cropped-I-fratelli-Enoch-e-Mario-Balotelli.jpegdi Matteo Di Gesù

[Questo articolo è uscito sul «Sole 24 Ore»]

La persistenza tenace e l’ostinata immobilità della cornice discorsiva nella quale è inscritta una certa nozione di ‘Italia’ (alludo a quella rimasticata nel discorso pubblico, rabberciata nelle retoriche dell’establishment politico, incistata nel senso comune più vieto) sembrerebbe smentire, paradossalmente, proprio uno dei luoghi comuni più frequentati a proposito del carattere nazionale: la presunta debolezza costitutiva dell’identità italiana, la fragilità esiziale dell’idea condivisa di Paese. È sorprendente constatare (basta una ricognizione empirica, anche estemporanea) come si mantenga invece solida e robusta una certa immagine (per quanto sia sempre più vaga, incerta, pleonastica) dell’Italia e degli italiani, a dispetto di trasformazioni che, nel corso degli ultimi decenni, hanno profondamente modificato il tessuto e le dinamiche sociali, le relazioni pubbliche, gli spazi urbani, i paesaggi, ma anche lo stesso immaginario, la lingua, la cultura. L’Italia è diventata una nazione multiculturale a sua insaputa, per dirne una, mentre ancora ci si trastulla con gli scampoli delle sue presunte prerogative identitarie: ultimo, inamovibile totem che campeggia su un immaginario comune sempre più desolato.

Si tratta, a ben vedere, di un corto circuito esemplare tra le falle nella grande (in senso quantitativo) storia culturale dell’Italia moderna, nella storia che ci siamo raccontati, davvero per un tempo troppo prolungato (la lunga durata delle incrostazioni di certo storicismo d’accatto, che continua a effondere le sue tossine, è un fenomeno da consegnare ai geologi piuttosto che agli storici della cultura) e le piccole, criminali mediocrità delle classi dirigenti e dei protagonisti del dibattito pubblico. In altre parole, se la legislazione italiana su questioni come immigrazione, integrazione, cittadinanza è di fatto ferma, incredibilmente, alla pessima legge Bossi-Fini del 2002; o se a proposito delle performance del calciatore Balotelli o delle vicende di Karima el Mahroug alias Ruby capita di leggere, nel 2014, commenti di costume che paiono poco più che palinsesti di fogli ottocenteschi, quanto a truismi velatamente razzistici (la giovane orientale ammaliatrice, il nero africano non ancora ‘civilizzato’…), la ragione è da far risalire anche alle rimozioni che sono state prodotte sulla narrazione della nostra storia nazionale: un racconto omissivo non solo delle nostre responsabilità di colonialisti o dei nostri crimini razziali (questione ormai acquisita in sede storiografica), ma anche, per fare alcuni esempi, dell’impronta grevemente nazionalistica di tanta letteratura moderna, o della codificazione culturale di una whiteness italiana che dall’unità, passando dal fascismo, persiste nei codici simbolici della pubblicità e della cultura di massa, o perfino delle logiche egemoniche implicate nella cartografia geografica moderna, intesa come dispositivo di potere.

Il merito più grande di alcune ricerche condotte negli ultimi anni, genericamente rubricabili sotto l’egida degli studi coloniali, postcoloniali e di genere, il cui esito è stato pubblicato in alcuni volumi collettanei stampati recentemente, è sicuramente quello di avere incrinato il frame del discorso identitario nazionale; o meglio, di avere avviato la costruzione di un più complesso, problematico e attuale paradigma con il quale indagare e descrivere i processi culturali che sovrintendono la rappresentazione e l’autorappresentazione della nazione contemporanea e le loro implicazioni politiche. L’Italia postcoloniale, a cura di Cristina Lombardi Diop e Caterina Romeo, (Le Monnier, 2014) propone, nella sua prima sezione, una sistematizzazione teorica del postcoloniale italiano, dopo i lavori antesignani di Sandro Mezzadra, e una articolata serie di studi su singoli casi nella seconda parte del volume (sul razzialismo nell’italia postunitaria; sulla persistenza della simbologia imperiale e coloniale in documenti eterogenei; sulle estetiche della produzione culturale dei «nuovi italiani»). Costruire una nazione. Politiche, discorsi e rappresentazioni che hanno fatto l’Italia, a cura di Silvia Aru e Valeria Deplano (Ombre corte, 2013) è anch’esso un lavoro collettivo che indaga, con dichiarato (e talvolta affettato) approccio metodologico foucoltiano (biopolitica, ordine discorsivo, dinamiche sapere-potere…) alcuni momenti della codificazione dell’immagine dell’Italia (o meglio delle diverse, stratificate, elaborazioni politico-simboliche di questa immagine): le carte geografiche, le celebrazioni per il centocinquantenario, le politiche sanitarie del primo dopoguerra, la propaganda sulle bonifiche del 1932, la “questione energetica” come questione nazionale, il mito del boom economico, le politiche coloniali fasciste, la rappresentazione mediatica dei discorsi politici, le rappresentazioni di genere nella pubblicità. Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, di Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop (Le Monnier, 2013) è invece una ricerca organica e sistematica, di grande interesse anche per la sua originalità, condotta dalla coppia di studiose sulla storia culturale e politica dell’identità razziale dal periodo dell’unificazione nazionale agli anni Sessanta del Novecento, che ha il merito di proporsi anche come uno strumento indispensabile per comprendere i retaggi e le origini del razzismo odierno.

Se non sarà sufficiente ad abbattere il totem identitario, familiarizzare finalmente con concetti come deterritorializzazione, transnazionalismo, razzialismo, forse potrà aiutarci a rinnovare, diversificare e arricchire il panorama spoglio dell’immaginario comune contemporaneo. E a renderlo più inclusivo.

Cristina Lombardi Diop, Caterina Romeo (a cura di), L’Italia postcoloniale, Le Monnier 2014.

Silvia Aru, Valeria Deplano (a cura di), Costruire una nazione. Politiche, discorsi e rappresentazioni che hanno fatto l’Italia, Ombre corte 2013.

Gaia Giuliani, Cristina Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Le Monnier 2013.

[Immagine: Enoch Barwuah e Mario Balotelli].

3 thoughts on “L’Italia postcoloniale

  1. Salve, mi chiedo se non sia il caso di guardare al rapporto tra linguaggio che si sceglie di usare e contenuti (così interessanti) che si vuole veicolare. Si potrebbero scoprire delle contraddizioni non sanabili!
    Libri all’insegna de “Il bravo italiano e(‘) il cattivo tedesco”; mi chiedo quale sia il peso del ruolo della donna italiana in questo.

  2. “L’Italia è diventata una nazione multiculturale a sua insaputa, per dirne una, mentre ancora ci si trastulla con gli scampoli delle sue presunte prerogative identitarie”

    Che poi ci si dovrebbe chiedere quando ha iniziato a diventare multiculturale, l’italia è stata passata al controllo di un bel po’ di potenze straniere dall’Austria alla Francia alla Spagna e mi risultava fosse multiculturale già ai tempi dell’Impero romano… E mi pare che questo

    E per quanto riguarda la presenza e la quantità di un’identità unitaria tra gli italiani negli ultimi decenni nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, forse qualcuno non si rende conto che paradossalmente se la maggior parte degli italiani di oggi riesce a comprendere e parlare la lingua italiana e non solo il dialetto locale, questo è dovuto, che ci piaccia o no, molto più a Mike Bongiorno presente alla tv che a Dante e a Manzoni nelle scuole. Che poi peraltro ci si scorda spesso che le identità esistono solo in quanto relazioni e interazioni con le altre e quindi di fatto non si capisce nulla della storia e della letteratura italiana se non conoscendo anche le letterature e storie “altre”. A me sembra che i propositori di identità chiuse e intolleranti verso l’altro siano paradossalmente i più ostili all’identità italiana come gli indipendentisti leghisti e veneti e simili (ma non dovremmo preoccuparci più di tanto di loro, non li hanno messo in galera per il simil-carro armato a San Marco, l’identità italiana ha una salute tale da non dover essere difesa con mezzi straordinari). Insomma, non conoscere gli altri non può che portare a non conoscere noi stessi.

  3. Per la cronaca, nel mio intervento di prima la parte in cui dicevo “E mi pare che questo” volevo concluderla con “E mi pare che questo faccia comprendere quanto visioni razziste e intolleranti non siano parti della tradizione italiana”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *