cropped-Lookofthesilence.jpgdi Daniela Brogi

Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) (Alejandro G. Iñárritu), Usa
The Look of Silence (Joshua Oppenheimer), Danimarca, Finlandia, Indonesia, Norvegia, Gran Bretagna
La rançon de la gloire (Xavier Beauvois), Francia, Belgio, Svizzera
Ghesseha (Tales) (Rakhshan Banietemad), Iran
99 Homes (Ramin Bahrani), Usa
Anime nere (Francesco Munzi), Italia
3 Cœurs (Benoît Jacquot), Francia
Manglehorn (David Gordon Green), Usa
– Loin des hommes (David Oelhoffen), Francia
The Cut (Fatih Akin), Germania, Francia, Italia, Russia, Canada, Polonia, Turchia

A metà percorso, dopo la visione delle prime dieci opere in gara per il Premio Internazionale, i due film che per ora sembrano meritare più degli altri il Leone d’Oro sono The Look of Silence e Anime nere.

Il lavoro di Oppenheimer è un film documentario che fa parte di un progetto durato più di dieci anni, e segue e completa il precedente The Act of Killing (2012), prodotto tra gli altri da Werner Herzog e Errol Morris. Dopo il colpo di stato indonesiano del 1965 furono trucidate perché comuniste e pericolose per il regime più di un milione di persone. In The Act of Killing si mettevano dinanzi alla macchina da presa i responsabili di quel genocidio – sostenuto da un potere tuttora al governo – che spiegavano e inscenavano i modi di quel massacro. In The Look of Silence a testimoniare quella vicenda sono invece le vittime, cioè i sopravvissuti e i parenti. Il protagonista infatti è Adi, nato nel 1968, dopo la morte del fratello Ramli che fu usato dai carnefici come figura esemplare per spargere terrore e spaventare fino al silenzio la popolazione. Il film è uno sconcertante esperimento di creazione, anziché rappresentazione, di un’esperienza, perché Adi, che fa di professione l’optometrista, va per i villaggi, e, intanto che misura la vista, man mano che cambia le lenti chiede, interroga i capi degli squadroni della morte («se non bevevi sangue umano impazzivi»), domanda come adesso riguardino ai loro atti; parla con la madre, che non vuole dimenticare né perdonare; oppure assiste, muto, attraverso una tv che incornicia e delimita l’evento testimoniato, ai filmati in cui si spiega come sia stato macellato suo fratello. Il silenzio riempie e separa gli intervalli della memoria, esprime il trauma; e chiede, a chi è dentro come a chi è fuori dalla storia, di essere guardato.

Il secondo film ben avviato sulla strada di un riconoscimento è Anime nere, di Francesco Munzi – degli altri lavori italiani in concorso si parlerà nella prossima parte di queste cronache. Tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco, in ristampa, Anime nere è un film preparato con fatica e attenzione, sceneggiato con cura, costruito con molto lavoro. È la storia di una famiglia criminale calabrese, una storia di ‛ndràngheta guardata con serietà: per questa ragione è dislocata dagli scenari più convenzionali, tant’è vero che la sequenza d’avvio di Anime nere si svolge ad Amsterdam, per spostarsi poi a Milano, e solo successivamente arrivare tra le pendici dell’Aspromonte. Questo dinamismo narrativo serve anzitutto a mostrare l’efficienza e il lungo raggio del potere mafioso: senza spiegarlo, ma mostrandolo appunto attraverso i luoghi; ma serve anche a costruire attriti efficaci tra i possibili immaginari di partenza e di arrivo delle organizzazioni criminali mafiose: da una parte c’è il mondo arcaico legato al paese, alla cultura dell’onore, del rispetto, della vendetta; e dall’altra parte, e insieme, l’immaginario legato al lusso altoborghese, oppure al trash del consumismo televisivo. Come già era accaduto nei due lavori precedenti, Saimir (2004) e Il resto della notte (2008), anche Anime nere mette assieme culture diverse e lontane per lavorare sui conflitti scatenati da questo incontro.

«Chi ti credi di essere, il Padre Eterno?» urla uno dei protagonisti del film di Munzi al fratello. Questa domanda può essere usata come filo che unisce molti dei film di Venezia 71, così pieni di padri in crisi, mentre le madri sono assenti, messe ai margini delle scelte, oppure sono pazze: come se l’immaginario contemporaneo faticasse a produrre o accettare modelli di determinazione femminile non perturbanti (ma una parziale eccezione si è vista, fuori concorso: la miniserie tv Olive Kitteridge, interpretata da Frances McDormand). È come se i dubbi attorno ai significati e al valore della paternità fossero uno dei procedimenti metaforici più ricorrenti, talvolta esclusivi, attraverso i quali mettere in scena la crisi delle identità maschili tradizionali. E così si è visto un film molto scontato e del tutto privo di ironia come Manglehorn, interpretato da Al Pacino, nel ruolo di un vecchio padre egoista che preferisce passare la vita a preoccuparsi di un gatto e a scrivere lettere a una destinataria fantasma.O lo stesso film di apertura, Birdman diretto dal messicano Iñárritu (Babel, 2006; Biutiful, 2010): un film che in una nervosa successione di piani sequenza narra di un’ex celebrità, famosa negli anni Novanta come “Birdman”, l’uomo dai superpoteri (: Michael Keaton, protagonista di Batman di Burton). Insoddisfatto della propria carriera pubblica e privata, Riggan cerca di ottenere successo e riconoscimento affrancandosi dalla «buona vecchia pornografia apocalittica di sangue e adrenalina» dei blockbusters per riciclarsi come attore e regista dell’adattamento teatrale di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, di Carver. Ma i nuovi codici della popolarità digitale smentiscono ogni illusione di controllo individuale: nessuna performance teatrale regge il confronto con una camminata in mutande per le strade di New York, che può immediatamente ottenere decine di migliaia di follower su Twitter.

Uscendo da Broadway, parlare delle difficoltà legate al sé, o all’amore, può voler dire raccontare intanto anche il tessuto sociale e politico di un paese, come avviene nel film realizzato da una delle più importanti registe iraniane, Rakhshan Banietemad, unica donna in concorso.  Ghesseha (Tales) è formato da segmenti di storie d’amore (per un’altra persona, per un figlio in carcere, per il lavoro, per il cinema, per il proprio paese, anche per un mondo patriarcale che non si è più capaci di sostenere) e che si incrociano rapidamente al ritmo degli “short cuts”. (Un’altra importante regista iraniana, Mahnaz Mohammadi, era stata nominata nella giuria ma è assente, perché arrestata a giugno, per la quarta volta, e condannata a cinque anni di prigione per il reato di propaganda contro il governo).

Ma non necessariamente bisogna allontarsi dall’Occidente per incontrare storie più vicine alla realtà, magari ai poveri veri: gli homeless, non nel senso delle ridicole espressioni figurate con cui di solito si traduce la parola (“barboni”, “vagabondi” “senzatetto”), ma nel senso letterale di “senza casa”, come in America è accaduto e può accadere da un momento all’altro a migliaia di famiglie che hanno perduto il lavoro con un mutuo da pagare («l’America non fa credito ai perdenti»). Una volta notificato lo sfratto, il rappresentante della banca e lo sceriffo suonano alla porta, entrano in casa, e ti concedono i “due minuti di cortesia” per prendere i documenti e gli oggetti preziosi, consegnare le chiavi, e attendere che in poche ore tutto quello che possiedi sia messo sul marciapiede ai bordi della strada. In uno dei film statunitensi più interessanti: 99 Homes, girato dal regista indipendente Ramin Bahrani (Goodbye Solo, 2008), Dennis Nash (Andrew Garfield) è un operaio disoccupato con figlio e madre a carico. Mescolando i ritmi veloci del gangster movie con movimenti di macchina che, soprattutto nella prima parte, aderiscono alla scena creando l’effetto della presa diretta, il film incolla lo spettatore all’azione, per fargli sperimentare come questa condizione di emergenza e disperazione assoluta produca un’evoluzione del personaggio, che pur di tornare in possesso della propria casa sarà disposto a lavorare per il suo nemico, cioè colui che ha reso esecutivo lo sfratto: Rick Carver (Michael Shannon), un cinico e corrotto agente immobiliare che ripulisce le comunità («loro le case le costruiscono, io le possiedo»; «hanno tutti una storia strappalacrime»). Nell’ultima parte, purtroppo, tutto diventa molto didascalico, e la tensione si riconverte in una piega buonista e riconciliatoria troppo scontata.

