in mano il vecchio, cambiandolo radicalmente: la pistola presto scomparirà, ovvero muterà; non così la sua immagine, trasfigurata: ne faranno magliette? Possiamo ipotizzarne ulteriori risemantizzazioni, ma questo sarebbe forse correre troppo.

    Rivelatrice la mimica del ragazzo: l’arma gli è porta da un miliziano quasi a forza, “ha gli occhi vuoti: sembra che i suoi gesti di trionfo si svolgano senza convinzione, a puro beneficio dell’occhio del cellulare, del voyeurismo della rete”; assieme al peso dell’arma, su di lui pare ad un tratto – solo un istante – gravare l’orrore dei precedenti istanti: una qualche propaganda ne farà forse un eroe; ciò che importa è la verità che nel suo impercettibile spaesamento possiamo rintracciare; l’importante è che questo ci sia: impugniamo forbici, inseriamo cunei dove l’immediatezza ce ne offre l’occasione, e altrove anche; essa è piena di crepe, tutto sta a educarsi a riconoscerle. Ricongiungiamo poi pure: si facciano camicie dalla seta degli stendardi.

  20. “Facciamo camicie della seta degli stendardi della reazione”: mi pare che Filippo Grendene abbia distillato in poche parole il vero senso – larvatamente utopico – del mio testo. Soprattutto là dove, rileggendo ancora con impegno critico le sequenze delle immagini, si sofferma sullo spaesamento dell’adolescente. Se c’è esitazione, c’è principio-speranza, esattamente come avviene in una celebre pagina de “I somemrsi e i salvati” Grazie Filippo, davvero.

  21. Scusate, ma proprio non ho visto lo spaesamento nel viso di quel ragazzo, tutt’altro. Quando parla alla telecamera sorride di gusto; quando sale sul camion il suo corpo mostra felicità; così come le sue dichiarazioni. E poi, anche se ci fosse un lieve spaesamento, chi può ragionevolmente escludere che non si tratti di timidezza? Insomma, non capisco tutta questa speranza riposta in quella cosa impercettibile, anzi del tutto inesistente. L’utopia dovrebbe agganciarsi a qualcosa di concreto, non ai propri sogni. Lo spaesamento, in ogni caso, da solo sarebbe insufficiente; e soprattutto se quel ragazzo resterà imbrigliato in quel contesto. E il contesto vale molto di più di ogni spaesamento.

    Noi siamo solo osservatori, non siamo dentro quel contesto; le forze in campo ci trascendono e siamo impossibilitati a fare gesti che possano mutarlo. A meno che non ci sforziamo di ribaltare la citazione di Primo Levi proposta da Zinato: il mondo giusto non esiste, noi siamo parte di quello malato che ha permesso lo scempio libico. E sulla base di questo ribaltamento, provare a capire il perché si è arrivati a quell’esecuzione; capire, insomma, cosa ha fatto sì che quel ragazzo si trasformasse in belva, quand’anche si rivelasse nient’altro che una belva improvvisata per la telecamera. Capire, dunque, che anche noi siamo parte di quel mondo malato, anzi ne siamo la causa principale. Solo allora potremo provare a inventarne uno nuovo.

    Lorenzo non porta più il pane. Oggi Lorenzo applaude la “democrazia” (!!) imposta dall’intervento militare della Nato. Oggi Lorenzo è complice del male. O, quand’anche fosse stato sinceramente contrario a quella guerra, è impossibilitato a rendere concreta la “possibilità di bene”. La *possibilità del meglio* – così la chiamava, e ben prima di Levi, Adorno – esiste, certo; ma non è separando il “giusto” dallo “sbagliato” che la si può afferrare. Come dice Sonia Caporossi, noi siamo parte dell’orrore: noi siamo la parte sbagliata. Siamo quella parte di mondo che ha permesso “la macelleria libica”. Uscire dall’auto-assolvimento è il primo passo per cercare di inventare quel “mondo giusto” che oggi non esiste.

    Per fare camicie dalla seta degli stendardi bisogna riuscire a prenderli. Come scrisse il poeta Gianfranco Ciabatti, “un esito aspettato non inizia”.

    NeGa

  22. Forse non è necessario aggiungere parole, con la sensazione che saranno consumate già prima di uscire di mano.
    Mi fermo sull’ultima citazione di Emanuele da Primo Levi: la trovo esatta. Non dovrei forse aggiungere altro.
    Senonché era proprio ieri che discutevo con una collega egiziana di varie cose, dall’una passando all’altra: l’incomprensibile riduzione della spesa pubblica per il bene comune (università, scuole, ospedali…), la cancellazione di dipartimenti umanistici, il precariato e così pure di Mubarak che è ancora lì, con la sua rete di potere protettivo, e della morte di Gheddafi.
    Lei è una persona molto attenta alle parole, studia poesia italiana, è premurosa con le parole, estremamente riflessiva e calda, appassionata, non violenta. Non sapeva che pensare della morte di Gheddafi: non sapeva chi fosse stato esattamente a ucciderlo, non era certa di come fossero andati i fatti. Poi di colpo aggiunge, quasi con entusiasmo per me doppiamente sconcertante: “sono contenta, hanno fatto la cosa più giusta, vanno uccisi”.
    Se qualcosa sembrava giusto nelle rivoluzioni arabe, sino a quella attuale siriana, era la resistenza alla tentazione della violenza, per la fiducia nel prevalere dei corpi che testimoniano con il loro solo stare in strada un’altra forza. Eppure, aggiungeva l’amica egiziana, ci hanno truffato: loro sono ancora lì, con tutte le morti che hanno causato e i soldi che hanno rubato e che nessun tribunale ci ridarà mai, perché i soldi sono liquidi e non li puoi inseguire. Loro rimarranno lì. “E’ meglio tornare alla ghigliottina della Rivoluzione Francese, in mezzo alla piazza. E’ l’unico modo per fermarli”.
    Non ho parole. Forse però dovrei capire quanto un atteggiamento conforme al pensiero di Primo Levi debba confrontarsi con il problema della giustizia che c’è nella violenza. A quanta violenza i propri occhi e la propria carne devono essere pronti, quanto devono conoscerla per poterla realmente rifiutare come pratica?
    Unica perplessità rispetto alla discussione che ha stimolato il post di Emanuele: non è che uno degli effetti dei vari footage degli ultimi momenti di Gheddafi che circolano in rete sia rilegittimare l’associazione tra libici e barbari, tra “quelli di là” e la violenza priva di forma? E’ un antico topos. E molti potrebbero convincerci della necessità di fermare i barbari, prima che arrivino, di governarli come si governano i non civilizzati.
    “I think: “I wanted to live outside history. I wanted to live outside the history that Empire imposes on its subjects, even its lost subjects. I never wished it for the barbarians that they should have the history of the Empire laid upon them. […] There has been something staring me in the face, and still I do not see it”, J.M Coetzee, “Waiting for the Barbarians”.

    Andrea Celli

  23. Scusate il ruolo di “contrabbandiere” tra letteratura e politica che tento di svolgere.
    Mi permetto ancora due gocce di “collirio politico” contro una certa miopia dello “sguardo malato”:

    1. Danilo Zolo LO STILE CARITATEVOLE DELLA NATO
    (dal sito de “il manifesto”:http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2pg/03/manip2pz/312008/manip2r1/danilo%20zolo/)

    Giovedì ho passato molte ore alla televisione per cogliere momento per momento gli sviluppi dell’assassinio di Gheddafi. Volevo registrare nella mia memoria non solo l’atroce devastazione del corpo di Gheddafi, ma anche i commenti dei responsabili dell’assassinio, a cominciare da Barack Obama e per finire con il raffinato e virile ministro degli esteri italiano, Franco Frattini. Per non parlare dell’innominabile presidente del Consiglio italiano che per congratularsi con gli assassini ha usato con ignobile viltà la massima: sic transit gloria mundi. Ero certo che Gheddafi sarebbe stato ucciso e non invece fatto prigioniero, processato e imprigionato come sicuramente meritava per le gravi colpe di cui si era coperto. Ma secondo il diritto internazionale a farlo prigioniero, a processarlo e a metterlo in prigione doveva essere il popolo libico con l’assenso delle nuove autorità della Libia, eventualmente sostenute dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non dovevano dissanguarlo e ucciderlo – secondo lo stile caritatevole della Nato – i padroni del mondo, pronti a fare proprie le immense ricchezze della Libia infischiandosi di un diritto umano universale: il diritto alla vita. Complice sino al collo in questa aggressione militare è stata l’Italia: non c’è autorità politica italiana che non abbia violato la Costituzione italiana, a cominciare dal presidente Giorgio Napolitano e per finire con i rappresentanti della cosiddetta «sinistra» italiana. In parlamento il Partito Democratico, guidato da Pier Luigi Bersani, si è sempre schierato assieme alla destra bellicista che per oltre vent’anni si è vilmente dichiarata d’accordo con gli Stati Uniti e i loro alleati, compreso lo Stato di Israele, nella strage senza fine di popolazioni innocenti, dall’Iraq all’Afghanistan, alla Palestina, al Libano e infine alla Libia. Sarebbe ingenuo pensare che di tutte queste infamie il mondo occidentale, l’Italia compresa, non debba pagare in un prossimo futuro terribili conseguenze. L’11 settembre è dietro l’angolo.

    2. L’arte della guerra

    Un’altra vittoria del War Party
    Manlio Dinucci

    Il War Party (WP), il partito transnazionale della guerra, ha iscritto nel suo albo d’oro un altro successo: la guerra di Libia. Decisa dalla Cupola del potere – il massimo organo dirigente la cui composizione è segreta, ma di cui, si sa, fanno parte i delegati dei più influenti gruppi multinazionali e finanziari e dell’apparato militare-industriale – è stata magistralmente condotta dalla Segreteria transnazionale, fomentando e armando la dissidenza interna (attraverso agenti segreti e commandos infiltrati) così da farla apparire una «rivoluzione». Il segretario generale del WP, Barack Obama, sottolineando che «la morte di Gheddafi dimostra la giustezza del nostro ruolo nel proteggere il popolo libico», annuncia che in tal modo «abbiamo rinnovato la leadership americana nel mondo». Washington ha messo «una maschera europea sul comando dell’operazione», spiegano funzionari dell’amministrazione, ma sono stati gli Usa «la spina dorsale dell’operazione Nato», fornendo agli alleati intelligence, rifornimento dei caccia in volo e bombe a guida di precisione. In questa guerra – sottolinea il vice di Obama, Joseph Biden – «non abbiamo perso una sola vita»: quindi, più di quelle del passato, essa indica «come comportarci col mondo mentre andiamo avanti». L’operazione in Libia, spiegano i funzionari, prova che «i leader di alcune potenze di media grandezza possono essere rovesciati a distanza», senza invio di truppe sul terreno, usando armi aeree e navali e facendo assumere agli alleati, in questo caso europei e arabi, il «peso maggiore» dell’operazione. Indubbio è il merito dei membri della Segreteria del WP, soprattutto il francese Sarkozy. Dopo la «normalizzazione» con la Libia, egli fu il primo ad accogliere Gheddafi con tutti gli onori a Parigi nel dicembre 2007 (un anno e mezzo prima che Berlusconi lo ricevesse a Roma), stipulando un accordo da 10 miliardi di euro per fornire alla Libia centrali nucleari e impegnando la Libia a negoziati esclusivi con la Francia per l’acquisto di armamenti, tra cui caccia Rafale. Poco più di tre anni dopo, sono stati invece i Rafale francesi ad attaccare la Libia, quando la Cupola del potere ha deciso che il modo migliore per sfruttare le risorse libiche non erano gli accordi ma la guerra. Lo scorso marzo, un figlio di Gheddafi dichiarò che la Libia aveva contribuito a finanziare la campagna elettorale di Sarkozy e di averne le prove. Si capisce quindi perché il presidente francese abbia definito l’uccisione di Gheddafi una «tappa importante». Meritorio anche il ruolo della sezione italiana del WP: dopo aver stracciato il trattato di non-aggressione, il governo Berlusconi ha partecipato alla guerra con basi, navi e aerei, che hanno effettuato oltre 1.100 raid. E nello stesso giorno in cui Gheddafi veniva ucciso, la marina militare annunciava di aver ripristinato le strutture Eni per lo sfruttamento del gas libico e Finmeccanica riapriva, in Libia, lo stabilimento elicotteristico AgustaWestland. Mentre l’attivista di «sinistra» del WP Bersani spiega che «la missione in Libia rientra nella nostra Costituzione, perché l’art. 11 ripudia la guerra ma non l’uso della forza per ragioni di giustizia». E il presidente Napolitano assicura che «non siamo entrati in guerra».

    (il manifesto, 25 ottobre 2011)

  24. Ragioni? Significati? Cause ? Real politik ? Sangue nella sabbia dov’è il gas che riscalderà le nostre case: i proiettili realmente sfondano la parete cranica , le bombe realmente riducono in polvere Tripoli , i pick up sgommano via con il corpo di Gheddafi : la violenza della materia esplosa trapassa nell’immagine che mi racconta solo se stessa ?

  25. Ammesso e non concesso che la questione si possa limitare ad una disquisizione puramente estetica,cerchiamo il montaggio piu’ appropriato.
    A fianco delle morti in diretta,poniamo pure le sordide ”celebrazioni dei morti”,soprattutto se famosi.
    Alcune settimane or sono abbiamo appunto ”celebrato” la scomparsa di Steve Jobs,controversa figura dell’industria informatica,alfiere indiscusso del neo-liberismo.
    Magari quel sedicente guerrigliero dal vacuo sguardo ha filmato con un suo prodotto quel tragicomico momento.
    Chissa’ se si rendo conto di camminare su una terra che letteralmente galleggia su un sonnacchioso mare di petrolio,pronto allo stupro internazionale,in questo momento di fabbisogno a costo zero.
    Qui l’impercettibile e apparentemente lontano legame tra le due cose,I-phone ed oro nero,si palesa nella sua accezione piu’ abietta ma allo stesso tempo piu’ logica:neo-liberismo.
    Da tempo oramai l’uragano consumista ci ha investito su tutti i fronti,specie quello intimo e personale. Non siamo piu’ possessori di oggetti,piu’ o meno utili;siamo noi le loro PROTESI.
    Il montaggio e’ gia’ stato messo a punto,il perverso fluire di idee e di profitto e gia’ stato adoperato per la nuova coscienza collettiva di stampo Borg. Il film e’ gia cominciato, e le ombre sullo schermo di noi che tentiamo di fermarlo,disturbano e infastidiscono un pubblico piu’ che mai compiaciuto.
    Cari amici i buoi sono gia’ scappati;scansatevi finche’ potete e se potete,le scornate fanno molto male. Tenetevi a distanza di sicurezza,magari filmateli..con un telefonino di ultima generazione ovviamente…..
    Buona vita e buona fortuna!

  26. La Sharia sarà la fonte primaria della nuova Costituzione e la nuova Libia rinascerà sul Corano (dichiarazione del seguace di re Idris e nuovo campione per volere Nato della democrazia libica, Mustafa Abdel Jalil).
    Nelle recenti elezioni tunisine ha (stra)vinto un partito islamico (che per indorare la pillola i media nostrani dicono moderato).
    E la Sharia ha trovato posto anche nella nuova Costituzione egiziana.
    Anche di questo ci dovrebbe parlare il “sangue di Gheddafi”. Perché quel sangue andrebbe visto attraverso una lente di ingrandimento prettamente e “banalmente” politica, non già attraverso un cannocchiale rovesciato che di astrazione (antropologica) in astrazione (semiologica) ci porta dritti dritti sulla Luna.
    Se questa è la primavera araba, personalmente preferisco l’inverno (anche dieci di fila)

  27. Caro Emanuele,

    grazie per la citazione fin troppo generosa..
    Mi permetto di incollarti sotto – a proposito- un piccolo pezzo uscito ieri su l’Unità..
    “In fondo, sono i rischi del mestiere.” Nel momento del trapasso al sonno, il pensiero compie un salto sorprendente da Marco Simoncelli a Muhammar Gheddafi.
    Se corri il Gran Premio, metti in conto la caduta anche mortale che non può non avvenire come l’altro ieri: il corpo che rimane sull’asfalto, rovesciando lo sport-spettacolo in una tragedia che sgorga dal nostro diventarne spettatori involontari. Quindi fa male e fa scandalo, mentre i ragazzi che si schiantano nel traffico, sconvolgono solo chi si trova nel raggio della colluttazione, oltre a chi fa parte della loro cerchia d’affetti.
    La brutta fine è il rischio del mestiere di tiranno, al quale Gheddafi avrebbe fatto in tempo a sottrarsi. Esecuzione sommaria, vilipendio di cadavere, esposizione pubblica: la novità è solo la videocamera, gli scatti fotografici per cui la lingua inglese utilizza lo stesso verbo che per le armi. Novità relativa: basta la ghigliottina per ricordare che l’esibizione della violenza fa parte del linguaggio politico vuoi dispotico vuoi rivoluzionario, e nel secondo caso non è detto che la propaganda sanguinaria ne riveli un’involuzione alla lunga irrimediabile.
    Fosse circolato solo su Youtube e analoghi, quel volto massacrato. Ma qui in Italia l’hanno sbattuto su tutti i media mainstream, abbandonandoci a un messaggio di cui non sapevamo fare altro che schifarlo. L’osceno, allora, non nasce solo dalla barbarie libica, ma pure dalla crisi del giornalismo. Le lacrime di Vale, la bimba di Carla, il corpo di Gheddafi: clicca su “i più popolari” o “mi piace”. Anything goes per qualche accesso in più – e non si può sperare di raggiungerlo con le libere elezioni in Tunisia, dove è andato a votare il 90% di uomini e donne, anche se i vincitori non ci piacciono. Ma a questo dovremmo essere abituati.

  28. @ helena janeczeck

    Come l’agonizzante diventa un sasso lo sapete.
    Come si butta via
    die Leiche il cadavere spezzato l’avete visto.

    (F. Fortini, Perché alla fine…, in «Paesaggio con serpente»)

    Lo sguardo è là ma non vede una storia
    di sé o di altri.

    (F. Fortini, Molto chiare…, in «Paesaggio con serpente»)

    Lei, scrivendo su «L’Unità», organo del PD plaudente in nome della Costituzione italiana alla guerra in Libia, dal «cannocchiale rovesciato che di astrazione (antropologica) in astrazione (semiologica) ci porta dritti dritti sulla Luna» (errebi) cosa vede?
    «Le lacrime di Vale, la bimba di Carla, il corpo di Gheddafi».
    E, dopo, compiendo «un salto sorprendente da Marco Simoncelli a Muhammar Gheddafi» (Ah, lo zapping surrealista!) cosa pensa?
    «In fondo, sono i rischi del mestiere».
    « Se corri il Gran Premio, metti in conto la caduta anche mortale che non può non avvenire come l’altro ieri».
    «La brutta fine è il rischio del mestiere di tiranno, al quale Gheddafi avrebbe fatto in tempo a sottrarsi».
    «L’osceno, allora, non nasce solo dalla barbarie libica, ma pure dalla crisi del giornalismo».
    «Anything goes».

    E così, come altri ed altre, vede l’osceno della «barbarie libica» o della «crisi del giornalismo» ma non quella del PD e dell’Italia. Né vuole ragionare sul fatto semplice (storico e politico), per cui alcuni capi di Stato occidentali – tiranni democratici – hanno programmato e attuato l’uccisione di un altro capo di Stato – tiranno non democratico ma fino a ieri accolto a corte – rovinando a suon di bombe lui e un intero paese. Alla faccia delle risoluzioni ONU.
    Ahimé, quanto disquisire sulla «novità» assoluta o relativa della videocamera o degli scatti fotografici!
    Ahimè, lo zapping!
    Ahimé, la nebbiolina ideologica democratica!

  29. Ennio non sono più passata di qui e quindi non ho visto il suo commento. Sono d’accordo con lei che il la devastazione della guerra in Libia sia cosa più importante del uso mediatico delle foto di Gheddafi morto.
    Nonstante questo, io qui ho voluto parlare di questo – messaggi dei nostri media e reazioni collettive a essi. Lei può rifiutare a priori un approccio del genere, ma ho l’impressione che mi attribuisce qualcosa che non ho scritto – la dicotomia per la quale il tiranno è cattivo, e gli insorti buoni, per quanto barbarici (in quanto “democratici”).

  30. Gentile Helena,
    forse siamo d’accordo nel deplorare e allarmarci per la devastazione della guerra in Libia, non so quanto nel giudicare oscena la politica del PD (e de L’Unità), che quella guerra, travestita da “intervento umanitario”, hanno approvato.
    Purtroppo anche su questo blog vige una sorta di non dichiarata consegna, che io riassumerei in quel monito di tempi tristissimi, “qui non si fa politica”, aggiornato magari in un” qui si fa politica ma soltanto mettendo i guanti dell’Alta Cultura (veda il post “populismo” di Mario Tronti).
    Ne deriva, secondo me, una sorta di schizofrenia. Per cui parlare dell'”uso mediatico delle foto di Gheddafi morto” è concesso a lei e ad altri (o ve lo concedete). Pubblicare invece il mio Tarlo della Libia, già rifiutato dal blog fratellastro o cuginastro Nazione Indiana (e per fortuna ora accolto dal sito fortiniano L’OSPITE INGRATO (http://www.ospiteingrato.org/Interventi_Interviste/Abate_Libia.html) o mettere in relazione le intelligentissime e sofisticate vostre analisi dei video su Gheddafi con un ragionamento politico sulla guerra in Libia (perché così d’un tratto? a chi è giovata? che ne è venuto all’Italia? è stata davvero rispettata la Costituzione?) non è concesso (o non ve lo concedete).
    Con stima, comunque (necessariamente parziale) e ringraziando per l’attenzione.

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