di Rino Genovese
[Questo intervento è uscito sul sito della rivista «Il Ponte»]
Scriveva Voltaire nel suo Dizionario filosofico: “Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre e il furore alla collera”. E poco più avanti: “Che rispondere a un uomo che vi dice che preferisce obbedire a Dio anziché agli uomini e che quindi è sicuro di meritare il cielo sgozzandovi?” È l’impasse in cui può essere preso lo spirito di tolleranza: che cosa dire al fanatico? come impostare i rapporti con lui?
Voltaire aveva davanti agli occhi gli orrori delle guerre di religione che avevano devastato l’Europa, ma noi, figli del Novecento, abbiamo a nostra volta esperienza di un orrore diffuso nella forma dei totalitarismi. Che cosa erano per lo più gli sgherri hitleriani e staliniani se non dei fanatici, sia pure non nel senso della religione ma in quello dell’ideologia? E alcune delle efferatezze degli “anni di piombo” italiani non possono, allo stesso titolo, essere messe sul conto del fanatismo? Cominciamo col dire, dunque, che il fanatismo è ben noto alla cultura occidentale, non riguarda unicamente le culture “altre”.
E con il fanatismo si è sempre trattatto, si è costretti a trattare se non si vuole diventare a propria volta immediatamente fanatici. Quella della guerra è soltanto l’ultima delle opzioni. Fin quando hanno potuto le democrazie occidentali hanno trattato con Hitler, era una carta che andava giocata, anche se non funzionò. Con Stalin – che aveva comunque una visione meno aggressiva nei confronti dell’esterno rispetto a quella di un Hitler – l’Occidente è stato alleato e, successivamente, sia pure tra molti sussulti, ha impostato una politica che è sfociata nella coesistenza pacifica. Insomma non è vero che con il “male radicale” (per usare un’espressione di Kant) non si tratta; il punto è piuttosto come trattare e fin dove spingersi nelle trattative.
Domenico Quirico – giornalista della “Stampa” sequestrato e tenuto prigioniero per lunghi mesi in Siria dalle bande ribelli – è stato liberato dietro il pagamento di un riscatto da parte del governo italiano. La cosa interessante, però, non è questa (si sa che i paesi europei, a differenza degli Stati Uniti, in diverse occasioni hanno offerto dei soldi per liberare i propri ostaggi); è piuttosto ciò che ha scritto Quirico una volta rientrato in Italia. Nel suo racconto di grande deluso della “rivoluzione” siriana, l’ex ostaggio dice di essere stato ceduto da un gruppo a un altro e poi a un altro ancora, e di essere stato trattato in modo disumano – con una sola eccezione, quella del gruppo di Al-Nusra, emanazione in Siria della famigerata Al-Qaida, l’organizzazione già diretta da Bin Laden e oggi dal suo vice Al-Zawairi. Ma come? viene da domandarsi: il gruppo più “fanatico” tra quelli di cui è stato prigioniero il nostro giornalista, è quello che con lui si è comportato meglio?
Il paradosso non è tale se scaviamo un po’ più a fondo (come Voltaire ai suoi tempi non avrebbe potuto fare) con gli strumenti della psicologia sociale. Ciò che a ragione – da un punto di vista illuministico – chiamiamo fanatismo, da un altro punto di vista andrebbe detto risentimento estremo. Che cosa sono i combattenti del jihadismo internazionale, specialmente quei giovani provenienti dall’Europa, quasi sempre figli dell’immigrazione, se non dei risentiti estremi? Spesso è dalle condizioni delle periferie metropolitane che nasce quel rancore che, modulato in un’effervescenza politico-religiosa, si fa jihadismo. E se andassimo a osservare quelli che, con le migliori intenzioni, si sono messi in movimento, or sono tre anni, contro Assad, non sarebbe difficile trovare un analogo risentimento contro l’Occidente che non avrebbe fatto abbastanza per sostenerli, o contro la Russia di Putin stretta alleata del regime siriano.
Ma si dirà: sono criminali! Il giudizio non fa una piega, e tuttavia sarebbe semplicistico se evitasse di porsi il problema di come ci si trasforma in criminali, o di come – di banda in banda – ci si passi un ostaggio. Il denaro di un riscatto può essere usato in vari modi: per andarsene in vacanza ai tropici, per cercare un sostentamento in una zona devastata dalla guerra, o per finanziare il gruppo dei ribelli. Ad ogni modo, il fanatismo politico-religioso può funzionare finanche da deterrente nei confronti di una disumanità indotta psicologicamente dal risentimento. La storia resta un affare maledettamente complicato.
E l’Occidente – nonostante gli armamenti ultrasofisticati, nonostante i suoi droni – è oggi disarmato nei confronti del caos di questa storia che stiamo vivendo. Perché il fanatismo si batte con la pazienza della tolleranza, certamente, talvolta perfino con la guerra cui si è costretti – ma poi ci si accorge che manca qualcosa, come avrebbe detto Ernst Bloch. Questo qualcosa è lo spirito dell’utopia. Da troppo tempo la cultura occidentale non riesce più a influenzare le altre culture perché sembra avere smarrito quel tarlo che la rodeva dall’interno e al tempo stesso la vivificava. Il tarlo di un mondo più giusto, di una democrazia non solamente politica ma sociale: quello spirito, insomma, capace di competere da pari a pari con le religioni, di tentare una risposta alle loro derive, superando il risentimento in direzione di un progetto costruttivo.
[Immagine: Esecuzione di James Foley].
Caro Genovese,
sì, la storia è una faccenda maledettamente complicata, che difficilmente si adatta al letto di Procuste su cui le ideologie, di volta in volta, vogliono farla distendere, anche se poi, a mio parere, alcune funzionano un po’ meglio di altre in questo lavoro ermeneutico. Ciò detto, io penso che quel “qualcosa” di cui lei parla – lo spirito dell’utopia, lei dice – è proprio ciò che l’occidente si è impegnato con ogni sua forza ad estirpare, anche in quei paesi dove adesso, come succedaneo, alligna il fanatismo. Parlo, senza far tanti giri di parole, del socialismo, del “Sol dell’avvenire”. Non è un problema solo del mondo islamico: anche in Europa mi pare che ci siano dei rigurgiti preoccupanti di altri fanatismi del tipo Blut und Boden. E’ questo fu fatto, lei sa, in nome dell’unica ideologia anti-utopica vincente: quella del mercato e del profitto a tutti i costi. Oggi c’è un rifiuto generalizzato di ciò, specie in quelle zone del pianeta in cui, proprio per combattere quel “qualcosa” di cui ho parlato, si promise la carota del benessere capitalista, salvo poi usare esclusivamente il bastone dello sfruttamento.
Sono pessimista: dubito fortemente che una qualsivoglia utopia altra, che possa arrivare – se mai ne arriverà ancora una – dall’Occidente, possa far presa su chi per decenni ha preso così tante legnate sulla testa.
Su Stalin: perché parificarlo così ai jihadisti? Gli occidentali, con la sciagurata, rivoltante e miope politica dell’appeasement, speravano ardentemente che le voglie del fanatico Hitler si rivolgessero contro l’URSS: altro che trattare. Le democrazie occidentali all’aroma di dollari hanno sempre cercato di piegare i vari fanatici in giro per il mondo ai loro scopi: con questi hanno di preferenza trattato.
E’ sicuramente un luogo comune, ma si raccoglie sempre ciò che si semina.
“Ciò che a ragione – da un punto di vista illuministico – chiamiamo fanatismo, da un altro punto di vista andrebbe detto risentimento estremo.” (Genovese)
Domande: il risentimento da dove spunta? è solo prodotto di un’immaginazione malata? non è di solito una reazione alla prepotenza di qualcuno? e gli illuministi non provano mai risentimento?
Fui un facile profeta quando, durante la sporca guerra contro la Libia, predissi, riferendo una battuta che circolava con insistenza nel quartiere generale dell’Alleanza atlantica, che “prima o poi toccherà ai Paesi imperialisti occidentali bombardare i ribelli libici, dopo averlo fatto con Gheddafi”.
Quanto accadde a Bengasi per opera dei fondamentalisti islamici – l’uccisione dell’ambasciatore e di alcuni funzionari dell’ambasciata degli Usa – confermò pienamente che non si gioca impunemente col fuoco. Eppure gli eccidi, le violenze, gli arresti indiscriminati e le esecuzioni sommarie dei soldati di Gheddafi e di quei settori della stessa popolazione sospettati di essere ancora fedeli al ‘raìs’, cui si erano abbandonate le bande dei tagliagole islamo-fascisti nelle città conquistate, e in primo luogo a Tripoli, avevano mostrato di che pasta fossero fatti gli elementi appoggiati e finanziati dagli Usa e dagli altri paesi aggressori. In sostanza, vale la pena di osservare che la ripresa del fondamentalismo islamico, con gli annessi e connessi di ordine filosofico, psicologico e sociologico richiamati da Genovese, è oggi un sottoprodotto dell’azione imperialistica svolta dall’Occidente, rispetto al quale può svolgere, e svolge effettivamente, la micidiale funzione del boomerang.
Così, sono ormai palesi le conseguenze della scelta nefasta che, a partire dal periodo dell’appoggio prestato in funzione antisovietica ai talebani nel conflitto afghano (1979-1989), gli Usa, seguiti dagli altri paesi imperialisti, compirono, non immaginando di dover pagare un prezzo così salato: la scelta di allearsi con il fondamentalismo islamico contro il nazionalismo panarabo rappresentato, di volta in volta, dall’Iraq di Saddam Hussein, dalla Jamahiriya libica e dalla Siria baathista.
Mi permetto di segnalare a Rino Genovese che io considero Stalin un gigante del “secolo breve”. Sono dunque uno “sgherro staliniano” da mettere nello stesso mazzo degli “sgherri hitleriani”? Sono dunque un “fanatico, sia pure non nel senso della religione ma in quello dell’ideologia”? Caro Genovese, la facilità e la superficialità con cui, obliterando fondamentali distinzioni storiche e ideologiche, Lei applica queste etichette dimostrano che anche Lei è una vittima di quel fanatismo (in questo caso occidentalista ed euro-imperialista) contro cui lancia i Suoi strali nell’articolo qui pubblicato. Infine, ammesso e non concesso che il conflitto ucraino sia un regolamento di conti tra sgherri di opposte e fanatiche fazioni, La invito a riflettere sulla categoria di “democrazia fascista”, che a Lei parrà forse un ossimoro, mentre i fatti provano che è una realtà.
Mi scuso per questa successione di interventi, ma vorrei rimediare ad un’omissione in cui sono incorso a causa del dèmone della fretta. L’omissione riguarda Mohammad Najibullah, presidente del governo progressista afghano, appoggiato dall’Unione Sovietica, che, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del secolo scorso, fu rovesciato dalla sanguinosa reazione dei talebani, appoggiati armati e finanziati dagli Stati Uniti d’America. L’esecuzione di Najibullah fu il primo anello della catena di uccisioni di leader nazionalisti e progressisti che, passando attraverso Saddam Hussein, giunge sino a Gheddafi e si spinge, sicuramente nelle intenzioni ma non ancora nei fatti, sino ad Assad. Essa fu un omicidio premeditato, compiuto allo scopo di terrorizzare la popolazione: i talebani – era il mese di settembre del 1996 – arrivarono all’alloggio di Najibullah, situato nel palazzo dell’Onu di Kabul, intorno all’una di notte, tramortirono lui e il fratello, li caricarono su una camionetta portandoli nel palazzo presidenziale oscurato. Qui evirarono Najibullah, lo legarono dietro ad una jeep trascinandolo per varie volte intorno al palazzo, quindi lo finirono con una pallottola. Suo fratello subì la stessa sorte con la differenza che venne strangolato. I due cadaveri vennero infine appesi ad una garitta di cemento a pochi isolati dal palazzo dell’Onu. Il mullah Omar dichiarò che Najibullah era un comunista e un assassino e che era stato condannato a morte dai talebani, ma non disse nulla sul fatto che la mutilazione del corpo era inammissibile in base a qualsiasi legge islamica. Questi, insieme con gli squadristi di “Pravy Sector” e di “Svoboda”, sono stati e sono gli (ex?) alleati dell’Occidente capitalistico ed imperialista.
Non c’è bisogno di essere fanatici per essere risentiti (forse il PKK?), ed essere fanatici non porta per forza ad essere risentiti (boh, gli Amish?). Ciò che chiamiamo fanatismo *è sempre e solo* fanatismo, se è fanatismo. Non c’è un altro punto di vista. Che poi un fanatico possa aver motivo di essere risentito, ci può stare. Ma: né Hitler né le BR né i Pro-life erano e sono giustificati per il loro risentimento, e tantomeno per il loro fanatismo (per quanto comprensibili siano i meccanismi che portano a ciò). Non lo è neanche L’ISIS, progetto fanatico e imperialista. L’utopia poi, è proprio una forma di fanatismo, utopisti erano e sono Hitler, le BR, i Pro-life.
Non si capisce cosa dovrebbe significare l’episodio del giornalista rapito. I fanatici non sono completamente disumani, dunque perché mai da un trattamento umano si dovrebbero trarre particolari implicazioni?
Col fanatismo non si tratta, si tratta semmai con i fanatici, a volte è possibile (sebbene seccante, vedi gli ultras o gli omofobi o certi ecclesiasti) farlo, a volte no.
Lo spirito utopico è comunque vivo e vario, vedi i movimenti di liberazione animale, basati sul concetto di anti-specismo. Per non parlare delle piccole galassie trans-eco-queer (le femministe islamiche) e vattelappesca; e i sempre vivi anti-capitalisti.
Caro Genovese,
sì, la storia è una faccenda maledettamente complicata, che difficilmente si adatta al letto di Procuste su cui le ideologie, di volta in volta, vogliono farla distendere, anche se poi, a mio parere, alcune funzionano un po’ meglio di altre in questo lavoro ermeneutico. Ciò detto, io penso che quel “qualcosa” di cui lei parla – lo spirito dell’utopia, lei dice – è proprio ciò che l’occidente si è impegnato con ogni sua forza ad estirpare, anche in quei paesi dove adesso, come succedaneo, alligna il fanatismo. Parlo, senza far tanti giri di parole, del socialismo, del “Sol dell’avvenire”. Non è un problema solo del mondo islamico: anche in Europa mi pare che ci siano dei rigurgiti preoccupanti di altri fanatismi del tipo Blut und Boden. E’ questo fu fatto, lei sa, in nome dell’unica ideologia anti-utopica vincente: quella del mercato e del profitto a tutti i costi. Oggi c’è un rifiuto generalizzato di ciò, specie in quelle zone del pianeta in cui, proprio per combattere quel “qualcosa” di cui ho parlato, si promise la carota del benessere capitalista, salvo poi usare esclusivamente il bastone dello sfruttamento.
Sono pessimista: dubito fortemente che una qualsivoglia utopia altra, che possa arrivare – se mai ne arriverà ancora una – dall’Occidente, possa far presa su chi per decenni ha preso così tante legnate sulla testa.
Su Stalin: perché parificarlo così ai jihadisti? Gli occidentali, con la sciagurata, rivoltante e miope politica dell’appeasement, speravano ardentemente che già dal 1938 – ma anche prima – le mire espansive e sanguinarie del fanatico Hitler si rivolgessero contro l’URSS: altro che trattare con i bolscevichi. Le democrazie occidentali all’aroma di dollari hanno sempre cercato di piegare i vari fanatici in giro per il mondo ai loro scopi – bastava che professassero un convinto anti-comunismo: con questi invece hanno di preferenza trattato. E la guerra fredda fu un compromesso obtorto collo: a Washington ci fu sempre chi pensava che una guerra nucleare si potesse vincere.
E’ sicuramente un luogo comune, ma si raccoglie sempre ciò che si semina.
“Perché il fanatismo si batte con la pazienza della tolleranza, certamente, talvolta perfino con la guerra cui si è costretti – ma poi ci si accorge che manca qualcosa, come avrebbe detto Ernst Bloch. Questo qualcosa è lo spirito dell’utopia. ”
Domanda: ma storicamente la nostra “civiltà occidentale” è uscita dal “fanatismo” proprio in questo modo, ovvero con la “pazienza della tolleranza” e con lo “spirito dell’utopia”? Penso non solo alla fine degli assolutismi e delle intolleranze religiose presenti fino a tre secoli fa ma anche alla fine dei totalitarismi del secolo scorso. I fanatismi che ha conosciuto l’Occidente in passato sono diversi da quelli dei popoli extra-occidentali di oggi?
Io comunque ritengo che “la cultura occidentale” non debba avere il compito di “influenzare” le altre culture per modificarle in modo unilaterale ma semmai interagire con loro allo scopo di mettere in discussione non solo queste culture ma anche se stessa, riconoscendo l’ “altro” non solo come qualcosa da “assimilare” ma da riconoscere come “altro” in quanto tale premessa è indispensabile per qualsiasi dialogo.
«Fin quando hanno potuto le democrazie occidentali hanno trattato con Hitler, era una carta che andava giocata, anche se non funzionò».
Strana frase. Costringe chi la legge a chiedersi: ma se avesse funzionato il dialogo sarebbe stato meglio? Un Hitler “normalizzato”, avrebbe continuato a guidare la Germania per anni e oggi probabilmente avremmo ancora un regime nazista in Germania che ispira – legittimamente a questo punto! – i partiti nazisti di tutto il mondo. Certo, non avrebbe invaso la Polonia, non ci sarebbe stata la guerra, ma il destino del popolo tedesco – per parlare dei cittadini ebrei – avrebbero vissuto decenni di ingiustizie, segregazioni, deportazioni, morte.
Il resto del mondo avrebbe dovuto tollerarlo? E’ per noi accettabile? O in nome di una certa idea di tolleranza, dobbiamo anche tollerare chi uccide i miei “fratelli umani”?
Inoltre, come il caso della reazione al nazifascimo insegna, ma si potrebbero fare molti altri esempi contemporanei, una reazione ferma, e se è il caso anche armata, al fanatismo non è necessariamente una risposta fanatica, non è necessariamente un “mettersi al loro livello”.
* per NON parlare dei cittadini ebrei *
Utopia politica contro fanatismo religioso = benzina contro gli incendi, peggio la toppa del buco.
L’utopia è un’ottima cosa se sa di esserlo, cioè se sa di essere irrealizzabile, come l’Utopia di Tommaso Moro, e mette a confronto il mondo com’è e il mondo come dovrebbe essere, allo scopo di migliorarlo, non di renderlo perfetto o di trasfigurarlo in un Regno della Giustizia; se invece l’utopia si prende alla lettera, è un fantastico carburante per i fanatismi – e i cinismi, e le menzogne sistematiche, e le stragi.
A me pareva, se mi sbaglio mi correggerete, che la socialdemocrazia si distinguesse dal comunismo proprio perchè rinunciava espressamente all’utopia comunista.
Oggi, la socialdemocrazia rivendicata da Genovese è “utopica” solo nel senso che i partiti socialdemocratici europei hanno rinunciato, non all’utopia comunista, ma alla loro ragione d’esistere, e cioè alla difesa del reddito e delle condizioni di vita dei lavoratori e allo Stato sociale: e si sono invece schierati organicamente con il grande capitale e le istituzioni sovrannazionali.
Per farla corta, la socialdemocrazia europea di oggi è “utopica” nel solo senso etimologico: nel senso che non c’è da nessuna parte, anche se continua a chiamarsi così.
Sul tema “utopia nella storia” suggerisco la lettura di questo brano di Eric Voegelin:
http://voegelinview.com/gnosticisma-brief-introduction-pt-1/
Quanto poi a fanatismo ignoranza ed idiozia ecco cosa scriveva Voltaire: “è all’opera un principio che le differenzia ( le specie ). la natura ha subordinato a questo principio i diversi gradi dell’indole e dei caratteri dei popoli che vediamo cambiare così raramente. è per questo che sono schiavi degli altri uomini. comprati come bestie sulle coste d’Africa” (detto da uno schiavista)
E poi ancora nel Saggio sui costumi: “non è improbabile che nei paesi caldi delle scimmie abbiano soggiogato delle giovani donne…c’è allora da presumere che delle specie mostruose possano essere nate da simili abominevoli amori…” (à suivre)
Per Abate.
Tutto l’articolo cerca di mostrare come il concetto illuministico di fanatismo sia insufficiente per spiegare certe manifestazioni dell’orrore; il risentimento nasce dal malessere sociale (c’è un riferimento alle periferie metropolitane che dovrebbe essere chiaro). Riguardo alla strana domanda se gli illuministi provino mai risentimento, la risposta è certo che sì, come può capitare a tutti. Ma che cosa c’entra questo con il discorso di psicologia sociale (se così vogliamo chiamarla) che punta sull’intreccio tra risentimento e fanatismo per analizzare il fenomeno jihadista?
Per Barone.
Sulle critiche che lei muove al bellicismo statunitense ed europeo in Afghanistan, in Iraq e in Libia sono d’accordo (mi permetto di rinviarla ad altri miei due interventi apparsi sul sito della rivista “Il Ponte”, immediatamente precedenti a questo), anche se non condivido il giudizio positivo su personaggi come Gheddafi o Assad. Su Stalin le nostre vedute divergono completamente. Ma non penso che lei sia uno “sgherro” fanatico – suppongo, infatti, che non abbia mai partecipato a qualcosa come le purghe, le torture, la condanna a morte di Bucharin e altri come lui: piuttosto mi sembra un illuso fuori tempo massimo, come i tanti che (però con qualche giustificazione ai loro tempi) credettero che il “piccolo padre” stesse davvero costruendo il socialismo.
Per DFW etc.
Le citazioni da Voltaire che lei riporta nel secondo intervento non sorprendono: le mancanze, le contraddizioni, dell’illuminismo storico sono note. Non per questo dovremmo pensare di potere abbandonare Voltaire e gli altri. Sarebbe come ritenere chiusi i conti con Platone e Aristotele perché erano sostenitori della schiavitù. Per quanto concerne il suo primo intervento (che ho trovato un po’ confuso), l’esempio di Quirico e di ciò che ha raccontato è stato fatto per mostrare come il fanatismo, di per sé, non basti a spiegare i rapimenti di ostaggi e certi livelli di crudeltà; e anche come i criminali non siano (quasi mai) soltanto criminali. Ma questo può avere un senso solo se non ci si fa beffe dell’utopia, come lei si compiace di fare.
Per Ferrero.
Non paragono Stalin (o lo stalinismo) al jihadismo. Paragono l’agente staliniano – quello capace di assassinare un anarchico in Spagna durante la guerra civile – al jihadista. Credo che il fanatismo sia sempre lo stesso, anche se alle spalle non c’è esattamente una religione. Sul pessimismo in generale sono d’accordo. Ma lo spirito dell’utopia è quell’elemento, quel punto di vista, capace di creare un effetto di contrasto con il pur necessario pessimismo. Se la storia è un affare maledettamente complicato, è anche un affare mai del tutto chiuso. Altrimenti non sarebbe complicato.
Per Michele Dr.
È vero, la cultura occidentale dovrebbe interagire con le altre culture, non cercare soltanto d’influenzarle. Ma non sempre il dialogo può riuscire. Ci sono movimenti con i quali si dovrebbe piuttosto competere. Contro il fanatismo politico-religioso non basta dire “siete fanatici!”; ci sarebbe da mettere in campo un’ipotesi politico-utopica alternativa. Certo, dalle guerre di religione in Europa si uscì a poco a poco grazie a un insieme di fattori: l’evoluzione dei costumi, il diffondersi della tolleranza liberale, la costituzione degli Stati nazionali… Ma una confederazione di Stati liberi e pacifici (come quella che si augurava l’illuminismo di Kant) sembra una chimera più che un’utopia in un mondo in cui le sperequazioni economico-sociali sono stridenti come quelle odierne. La differenza principale tra i fanatismi consiste nel fatto che quello di oggi nasce in sostanza dal processo di decolonizzazione andato a male: lungi dall’essersi liberati, i paesi postcoloniali sono dominati da élite contro cui, in mancanza di alternative, la religione funziona da opposizione. Non dimentichiamo che l’attuale ondata jihadista si fa forte di una guerra civile innescata dalla sconfitta di un movimento di protesta – anche democratico – contro il regime siriano.
Per Zadig.
Lei deve porsi nella situazione di allora: negli anni trenta non era affatto scontato che Hitler avrebbe costretto l’Europa alla guerra. Come non sembrava scontato che Mussolini si alleasse con lui. Con il senno del poi possiamo dire che erano illusioni. Ma intanto, se si dovesse intervenire contro tutte le dittature per il semplice fatto che sono dittature, non si smetterebbe mai di fare la guerra.
Per Buffagni.
Lei ha una visione riduttiva della socialdemocrazia. A parte il fatto che, prima della grande scissione innescata dalla guerra mondiale, socialdemocratico era anche Lenin, lo stesso riformismo di un Jaurès o di un Turati era carico di utopia. È solo dopo la seconda guerra mondiale, quindi nel clima della guerra fredda, che la socialdemocrazia diventa il sinonimo di un puro realismo pragmatico contro una presunta realizzazione dell’utopia. Ma il nesso tra pragmatismo e utopia – un’utopia che serva a illuminare la strada al pragmatismo socialdemocratico – era ancora apertamente tematizzato da uno come Olof Palme. Il nodo era quello di un graduale superamento del capitalismo.
Per Rino Genovese.
Grazie della risposta. E’ ovviamente un tema altissimo, e non ho tutti gli strumenti per sviscerarlo. Però credo che si debba trovare (negoziare attraverso la discussione pubblica) una mediazione tra l’intervenire contro tutte le dittature (sì, un assurdo) e non intervenire mai finché non ci calpestano i piedi: tra l’altro quest’ultima impostazione “realpolitika” mi sembra ben poco illuminista. Che dice?
@ Genovese
Penso inceve che possiamo abbandonare tranquillamente Voltaire Platone e compagnia bella per gli argomenti di cui trattiamo. Persone intelligenti che non si rendono conto del proprio punto di vista scriteriato non meritano di essere ascoltate. Che poi le loro opere conservino molta bellezza è un altro paio di maniche. Ma di certo io non ne ho bisogno per fare alcun tipo di ragionamento di ordine morale.
Circa il mio intervento ciò che intendevo è che appunto fanatismo e risentimento estremo non vanno confusi. Allo stesso modo non sono alternativi. Possono essere complementari o meno (per questo ho portato alcuni esempi di gruppi di fanatici, ma non risentiti e di gruppi risentiti, ma non fanatici e infine di gruppi risentiti e fanatici). Che il fanatismo appunto come anche lei dice non sempre spiega tutto. Certo che i criminali non sono mai solo criminali, io lo davo per scontato. Ma in ogni caso una volta riconosciuto il fanatismo quello è. Che qualsiasi gruppo abbia delle buone ragioni per uccidere non toglie che possa essere riconosciuto come gruppo fanatico. Anche molti degli illuministi erano fanatici (forse inconsapevoli).
La pratica del Jihad, che sia interiore e mentale o esterioriore e violenta, sempre fanatica è, come qualsiasi forma di preghiera, il che di per sé non è per forza un male, bisogna vedere come si sviluppa. Così come l’utopia, che non voglio sbeffeggiare. Ritengo che però sia salutare prenderla un po’ per il culo. Un buon esercizio per utopisti virtuosi è quello di non prendersi troppo sul serio.
@ Genovese
La mia “strana domanda” mirava ad attirare l’attenzione proprio sui limiti e le contraddizioni dell’illuminismo (degli illuministi) che le citazioni da Voltaire riportate da DFW vs RB e i dubbi di Michele Dr sull’ uscita dal “fanatismo” della “civiltà occidentale” hanno evocato. (Molto sullo sfondo nelle mie domande gli avvertimenti contenuti nella «Dialettica dell’Illuminismo» di Horkheimer e Adorno ma anche quelli delle opere di Edward Said).
Di più: intenderei togliere la patina squalificante al risentimento che sarebbe (vedi Nietzsche) prerogativa esclusiva dei servi, delle plebi o degli esclusi dai vari banchetti.
Mi ha sempre, infatti, colpito positivamente la “difesa del risentimento” che fece Jean Améry in «Intellettuale ad Auschwitz», che, pur cosciente dei rischi di autocommiserazione, con pacatezza scrisse: «Coltivavo i miei risentimenti. E, dato che non posso e non voglio disfarmene, sono costretto a conviverci e ho il dovere di motivarli a coloro contro i quali sono rivolti» (Jean Améry, Intellettuale a Auschwitz, pp. 111-136, Bollati Boringhieri, Torino 1987).
E poi in un discorso che si vuole più o meno di psicologia sociale, per riequilibrare la bilancia, mi pare giusto sottolineare che risentimento è anche quello che, in forme specifiche e più raffinate, i signori provano verso i loro servi.
Quanto al fanatismo, non è che i fanatici occidentalisti manchino e non si facciano sentire in questi giorni proprio quando le analisi del fenomeno jihadista si moltiplicano affannosamente.
Questo dibattito può fornire l’occasione per interrogarsi sul ruolo di una personalità, Iosif Vissarionovic
Giugasvili, detto Stalin, che, dopo aver dominato la scena della politica interna del suo paese e la scena della politica internazionale del mondo intero nella prima metà del XX secolo, ha continuato a proiettare una lunga ombra sugli sviluppi politico-ideologici dei decenni successivi sino ai nostri giorni. Può
allora essere utile ricordare il significato di questo soprannome, pronunciando il quale (“Sa Stalina!”, ossia ‘Per Stalin!’) centinaia di migliaia di soldati sovietici combatterono e sacrificarono la loro vita nel corso della seconda guerra mondiale (era fanatismo?): Stalin, cioè ‘acciaio’, un soprannome che indica due qualità essenziali di questo metallo, la durezza e la flessibilità, e la loro incarnazione in un ‘leader’ bolscevico che lo stesso Lenin ebbe a qualificare come “quel meraviglioso georgiano” (definizione etnica che compare nel sottotitolo di una bella biografia di Stalin scritta da Gianni Rocca). Poiché una figura come questa, così
grande nel bene come nel male, non permette di operare un taglio netto fra la leggenda (sia eulogica sia demonizzante), che ben presto si è formata attorno ad essa, e la concreta funzione storica che tale figura ha svolto nel “secolo degli estremi”, proverò ad accendere su questo soggetto ad alta tensione interpretativa
cinque ‘flash’, che ne fissano quelli che, secondo la mia percezione, sono i tratti salienti.
Il primo ‘flash’ permette di cogliere, attraverso un episodio avvenuto nel 1927, tanto la dimensione, per così dire, ideal-tipica del conflitto fra due personalità, quali quelle di Trotzki e di Stalin, che rappresentano (non
solo) due concezioni (ma anche due vie e due linee) contrastanti della rivoluzione socialista, quanto la solidarietà, per così dire, antitetico-polare che le accomuna nell’àmbito di un periodo (non saprei dire se concluso o no) della storia del movimento operaio e comunista. Si tratta della riunione plenaria del comitato centrale del partito comunista bolscevico in cui Trotzki, chiamato a rispondere dell’accusa di essere un controrivoluzionario, gridò a un certo punto del suo discorso, volgendosi a Stalin: «Che cosa aspetti, dunque, a farmi arrestare? Quando mi farai arrestare?». «Non abbiamo fretta – rispose Stalin – ti faremo arrestare il 17 brumaio» [ossia un giorno prima di quel 18 brumaio 1799 in cui Napoleone Bonaparte, attuando un colpo di stato militare, dètte vita ad un modello di azione politica che, nel linguaggio marxista, sarebbe divenuto sinònimo della volontà, da parte di un ‘salvatore della patria’, di impadronirsi di tutto il potere per esercitare, con il sostegno dell’esercito, una dittatura personale].
Il secondo ‘flash’ riguarda la svolta decisiva segnata nel corso della seconda guerra mondiale dalla battaglia di Stalingrado (1943): un evento di cui il filosofo tedesco Ernst Cassirer colse il significato epocale non
solo in termini storici, ma anche in termini teoretici, effigiandolo come lo scontro decisivo fra la destra e la sinistra hegeliane, rappresentate rispettivamente dalla Germania nazista e dalla Russia sovietica.
Il terzo ‘flash’ dimostra con quale lucidità nell’analisi comparativa e con quale sensibilità per il valore concreto delle persone Karl Barth, uno dei massimi teologi cristiani del ’900, oltre che un militante della sinistra socialdemocratica (Genovese, prenda esempio da lui!), abbia tracciato la corretta linea di demarcazione storica che separa (e contrappone) il nazismo e il comunismo: «Bisognerebbe
aver perduto ogni buon senso per mettere sullo stesso piano, sia pure per un momento, il marxismo e il ‘pensiero’ del terzo Reich, un uomo della statura di Giuseppe Stalin e quei ciarlatani di Hitler, Göring,
Hess, Göbbels, Himmler, Ribbentrop, Rosenberg, Streicher. Mentre tutti i progetti del nazismo erano chiaramente irrazionali e criminali, l’impresa che è stata iniziata nella Russia sovietica rappresenta, malgrado tutto, un’idea costruttiva, anche se è perseguita con mani sporche e sanguinanti e con un metodo
che giustamente ci disgusta. Essa è sempre la soluzione di un problema, che anche per noi è urgente e grave e che noi, con le nostre mani pulite, non abbiamo ancora debitamente affrontato: la ‘questione sociale’». Il quarto ‘flash’ lo fece scoccare Concetto Marchesi, latinista e comunista, tracciando
nell’intervento all’ottavo congresso del Pci, all’indomani del ventesimo congresso del Pcus e al termine dell’‘indimenticabile’ 1956, il memorabile paragone fra «Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di
Roma», che «trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato», e «Stalin, meno fortunato, [cui] è toccato Nikita Krusciov». Il quinto, più che un ‘flash’, è un razzo pirotecnico sparato da un testimone insospettabile, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (la verità a volte ama rivelarsi nelle voci più avverse): «Il marxismoleninismo è stato una grande ideologia, che ha mosso milioni di persone verso obiettivi di giustizia e di liberazione. Marx è stato il più grande economista classico del XIX secolo e Lenin il più grande teorico rivoluzionario del XX secolo. La forza e il prestigio del marxismo-leninismo sono stati così grandi, che tante persone hanno, proprio per questo motivo, appoggiato e giustificato lo stalinismo» (dichiarazione fatta il 16 aprile 1998 durante la trasmissione televisiva “Porta
a porta” condotta da Bruno Vespa).
Caro Genovese, non dimentichi mai che, se Lei può lanciare i suoi strali contro Stalin, questo è possibile perché la sua agibilità politica e il suo diritto di parola sono il frutto, oggi sempre più marcio a causa del mutamento dei rapporti di forza su scala mondiale, della democrazia e della Costituzione, per conquistare le quali anche negli stessi paesi capitalistici l’Unione Sovietica, diretta da Stalin, ha pagato nel corso della lotta contro il nazifascismo un tributo immane corrispondente a venti milioni di morti.
” Essa è sempre la soluzione di un problema, che anche per noi è urgente e grave e che noi, con le nostre mani pulite, non abbiamo ancora debitamente affrontato: la ‘questione sociale’” (Karl Barth)
Indiscutibile è che i bolscevichi e anche Stalin abbiano affrontato la ‘questione sociale’, che Barth non vedeva sollevata con egual vigore nel suo paese, ma parlare di soluzione?
Caro Barone, mi permetto ancora di ricordarti (se mi concedi ancora il tu) che la storia dell’Urss non s’è fermata alla vittoria di Stalingrado.
@ Barone
Con sincero e sommo sbigottimento (senza sarcasmo)
Io un po’ ti capisco, però anche tu, davvero ti vuoi mettere ancora a fare analisi sulla figura di Stalin, sul finire malinconico di un’altra estate? Poi scusa, siccome sono morti milioni di Russi allora non possiamo sputare su Stalin?
E ancora, ma ti pare che in una discussione porti a tuo sostegno le opinioni di Cossiga (quello che non sopportava la musica elettronica) e di un teologo? Per curiosità, la questione dell’anima, post-genocidio, è stata risolta? Quel detto “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”, il caro vecchio Karl Barth se la ricorda? Anche sterminare l’intera umanità risolverebbe la questione sociale.
Dico, ci sarà una differenza fra una teoria (Marx alla peggio avrà sottolineato qualche libro alla British Library, tradito la moglie, evaso il fisco, non so) e un gulag?
La questione che penso dovresti affrontare, e penso che lo dovresti fare in cuor tuo, è capire che mettere sullo stesso piano nazismo e stalinismo non significa dire che sono stati lo stesso fenomeno, ma dire che hanno avuto gli stessi effetti criminali, ovvero lo sterminio sistematico, la disumanizzazione sistematica, in favore di una idea. Qualunque sia l’idea che ti anima, ci sono cose che non puoi fare agli altri, pena essere considerato un fanatico, squilibrato, criminale.
@ Abate
C’è un bel libro recente, Razzismo e noismo, un dialogo fra Daniela Padoan e Luigi Luca Cavalli-Sforza
E se invece ammettessimo che l’occidente non è meno fanatico dei jihadisti? Che in fondo v’è soltanto un errore di prospettiva?
Non sarebbe allora più utile entrare nel merito del sistema di valori che si confrontano dismettendo questo atteggiamento di superiorità di occidentali tolleranti che nei fatti impedisce un esame realmente critico della realtà che ci circonda?
a Rino Genovese.
La ringrazio della replica. Lei ne sa infinitamente più di me sulla storia della socialdemocrazia, e accetto volentieri la sua correzione.
Solo una nota: bisognerebbe intendersi meglio sul significato delle due parole chiave del suo scritto, “fanatismo” e “utopia”.
Se lei ne tentasse una definizione, gliene sarei grato.
Definire il fanatismo è relativamente semplice: la nozione illuministica indica un entusiasmo religioso spinto fino alla rottura dei più elementari sentimenti di umanità. Più difficile è stabilire che cosa s’intenda con il termine “utopia”, anche perché risalire alla definizione etimologica di un “non luogo” come mondo possibile (o impossibile ma reso possibile tramite l’immaginazione) non aiuta granché. L’utopia ha infatti accompagnato la cultura occidentale moderna come una sorta di basso continuo. Una concezione della storia come progresso infinito – che oggi quasi nessuno più sosterrebbe – è apparentata alla nozione di utopia. Ma più ancora lo è l’idea di una fine della storia, di una sua chiusura nel senso di una conciliazione di tutti i conflitti. È la chiave di lettura dell’utopia in chiave hegeliana. A mio modo di vedere, invece, l’utopia può essere oggi riproposta solo riprendendo l’idea di conflitto sociale come qualcosa che non è mai risolto una volta per tutte. Utopia sarebbe allora un modo di orientare i conflitti in forma democratica e non violenta, puntando alla tendenziale eliminazione delle cause di natura sociale che li generano.
“Utopia sarebbe allora un modo di orientare i conflitti in forma democratica e non violenta, puntando alla tendenziale eliminazione delle cause di natura sociale che li generano”. (Genovese)
Quanta cautela! Genovese, lei mi sembra uno che vuol liberare un toro dal buio della storia passata per farlo galoppare solo in recinti già predisposti (“in forma democratica e non violenta”, che andrebbe bene anche a chi oggi ci governa).
L’utopia ha un’ambivalenza che non permette di avvicinarla per ficcarla subito in gabbia.
Rileggo da un vecchio libro uscito quando le utopie ancora circolavano ed erano oggetto di riflessione:
“Last but not least -l’accresciuto interesse che viene dedi-
cato alle utopie non deriva né esclusivamente né soprattutto
da preoccupazioni «dotte», ma risponde piuttosto a nume-
rosi interrogativi posti dalla nostra epoca. Si direbbe quasi
che il termine «utopia» sia divenuto il punto focale, se non
il simbolo, delle nostre ossessioni e delle nostre speranze.
Mai, forse, l’utopia è stata tanto violentemente denunciata
ed esaltata con tanta foga. Si assiste così al manifestarsi di
un’inquietudine profonda sul pericolo che rappresenterebbe
per la nostra epoca l’assenza di utopie che le siano proprie, al-
l’orizzonte delle nostre attese e nell’impiego della nostra im-
maginazione. «La nostra epoca – scrive Bertrand Russell –
non è più in grado di credere ai sogni degli utopisti, persino
le società partorite dalla nostra immaginazione non fanno
che riprodurre i mali che ci sono familiari nella vita quoti-
diana». L’utopia o la morte, proclama il titolo di una recente
opera che si interroga sulle risposte da dare alla degradazio-
ne della nostra condizione ecologica; e solo recentemente
sono stati cancellati gli ultimi graffiti che, sui muri di Parigi,
invocavano l’immaginazione al potere. Al contempo, tutta-
via, l’interesse per le utopie rivela sentimenti e atteggiamen-
ti contrari. Non si tratta soltanto del manifestarsi di una di-
sillusione, ma di una diffidenza profonda verso le utopie, e
ciò a causa dei rischi sociali che la loro influenza può com-
portare. Più che mai si è consapevoli del fatto che l’utopia
può divenire un potente strumento di azione e di mobilita-
zione sociale, ma anche uno strumento di manipolazione di
tragica efficacia. L’esperienza del totalitarismo, sia in Russia
che in Germania, non ha forse dimostrato come le utopie,
coniugate a certi miti e amplificate da una propaganda onni-
presente e oppressiva, imprigionano e degradano le menti e le immaginazioni?”
(Bronislaw Baczko, L’Utopia, p.18, Einaudi, Torino 1979)
Conosco quel libro, caro Abate, e sottoscriverei la citazione che ne trae (in cui tra l’altro si parla dei totalitarismi, che – pur nella differenza che separa i fascismi dal “socialismo reale” – sono utopie rovesciate, e i miti nazionalistici ad essi collegati li vediamo disgraziatamente ancora operanti dopo la loro fine). La cautela con cui oggi dev’essere riproposta l’utopia è una conseguenza della storia novecentesca e della sua catastrofe. Ma lei non ha ancora elaborato il lutto.
Se non altro Eros Barone ha il merito della perseveranza:
http://salvatoreloleggio.blogspot.fr/2010/10/questione-stalin-un-danno-incalcolabile.html
@ Genovese
a proposito di utopia, cito da Paranoie della modernità, un capitolo contenuto in Contro il sentito dire di Giovanni Jervis
“Dopo il ’68, ideologie irrazionalistiche cominciarono a prevalere su quel razionalismo
critico che era stato tipico dei migliori intellettuali della sinistra “non schierata”.
Già il pericolo atomico aveva incoraggiato la diffidenza verso la scienza e la
tecnologia; negli anni ’70 e ’80 crebbero, sempre più gravi, gli allarmi per il
deterioramento dell’ ambiente. Ne venne messa in discussione l’ idea stessa del pr
ogresso umano. Vi contribuì la crisi del progressismo di sinistra, dovuto al tramontare delle ipotesi marxiste e alle difficoltà dei partiti socialdemocratici.
La crisi della modernità si è fatta da allora più marcata. Oggi non mancano i nostalgici, come Serge Latouche, i quali auspicano la “decrescita” della società. Anche fra i cosiddetti Verdi non mancano quelli che amerebbero ritrovarsi nel passato, in comunità agresti, meno conflittuali, e – va da sé – più tradizionaliste e conservatrici. Ha il suo peso la disinformazione. Non sono pochi coloro che ignorano elementari dati di fatto. Per esempio, si preferisce ignorare che l’ unico mo
do efficace di combattere la fame nel mondo consiste, e non da oggi, nell’ aumentare la resa delle sementi e la produttività dei terreni; e consiste anche nel combattere l’ analfabetismo e le superstizioni. Da decenni, la fuoriuscita dal sottosviluppo si basa non soltanto sulla crescita dei commerci e della libera concorrenza, ma anche sull’utilizzazione di nuove tecnologie. Mentre i popoli orientali e africani che ieri morivano di fame oggi sanno bene in che
direzione guardare, accade che in Occidente ci si trastulli con nostalgie disinformate. In Italia, dove la cultura diffusa è priva di una solida tradizione scientifica, osserviamo l’espandersi di correnti di pensiero che considerano con sospetto la scienza, la tecnica e la stessa razionalità umana: quella razionalità che, a partire dal ‘700, per due secoli caratterizzò il pensiero democratico, laico
e progressista. Gli attuali spunti anti-modernisti vengono potenziati
dall’atteggiamento delle correnti religiose fondamentaliste ”
Il capitolo intero qua
http://nuke.mauromangano.it/Portals/0/documenti/INTERVENTO%20DEL%20PROF%20%20GIOVANNI%20GERVIS.pdf
a Rino Genovese.
Grazie per la precisazione sul significato che lei attribuisce a “fanatismo” e “utopia”.
Aggiungo una breve nota di commento.
La definizione illuministica di fanatismo è effettivamente quella da lei proposta: “un entusiasmo religioso spinto fino alla rottura dei più elementari sentimenti di umanità”.
Le dirò, mi è sempre parsa piuttosto debole.
Intanto, è fattualmente falso che “i più elementari sentimenti di umanità” vengano rotti o dimenticati solo o principalmente a causa di “entusiasmo religioso” (“religioso” in senso proprio o anche traslato).
I “più elementari sentimenti di umanità” sono, in sintesi, l’inibizione a uccidere e l’empatia che ci fa riconoscere come nostro prossimo ogni altro uomo. Come lei sa, ci sono tanti modi e ragioni per superare l’una e l’altra. Anzitutto, le passioni: per esempio, il desiderio di vendetta, personale, nazionale, ideologica o sociale (far fuori i ricchi, i bianchi, i neri, i rossi, i gialli etc., che ti hanno sempre trattato dall’alto in basso dà indubbiamente una notevole soddisfazione).
Poi, ci sono le giustificazioni o razionalizzazioni di tipo ideologico: si massacra ad majorem gloriam di Dio (qualunque Dio o dio), del comunismo, della libertà, della giustizia, in generale di un mondo migliore, di un lendemain qui chante, di un domani in cui si farà credito più o meno utopico.
Funzionano assai meglio, le razionalizzazioni dei massacri, se le coonestano e corroborano la Legge, lo Stato, in generale i powers that be, perchè abbiamo tutti bisogno di credere che chi ci governa sia buono, saggio e giusto come un papà ideale; e se il governo ci dice che una certa categoria di persone è colpevole e va spazzata via, chi siamo noi per dire che non è vero? Se quella gente finisce così male, qualcosa avrà pur fatto (esemplare la soluzione del quiz Gesù/Barabba). Se poi il massacro non richiede la nostra partecipazione diretta, e se addirittura si svolge pulitamente, a distanza di sicurezza, l’occhio non vede, il cuore non duole, e per dormire bene non servono i sonniferi.
Gli abietti scannamenti dei fanatici islamisti colpiscono forte perchè sono macelli artigianali, massacri do it yourself; quando vediamo un tizio che ne prende un altro e gli taglia la testa con un coltello da cucina, e non si tratta di un film splatter, trasecoliamo e non riusciamo a identificarci nell’assassino, a divinarne la comune umanità che condivide con noi, nostro cugino, etc. E in effetti, ammazzare una persona con le armi bianche, a tu per tu, per l’uccisore è un’esperienza profondamente diversa dall’ammazzarla anche solo con un’arma da fuoco (per tacere di quando la si ammazza a grande distanza con l’artiglieria, i missili, le bombe, il napalm, il fosforo bianco, etc.)
Per la vittima, dipende. L’attesa della morte del condannato è terribile sempre; l’orrore e il dolore di una decapitazione, a occhio e croce, non dovrebbero essere superiori a quelli di chi venga bombardato da proiettili al fosforo, come quelli correntemente usati, ad esempio, dalle forze del governo di Kiev contro i civili russofoni.
In sintesi: sarò pessimista, ma a me sembra che “i sentimenti di umanità più elementari” siano piuttosto fragili e deperibili, sempre; e che quando qualche Cosa Forte dà il semaforo verde, le giustificazioni per buttarli via – sempre “per il bene di Qualcuno o Qualcosa”, spesso futura e utopica – abbondino.
@ Buffagni
http://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_Milgram
http://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_carcerario_di_Stanford
Aggiunga, Buffagni, che si massacra per difendere il proprio onore (o presunto tale), in preda a un raptus, eccetera eccetera… Ma che modo di ragionare è questo? Se parliamo di fanatismo religioso, parliamo di fanatismo religioso – non per esempio di quello che, per traslato, può impadronirsi di una folla che assiste a un concerto rock.
Allargare il discorso, in qualsiasi campo, è il modo migliore per non capire più nulla. I concetti vanno ristretti e non allargati. E il tema del mio intervento iniziale mi pare chiaro: una certa ferocia (non tutta la ferocia del mondo) è il risultato di un intreccio tra vecchio fanatismo e nuovo risentimento contro l’Occidente. A ciò si dovrebbe rispondere con una politica di respiro ampio – non con quella, per intenderci, incentrata sulla logica della guerra.
Caro Genovese,
mi scuso se ho “allargato il discorso”.
L’ho fatto perchè secondo il mio avviso, il problema attuale NON è il fanatismo religioso, e lo scontro principale in atto NON è tra barbarie religiosa/civiltà occidentale.
Il fanatismo religioso, che esiste come è sempre esistito e sempre esisterà, oggi diventa un problema politico serio perchè gli USA e i loro alleati, tra i quali l’Italia, lo incoraggiano al fine di disintegrare le realtà statali nei teatri d’operazioni che gli interessa destabilizzare, per ragioni non solo politiche ma anche culturali.
Poi succede, com’era prevedibile e come avevo previsto io stesso che non sono nè un genio nè informato delle segrete cose, che la bomba etnico-religiosa ti scoppia in faccia. La cura del fanatismo religioso, sempre a mio avviso, non è dunque l’utopia, socialdemocratica o meno. La cura del fanatismo religioso è il ritorno al realismo politico, cioè la fine della destrutturazione delle realtà statali: Westfalia 2.0
Ma non si può fingere di credere che le rivolte nel mondo arabo siano state volute dagli Stati Uniti e dall’Europa. Ci sono state perché ci sono state: quei popoli anzitutto non ne potevano più dei regimi postcoloniali che li governavano da decenni. Gli Stati vanno in crisi anche per ragioni intrinseche, autoctone. Gli Assad sono messi in questione, come i Mubarak e i Gheddafi, da movimenti interni; poi interviene – quando interviene – l’Occidente, come in Libia. In Siria né gli Stati Uniti né l’Europa sono intervenuti (se non marginalmente, contro il parere dei soliti guerrafondai) e il movimento di protesta ha perso la partita quando è diventato guerra civile aperta, con tutte le conseguenze che vediamo. Il realismo politico a questo punto è insufficiente (non sempre lo è, ma a questo punto sì). Alla fine l’opzione sarà la solita, cioè i soliti droni, un’altra guerra asimmetrica.
Non ho tempo di fare un commento lungo. Voglio solo fare qualche richiamo storiografico perchè abbiamo sempre la memoria corta. A questo proposito consiglierei la lettura di Hobsbawn,e ,per l’Italia, di Ginsborg.
L’Occidente(leggasi NATO), ha sempre tormentato, devastato con guerre i paesi che prima si chiamavano in via di sviluppo, ora sono solo figli di un dio minore (A.Rhoy). Ha appoggiato dittature feroci in Spagna, Portogallo, Sudamerica, Africa, Sudafrica. Portando i suoi valori: Apartheid, schiavitù,,miseria, omicidi,stragi,torture in nome di una superiorità antropologica e imperiale che ha diviso il mondo e le varie parti del mondo in miserabili e Paperoni. Ha portato la cultura del profitto, chiamato erroneamente libertà, dappertutto. La logica de vincitori. Le torture e i massacri dei giovani sono stati diffusi ovunque. Lumumba è stato ucciso, Agostino Neto non c’è più. L’Algeria si stava togliendo il velo(F.Fanon), ma ora si è dimenticato tutto. E’ vero che Saddam era un tiranno, ma quante bugie si sono inventate per dichiarare guerre. L’Afghanistan non c’entrava, ma si trovano scuse anche per questo. L’Onu emana tante risoluzioni, ma non viene ascoltato. Non serve. Salazar, Pinochet sono durati con l’appoggio della Nato e,nello stesso modo, tanti altri dittatorielli sudamericani. Ma noi occidentali dobbiamo creare il migliore dei mondi possibili con le armi e in nome del dio petrolio. Gli Usa hanno appoggiato dittatori e permesso che scomparissero generazioni di giovani, hanno consentito la tortura che si usasse la tortura per creare un mondo ‘liberale’ . In realtà è il caos.
E il caos ci meritiamo, perchè vogliamo dominare e devastare la terra, chiamando tutti terroristi. Mazzini era terrprista,i partigiani erano terroristi, così venivano chiamati. Mail terrorismol’ha creato l’Occidente , mentre la CIA è dovunque e agisce con atti terroristici. Il terrore diffuso dalle armi di stato va accettato? La bomba di Hiroshima era giusta? Così si doveva finire una guerra? Ma siamo sempre in guerra,da secoli, anche da millenni.
Faremo figli in un mondo caotico, che non ha rispetto per gli esseri umani e che non dà neanche medicine per malattie gravissime e mortali nel mondo povero. Ma faremo figli ancora, anche in provetta, perchè ci svegliamo con la voglia di farne, Bambini CHE VVRANNO IN UN MONDO CAOTICO E ne MORIRANNO Perchè che c’importa del futura se ora siamo benestanti? Se possiamo sfruttare e derubare altre terre? Ci penseranno i giovani ad arrangiarsi, quei giovani cui lasceremo un’eredità così pesante. Ricordatele madri della Plaza deMajo? Ci sono ancora, vecchie malandate e lottano con associazioni librerie ,comizi perchè i figli non siano dimenticati. Le ho viste in un documentario, Prima giovani donne, gradevoli,ora vecchie distorte dall’artrite e dal loro eterno lutto, con la stessa forza e passione di una volta. Apparentemente non sono le stesse, ma la fierezza e il coraggio, la memoria storica, l’en.patia è la stessa. Sempre davanti al palazzo delle torture, nelle librerie a far lezione di storia vera ai giovani. Sono loro che non dimenticano e non si lasciano ingannare. Sono loro che difendono libertà ,giustizia e pace-
Caro Genovese,
certo che in Libia, in Siria, nel Maghreb c’erano variegati movimenti di opposizione ai governi locali; e certo che le crisi di quegli Stati avevano anche ragioni endogene.
Ragioni di crisi endogena e faglie di spaccatura politica, etnica, religiosa, ce ne sono dappertutto, anche in Italia, negli USA o, per stare sull’attualità, in Ucraina.
USA, Francia e Inghilterra sono intervenute, prima incoraggiando i movimenti presentabili, “primaverili”, poi inserendovi, via Arabia Saudita e Qatar, milizie salafite (in buona parte, criminali comuni reclutati nelle galere).
In Siria, ad esempio, la guerra civile non sarebbe scoppiata mai senza l’intervento di queste milizie. Non sarebbe scoppiata mai non perchè Bashar Assad sia buono e caro, ma perchè lo Stato siriano era in grado di controllare, con le buone e le cattive, i movimenti d’opposizione non finanziati, organizzati e armati da Qatar e Casa di Saud, previo semaforo verde USA & C.
Le potenze occidentaliste non sono intervenute direttamente in Siria perchè lo Stato e l’esercito siriano erano e sono abbastanza coesi e motivati (le minoranze alawita e cristiana che dominano in Siria sanno che in caso di sconfitta, per loro e per le loro famiglie è la fine) da infliggere gravi perdite agli invasori, e punto.
Lo stesso vale per la Libia: mai Gheddafi sarebbe caduto, etc. (lì poi ci abbiamo contribuito anche noi italiani, compiendo un’azione abietta e disonorevole senza trarne alcun vantaggio, anzi subendone gravi danni, complimenti al presidente Napolitano che tanto s’è speso per questo bel risultato).
E lo stesso vale anche per l’Ucraina, dove prima si è incoraggiato il movimento democratico, europeista e buono di Maidan, e poi si è dato il via ai neonazisti di Pravy Sektor, criminali che non hanno niente da invidiare, in fatto di fanatismo e crudeltà, ai salafiti dell’ISIS e analoghi. Gli americani hanno pubblicamente detto di avere investito 5 MLD di dollari per la destabilizzazione del governo ucraino.
Con una politica improntata al realismo, certo i paesi occidentali non potrebbero risolvere i mille problemi sociali di quei paesi; ma il realismo politico eviterebbe di distruggerne le strutture politiche e scatenarvi guerre civili atroci che li conducono all’anarchia e alla miseria senza uscita, perchè il disordine contagia anche chi lo scatena. Non sarebbe l’utopia, ma sarebbe molto meglio dell’effettualità presente.
@DFW vs RB, quasi OT:
ho letto il discorso del dottor Jarvis, posto che apprezzo chiunque spari sul delirio dell’intelletto ipercriticista e irrazionalista che ha preso le discipline umanistiche dagli anni 70 ad oggi, trovo che la preparazione del Jarvisi in merito alle scienze umanistiche e sociali sia davvero lacunosa e piuttosto deprimente. un delirio intellettuale uguale e contrario fatto di scientismo positivista ottocentesco, con tanto di inclinazioni razziste verso la “intelligenza concreta”, merita ancora più schiaffi.
sta gente dovrebbe studiare scienze sociali, prima di parlare della società, per essere credibile nei suoi discorsi su scientificità e non scientificità. ma la sua stronzaggine di fondo, quella di chi crede di sapere meglio degli altri cosa è meglio per gli altri, non la curerà nessuno studio. ed è in questa stronzaggine tutto ciò che di deleterio esiste nelle utopie, tale da renderle sospette.
quando leggo cose come: “Anche in Italia, ci siamo resi conto che la tragedia del Meridione non dipende da fattori strutturali, come lo sfruttamento capitalistico o la mancanza di capitali, ma invece dipende, e in prevalente misura, da fattori culturali: dipende dal familismo amorale, da clientele e favoritismi, dalla corruzione diffusa, dalla mancanza di un’etica laica nella vita civile.”
mi chiedo: ma sto idiota ha studiato sui libri di Lombroso?
@ A latere
Posso dirti che sebbene capisco il tuo discorso, sono relativamente sicuro di poterti dire che quantomeno l’attività di Jervis è distante anni luce dal positvismo ottocentesco. La sua prospettiva, così come la prospettiva cutlurale entro cui si muove (e che io nel mio piccolo ho trovato corrispondente alle mie convinzioni e inclinazioni) è quella di integrare la pratica terapeutica con il metodo di ricerca delle scienze naturali, attraverso la lettura neodarwiniana e le recente scoperte neuroscientifiche. Ad esempio c’è un bel libro di Fabrizio Benedetti sulla medicina narrativa, che è un tentativo di rompere il muro tra le discipline umanistiche e quelle scientifiche; lo puoi trovare facilmente. Altri testi importanti sono quelli di Eric Kandel. Purtroppo ancora oggi c’è un fraintendimento delle implicazioni evolutive, dovuto anche al cattivo uso che si è fatto in passato della teoria darwiniana. E rimane l’alone negativo sulla scienza. Comunque dato che ho letto vari libri di Jervis, mi sembra che a partire dalle esperienze con De Martino e con Basaglia, egli abbia offerto una buona e prudente rilettura di alcune tesi di De Martino e del periodo dell’antipsichiatria. E proprio in Contro il sentito dire, analizza anche autocriticamente il ruolo del terapeuta.
SEGNALAZIONE:
Minima Cardiniana, 37
Domenica 31 agosto 2014, XXII Domenica del Tempo Ordinario
FORSE UN TERRORISTA, FORSE UN RIVOLUZIONARIO…
http://www.francocardini.net/
@ Abate
Tralasciando le posizioni ispirate puramente e semplicemente all’anticomunismo per via della loro irrilevanza teorica ed argomentativa, provo a rispondere al quesito posto da Ennio Abate e mi scuso per il ritardo con cui rispondo, dovuto ad impegni che mi hanno tenuto lontano dalla Rete. Osservo, innanzitutto, per usare un linguaggio terzinternazionalista, che lo schema interpretativo sotteso alle obiezioni che meritano di essere prese in considerazione è sostanzialmente quello menscevico e socialdemocratico di Plechanov, di Martov e di Kautsky, secondo cui un processo di transizione al comunismo in Russia non poteva realizzarsi, e dunque non si è mai realizzato, a causa dell’arretratezza economica e delle condizioni semifeudali di questo paese eurasiatico. In base ad una concezione meccanicistica di tipo stadiale, che oblitera, insieme con la dialettica, la teoria leniniana della catena imperialistica e della rottura dell’anello più debole, si sostiene dunque che, essendo quella dal feudalesimo al capitalismo l’unica transizione possibile, la rivoluzione d’Ottobre, nonostante alcune trascurabili differenze come il rifiuto di massa di continuare a partecipare alla guerra imperialista e il rovesciamento del governo di Kerenskij attraverso l’insurrezione operaia diretta da Lenin e dai bolscevichi, si sarebbe posta in un rapporto di sostanziale continuità con quella di febbraio e sarebbe stata, fin dall’inizio, una rivoluzione capitalistica. La conseguenza inevitabile di un simile approccio, contrassegnato, ad un tempo, dalla negazione dell’evidenza storica, dallo schematismo e dal nullismo, è che il nodo teorico della transizione dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione comunista, che sta al centro della rivoluzione d’Ottobre e dello stesso giudizio su Stalin, cessa di essere un problema teorico e politico non perché in tal modo la questione sia stata risolta, ma perché è stata semplicemente rimossa. Il ‘lucus a non lucendo’, cui ricorrono coloro che ripropongono oggi le posizioni dei critici della rivoluzione sovietica negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, è allora lo pseudoconcetto del ‘capitalismo di Stato’, il cui contorto significato, diversamente da quello attribuitogli da Lenin durante il periodo della Nep (1921-1929), servirebbe ad indicare il carattere fondamentale di una società, quella sovietica per l’appunto, in cui lo Stato è il proprietario dei principali mezzi di produzione e li gestisce in modo capitalistico.
Sennonché affermare questo significa non tenere conto della situazione dell’Urss dopo la rivoluzione d’Ottobre e non comprendere con quali difficoltà e con quali potenzialità, sia a livello interno (l’industrializzazione e il problema dell’alleanza con i contadini) sia a livello internazionale (l’accerchiamento capitalistico e il problema dell’alleanza con i movimenti di liberazione nazionale delle colonie e semicolonie), si siano dovuti misurare i dirigenti che si contesero l’eredità teorica e politica di Lenin, ossia la generazione di Stalin, Trotsky, Bucharin, Kamenev e Zinoviev, per dare al socialismo, con i soviet e l’elettrificazione, le due basi indicate dal grande rivoluzionario russo nella sua sintetica formula, e per mantenere aperta, lungo questa via, una prospettiva comunista. Sotto questo profilo, vale la pena di ricordare che il 7 novembre del 1917 non ha segnato la fine della rivoluzione, ma il suo inizio; parimenti, così come prevede la teoria marxista e leninista della ‘rivoluzione ininterrotta per tappe’, la fine della guerra civile ha costituito non la conclusione del processo rivoluzionario, ma la sua ulteriore continuazione in direzione del socialismo e del comunismo. Del resto, una volta sconfitte tanto le forze reazionarie legate al passato regime zarista quanto le forze controrivoluzionarie sempre riemergenti, le une e le altre appoggiate dal blocco delle potenze imperialiste coalizzate contro il primo paese socialista del mondo, il problema era quello, da un lato, del consolidamento dello Stato proletario e dei risultati sino ad allora conseguiti e, dall’altro, dei tempi, delle modalità e delle forme di sviluppo della transizione al comunismo. Queste nuove tappe non erano e non potevano essere lo sbocco di processi pacifici, giacché, come si è detto e come non si deve mai dimenticare, il loro raggiungimento era fortemente condizionato dalla costante pressione aggressiva dell’imperialismo e dalla realizzazione, sia nella struttura che nella sovrastruttura dello Stato sovietico, dei mutamenti qualitativi che erano necessari per garantire la direzione di marcia, anticapitalista e comunista, dell’intero processo della transizione.
L’industrializzazione del paese, la difesa militare, la lotta contro le forze conservatrici della piccola e media borghesia radicate nelle campagne, così come i riflessi politici e ideologici dei conflitti sociali all’interno del partito, incarnati dalle fughe in avanti e dalle giravolte di Trozky, nonché dai cedimenti e dalle capitolazioni di Zinoviev e di Bucharin, hanno rappresentato altrettante sfide con cui il partito comunista ha dovuto misurarsi sotto la direzione di Stalin. Solo una salda direzione e la capacità di individuare con chiarezza gli obiettivi immediati, intermedi e finali del processo in corso potevano garantire, in un periodo di ferro e di fuoco (1924-1953), il successo non solo della costruzione del socialismo in un solo paese, ma anche della realizzazione di una base rossa per la rivoluzione mondiale. Un corretto approccio a questa grandiosa vicenda storica, per non essere superficiale, unilaterale e in definitiva opportunistico, deve perciò poggiare su un’esatta comprensione degli effettivi processi storici, dei concreti rapporti di classe e delle reali forze in campo. In questo senso, non vi è alcun dubbio che un deficit di comprensione di questi dati e del modo di agire su di essi per trasformarli in altrettante leve della transizione sia all’origine della sconfitta degli oppositori di Stalin e dell’affermazione della base operaia, contadina e intellettuale, che lo sosteneva. I processi di Mosca degli anni Trenta sono la conseguenza di questa sconfitta e dimostrano che, come era già avvenuto ai tempi di Cromwell e di Robespierre con il taglio delle ali estreme (da Carlo I ai Levellers, da Danton a Hébert, da Trotsky a Bucharin), il processo rivoluzionario, in cui quei processi necessariamente rientravano, viene sempre governato dal centro e deve premunirsi dai sussulti controrivoluzionari estirpando le radici interne delle cospirazioni internazionali, poiché, come osservava Stalin con sagacia e lungimiranza, “le fortezze si espugnano dall’interno”.
In conclusione, convengo sul fatto che, dal punto di vista storico e soprattutto teorico, è fondamentale ancor oggi per coloro che militano nel movimento operaio e comunista svolgere una ricerca ampia e approfondita sulle scelte compiute e sugli indirizzi adottati in Urss dalla maggioranza del gruppo dirigente bolscevico durante il periodo che va dal 1924 al 1953. Lo scopo di tale ricerca naturalmente non può essere quello di individuare schematiche analogie tra quella fase storica e la fase attuale (anche se con la creazione di più poli imperialistici su scala mondiale e dopo che la progressiva restaurazione del capitalismo in Urss è sfociata nel dissolvimento dello Stato socialista non mancano talune analogie con il periodo compreso tra il 1900 e il 1914), ma quello, per usare una bella espressione del marxista nord-americano Paul Sweezy, di capire “il presente come storia”. Solo in tal modo, imparando come i princìpi della teoria scientifica siano stati applicati in altri contesti e applicando tali princìpi alle situazioni concrete in cui si trova ad operare oggi il movimento di classe, sarà possibile non solo ritrovare la luce che è inseparabile dall’ombra che quel gigante continua a proiettare sul “secolo breve”, ma anche svolgere un’azione efficace nel contrastare l’offensiva ideologica e culturale che tende a liquidare l’esperienza teorica e pratica del proletariato mondiale nelle società di transizione e ad espungere tale esperienza dalla formazione politica e intellettuale delle nuove generazioni che manifestano la loro opposizione al sistema capitalistico.
@ Barone
Caro Barone,
a che punto siamo della Grande Nottata che ha avvolto i “paesi allegorici” del socialismo? Io testardamente parto da questa domanda. Con fermezza. Senza pessimismi. Ma senza cedere un’unghia alla nostalgia e al dogmatismo. Il tempo non può essersi arrestato. Né per me né per te.
Perché usare allora «un linguaggio terzinternazionalista» oggi che la Terza Internazionale non c’è più (e la Quarta è fallita e la Quinta è solo in qualche mente isolata)? Perché scovare nelle mie – credo elementari obiezioni – uno schema interpretativo che sarebbe « sostanzialmente quello menscevico e socialdemocratico di Plechanov, di Martov e di Kautsky»?
Suvvia, non sono neppure uno che ha fatto il salto della quaglia o che ha rimosso Marx. E sono ben disposto ad ascoltare chi parlasse criticamente (e storicamente) del «nodo teorico della transizione dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione comunista» indicandomene con dottrina e realismo le fondamenta e almeno qualche tappa. Tra l’altro ho sempre difeso la “scommessa” di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre, proprio perché mai ho pensato che fosse «fin dall’inizio, una rivoluzione capitalistica». Ma resto ancorato – e questo ci divide – alle lezioni antistaliniste di un Fortini o di un Montaldi, che comunque sono ben diverse dalla banali liquidazioni o demonizzazioni di un leader, che «gigante» politico sarà stato, ma come minimo la “rivoluzione proletaria” la fece deviare in modi simili a quel che fece Napoleone per la Francese.
Non ho mai avuto perciò simpatia per le scolastiche marxiste, anche se in passato ho cercato d’informarmene con scrupolo. Mi hanno interessato sempre di più gli scavi storici. Anche quelli abbastanza recenti (Cortesi, di Leo, Poggio), che al di là delle ottiche dei loro autori aiutano a ripensare (invece di cancellare come ha fatto buona parte della “sinistra comunista” italiana) l’intera storia dell’Urss dalla fondazione al crollo, dando spazio ai dubbi, a cui tengo molto, e alle interrogazioni a tutto campo. E proprio per «capire “il presente come storia”». In quest’ottica storica (non storicista), dovrebbe essere valutata anche la tua tesi: «la fine della guerra civile ha costituito non la conclusione del processo rivoluzionario, ma la sua ulteriore continuazione in direzione del socialismo e del comunismo». Se tu, però, fossi disposto a misurare il “presente” con i dati che queste ricerche (o altre a me sfuggite) hanno fatto finora emergere. Invece ho l’impressione che tu non abbia mai voluto confrontarti con i loro risultati (importanti e sempre discutibili: questo è altra questione), etichettandole sbrigativamente come «approccio a questa grandiosa vicenda storica […] superficiale, unilaterale e in definitiva opportunistico». E contrapponendovi una convinta e tetragona e giustificazionista interpretazione della storia dell’Urss “dal punto di vista di Stalin”, come se – ed è obiezione che ti avevo mosso in proposito già in passato su questo blog – quella storia si fosse fermata al 1953. Certo, in questo tuo intervento accenni alla « progressiva restaurazione del capitalismo in Urss» e al « dissolvimento dello Stato socialista». Ma come si spiega il passaggio dal periodo staliniano (con le sue luci ed ombre tutte da valutare per me), che a te appare di avanzamento della “rivoluzione proletaria” al crollo (di botto?) dell’Urss?
@ Abate
Caro Abate,
ti rispondo con la recensione del saggio di uno degli studiosi da te citati.
«Dagli anni cinquanta in poi, in occasione degli incontri internazionali, le facce popolari dei segretari generali del partito comunista sovietico…mostrarono agli occhi del mondo che la seconda potenza strategico-militare aveva al governo uomini che venivano dal popolo.» Così scrive Rita di Leo, studiosa dei paesi dell’Est e delle relazioni internazionali, nel terzo capitolo del suo recente saggio L’esperimento profano (Ediesse, Roma 2012, pp. 178, € 10,00), in cui analizza le cause del crollo dell’Unione Sovietica. Proprio perché rivela l’ottica (non solo sociologica e politologica ma anche) filosofico-storica dell’autrice, può allora essere opportuno partire, in prima battuta, dalla delucidazione del significato del titolo, chiarendo la differenza tra quei tentativi di rendere gli uomini felici sulla terra, passati alla storia come “sacri esperimenti” (tali furono, secondo la di Leo, le ‘reducciónes’ dei Gesuiti nel Paraguay e la fondazione di Filadelfia da parte del quacchero William Penn), e il tentativo nato dalla rivoluzione russa del 1917, che viene definito “profano” in quanto, diversamente dai precedenti, «slegato da Dio e da Cesare», ma soprattutto in quanto «il principio costitutivo» di tale esperimento «è il comunismo, la cui etica doveva sostituire il ricorso al potere statale, la leva dell’interesse economico e il sostegno della religione».
L’autrice, che è stata nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso un’esponente dell’operaismo, precisa che l’interesse per l’esperimento sovietico è stato il frutto di «una scelta politica, più da militante sconfitto che da studioso accademico». Ad ogni modo, i tre densi capitoli in cui si divide il saggio non si limitano a delineare la scansione della storia dell’esperimento sovietico in tre periodi (la sequenza dei titoli apposti a ciascun capitolo è quanto mai pregnante: «Iniziò con i filosofi-re», «Continuò con la gestione popolare», «Fallì con il mercato»), ma rivelano l’intento ambizioso di una sintesi, per l’appunto, filosofico-storica.
La tesi che innerva il saggio è imperniata gramscianamente sulla centralità della funzione degli intellettuali, che, giunta ad esprimere il suo massimo potenziale per opera dei bolscevichi (definiti, con espressione platonica, i “filosofi-re”), è stata sostituita dopo la morte di Lenin dall’“operaismo egualitarista” di Stalin (1924-1953) con un rovesciamento dell’asse delle alleanze rispetto a quell’incontro tra élite intellettuali e masse proletarie che aveva contribuito a rendere vittoriosa la rivoluzione e aveva poi garantito l’avvio dell’esperimento sovietico, e dopo la morte di Stalin dalla “gestione popolare” di Krusciov e di Breznev (1956-1984), sfociando infine nella liquidazione del “socialismo realizzato” da parte di Gorbaciov (1985-1991). Da questo punto di vista, la differenza tra Lenin e Stalin viene così individuata: «Al di là delle dichiarazioni ufficiali di continuità, Stalin si contrappose a Lenin nel puntare sulla capacità dei dirigenti provenienti dal popolo di rendersi autonomi dai dirigenti intellettuali». In termini generali, il processo che si è compiuto durante i tre quarti di secolo abbracciati dall’esperimento sovietico (1917-1991) – processo che, vale la pena di sottolinearlo soprattutto oggi, è semplicemente letale per le prospettive della sinistra – viene riassunto dalla di Leo con la seguente formula: progressiva sostituzione della politica-progetto con l’economia, ossia con il mercato. Il che significa, detto più esplicitamente, con la restaurazione (e la contestuale mondializzazione) dei rapporti di produzione capitalistici, laddove alla di Leo si può muovere l’appunto, a partire dal sottotitolo del saggio, Dal capitalismo al socialismo e viceversa, di non distinguere con la necessaria chiarezza fra la ‘transizione dal capitalismo al socialismo’ e il processo contrario, che non si configura come una ‘transizione’ invertita, dal socialismo al capitalismo, ma come la restaurazione, ‘tout court’, del capitalismo.
In termini specifici, analizzando rispettivamente il ruolo della classe operaia e degli intellettuali, è la stessa autrice a spiegare, citando un’intervista sulla fine dell’Urss da lei rilasciata nel 1992, le cause per cui la classe operaia sovietica non diventò il modello di riferimento per gli operai dei paesi capitalistici: «…gli operai al governo hanno fatto due cose. Innanzitutto, hanno cercato la sicurezza militare, e quindi hanno fortificato le difese dello Stato di cui loro erano dirigenti…questo obiettivo l’hanno raggiunto per ottanta anni. In secondo luogo, hanno dato a se stessi in quanto ceto dirigente i privilegi di cui hanno goduto tutti gli altri ceti dirigenti quando sono andati al potere…Qual è il privilegio che vuole l’operaio che va al potere? È il privilegio di lavorare poco e di dirigere e di autoregolamentare il processo di estrazione del proprio plusvalore…Questo gli operai sovietici lo hanno fatto e, proprio perché lo hanno fatto, stanno nei guai in cui stanno».
Per quanto riguarda gli intellettuali, l’autrice osserva che è in questo settore decisivo per l’egemonia che l’esperimento sovietico ha fatto registrare il limite più grande, poiché, dopo Lenin, nessuno dei suoi successori seppe impedire la saldatura di un blocco sempre più ostile all’esperimento sovietico e alla prospettiva della transizione al socialismo, che, in fasi diverse, arriverà a comprendere, oltre agli intellettuali di tipo tradizionale emarginati e schiacciati dalla dittatura del proletariato in quanto da sempre nemici irriducibili di quell’esperimento e di quella prospettiva, altri tre gruppi di intellettuali, che vengono distinti in “rivoluzionari di professione”, “politici della famiglia socialdemocratica” e “pianificatori”.
Un ultimo appunto che si può muovere a questo libro, piccolo ma importante, riguarda il pessimismo che aleggia nelle pagine, pur taglienti e rigorose, scritte dalla di Leo. Tale pessimismo spiega l’uso di un termine chiave che non a caso si incontra dappertutto nel linguaggio dell’ideologia dominante quando questa si riferisce all’“esperimento profano”: il termine ‘fallimento’. La stessa autrice del saggio reca non pochi argomenti utili a confutare la congruenza di questo termine che, se per un verso può apparire formalmente legittimo in rapporto con il termine ‘esperimento’, non è adatto per un altro verso, essendo semanticamente ipotecato da quel ‘primato dell’economia’ che viene giustamente contestato nel saggio, a designare l’esito di quel tentativo veramente grandioso. Può essere allora opportuno, non per contrapporlo al saggio in questione, ma per integrarne, approfondirne ed estenderne il raggio analitico e cognitivo, menzionare il libro di Hans Heinz Holz, Sconfitta e futuro del socialismo, risalente al 1994, che fin dal titolo usa, abbinandolo dialetticamente al termine ‘futuro’, l’unico termine che sia, alla luce del materialismo storico, corretto, cioè il termine ‘sconfitta’. Dunque, la transizione non ha invertito la sua direzione di marcia, bensì è stata interrotta e sconfitta, e il capitalismo è stato restaurato. Ma la storia delle lotte fra le classi, attraverso i continenti e le generazioni, continua. Quell’esperimento, ripreso, emendato, rafforzato e difeso, ha ancora un futuro.