Anche La rançon de la gloire parla di povertà, ma con risultati meno convincenti – e che lasciano ancora più perplessi se si tiene presente l’altro bel film del 2010 di Beauvois: Des hommes et des dieux (Uomini di Dio).Il film recupera la vicenda realmente accaduta del trafugamento ai fini di riscatto della salma di Charlie Chaplin – morto il giorno di Natale del 1977. E racconta la storia, interpretata da un ladruncolo belga e da un immigrato algerino, come se fosse il soggetto di un film di Charlot. Uno dei due interpreti, l’attore belga Benoît Poelvoorde, è presente anche nel film 3 Coeurs, che tratta la vicenda di due sorelle che si innamorano del medesimo uomo, ed è uno dei film peggiori: come se tra l’intenzione di recuperare un immaginario melodrammatico e la capacità effettiva di gestire questo progetto ci fossero dei fili troppo tenui; non sempre, di conseguenza, si capisce se questa evanescenza di maniera sia troppo ingenua o troppo compiaciuta(è il caso di fare un esempio: la  vicenda della presunta evasione fiscale del sindaco è prima inserita e più tardi abbandonata senza alcuna ragione narrativa).

È molto bravo Viggo Mortensen nella parte del protagonista di Loin des hommes, che narra la storia di Daru, un ex soldato di origini spagnole nato in Algeria, all’epoca del dominio francese, che ha messo su una scuola per la popolazione locale– siamo nel 1954. Un gendarme un po’ ottuso (è italiano e si chiama Balducci) gli trasmette l’ordine di scortare Mohamed, colpevole di aver ucciso il cugino, per condurlo in una cittadina non lontana per essere regolarmente processato. La famiglia della vittima lo cerca per vendicarsi e ucciderlo. Per interrompere la catena dell’odio («se i miei cugini mi uccidono, i miei fratelli dovranno vendicarmi: sono piccoli»), Mohamed supplica Daru di accompagnarlo. I campi lunghi sulle montagne algerine dell’Atlante sono affascinanti; il regista ha dichiarato che, sin da quando ha letto per la prima volta il racconto di Camus L’hôte, ha immaginato di realizzarne un film western, che mettesse in scena la collisione tra due mondi e due culture. La prima premessa è pienamente realizzata, e conferma tra l’altro la giusta collocazione del film tra le opere in concorso: il cinema è anche, lo è stata fin dagli esordi, arte dell’illusione, espressione del potere di rapirci attraverso il sogno e l’avventura. Sulla seconda premessa invece nascono molti dubbi: qui l’esistenzialismo c’entra poco, e più che l’incontro tra due culture sembra confermarsi un immaginario colonialista che non lascia mai dubbi su quali debbano essere i rapporti di forza regolati dal dominio in nome della civiltà: le prime parole con cui Mohamed entra in scena, rivolgendosi a Daru dopo un lungo silenzio, sono «ti ringrazio»; appena i guerriglieri incontrano Daru uno di loro lo riconosce al grido di «Comandante, cosa fai qui?». Insomma, l’altro resta il subalterno a cui donare persino una donna per il primo rapporto sessuale. Convince molto di più, allora, nel senso dell’impegno a far entrare una storia altra dentro lo sguardo e le categorie occidentali, The Cut. Alla conferenza stampa era presente anche Mardik Martin, famoso sceneggiatore di Scorsese (New York, New York, per esempio); Martin è di origini armene (emigrato in America dall’Iraq) e ha scritto The Cut assieme al regista – tedesco di origini turche. Pare che quando stava per prendere la decisione di sterminare gli ebrei – ha raccontato Martin – Hitler avesse detto: «se lo hanno fatto i turchi con gli armeni, durante la prima guerra mondiale, lo possiamo fare anche noi». Che sia vero o no, resta il dato di fatto di un genocidio (1915) rimasto pressoché invisibile negli archivi della memoria occidentale e turca. The Cut ha inteso riempire quel vuoto, ed è interessante che per farlo abbia scelto di usare categorie narrative occidentali, nel senso che il film è realizzato come un kolossal alla maniera di Bertolucci dell’Ultimo imperatore, e mette in scena, attraverso un grande affresco epico, l’avventurosa odissea del giovane fabbro Nazaret, abitante di Mardin, nel sudest della Turchia, separato dalla propria famiglia, poi sterminata dai turchi, che riuscirà a ritrovare la figlia nove anni più tardi, in America. [La seconda parte di questa rassegna sui film in concorso e i premi di “Venezia 71” si può leggere qui]

[Immagine: The Look of Silence, di Joshua Oppenheimer (dbr)].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *