cropped-Stefano-Cerio-Aquapark-Aquapiper-1-Roma-20101.jpegdi Raffaele Donnarumma

[Una prima versione di questo intervento è uscita su «Allegoria»]

Fra i capitoli della discussione sulla fine del postmoderno e il cosiddetto ‘ritorno alla realtà’ c’è stato pure quello intorno a Fame di realtà (2010) di David Shields (ci ritorna ora, opportunamente, Raffaello Palumbo Mosca nel suo recente L’invenzione del vero). Dopo appena quattro anni, sembra che – come capita sempre più spesso – di quel libro non sia rimasto poi molto. E dire che di questioni importanti, e magari anche un po’ massimaliste, sulla letteratura di oggi ne affrontava parecchie: il destino del romanzo, i rapporti tra fiction e non fiction, l’imporsi di nuovi generi quali il memoir o il lyric essay, il futuro del diritto e dell’idea di autore. Coetzee e altri si erano detti entusiasti. Sarà. Rileggere questo «manifesto»può essere come dover ascoltare il Parsifal trascritto per suoneria di cellulare: s’intuisce che, dietro e lontano, c’è qualcosa di grosso, ma l’istinto è far volare il telefonino fuori dalla finestra.

Shields ha scelto la forma dell’aforisma, che è tanto rischiosa quanto la barzelletta – e non solo per chi non sia buono a raccontarne. C’è poco da scandalizzarsi perché il libro è quasi per intero un collage di citazioni più o meno manipolate: quello che porta allo scoramento è che, in questa bacioperuginizzazione del pensiero, Shields fa sembrare sciapo Nabokov, conformista Benjamin, fatuo Nietzsche. Non mancano oracoli di una Pizia forzata alle nozze con Lapalisse e storicismi da cartone animato; e per fortuna non mancano neppure idee intelligenti, soprattutto sulla tv, sul remix e sul web: perdute, però, in una portaportese della critica. Il gioco ironico di accatastare massime perentorie in esibita contraddizione funzionerebbe se fosse spinto a un nichilismo flaubertiano. Ma Shields, il cui stile a volte abborracciato è reso ancora meno perspicuo dalla traduzione, crede pure di avere delle idee sue – che non sono meno ricevute di quelle di cui autodenuncia il furto.

Cos’è, insomma, la fame di realtà? Ebbene sì: il desiderio di qualcosa di saldo e concreto contro la virtualità istituzionalizzata. Peccato, però, che la realtà sia «già di per sé sempre finzione»; così che anche la contrapposizione tra fiction e non fiction è dichiarata allegramente inutile e falsa, salvo agitarla una pagina su due. Shields è un postmoderno: rivela suo malgrado che il mito della realtà può anche essere uno spot in mala fede, o una reazione allucinatoria. Più che registrare alcune aporie evidenti (per esempio, il carattere costruito o addirittura menzognero di certi memoir, e la loro parentela con il reality), non fa. Come potrebbe, se crede che il linguaggio stesso, per sua natura, riduca tutto a finzione? Quanto all’enfasi sulla natura citazionistica o plagiaria della scrittura, sull’arte come combinazione e sull’«è già stato detto tutto», davvero, basta: dopo decenni di peana all’intertestualità (i cui guru strutturalisti e poststrutturalisti, stranamente, qui sono passati sotto silenzio), l’abbiamo capita, e non ne possiamo più. Che fondamento dare, allora, all’insofferenza per il romanzo e la sua indimostrata usura? Questa banalizzazione delle polemiche moderniste e avanguardistiche contro la trama e il personaggio non è fuori tempo? Oppure dobbiamo sciropparci la solita solfa del romanzo corruttore, in quanto emissario di quelle potenze demoniache che sono l’Industria editoriale e il Mercato? Ce li ha mai avuti tra le mani, Shields, Roth o Littell o Bolaño? E come può rivendicare un’«arte basata sulla realtà», se tanto è tutto fiction? Smussati gli attriti tra fatti e immaginario, cosa ha da dirci quell’autofiction intorno alla quale Shields gira senza nominarla mai? Perché la non finzionalità e l’antinarratività dovrebbero essere un valore? Ci si può accontentare di un semplice effetto di «inartisticità» perché è «più eccitante»?

 Fame di realtà è vistosamente in controdentenza rispetto ai tanti che, da decenni, hanno promosso la narratività a modo di pensiero e forma decisiva dell’esperienza, ma molto up to date quando si imprigiona nella gabbia dell’alternativa fiction/non fiction, ne vuole evadere e resta fermo al palo per troppa affezione ai soliti idoli postmoderni. E sarebbe questa «una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicate negli ultimi anni» (Salis)? Questo un libro warholiano, una modello di lyric essay? A pensarci, verrebbe da rivalutare la nostra sana, casereccia e ruspante New Italian Epic.

 [Immagine: Stefano Cerio, Aquapark (gm)]

8 thoughts on “Massime al minimo. Fame di realtà di David Shields

  1. Solo per dire che ho comprato il tuo libro stramegamoderno.

    Ps

    e lascia stare la NIE

    pps (se Enrico Macioci legge)

    Di cos’hai paura? Stupefacente

  2. Non sei tu l’autore che sostiene di aver scritto un certo romanzo? La dissoluzione eccetera? Se non sei tu scusami. Se il vero autore legge gli voglio dire brv grnd spttclr! Mo’ la smetto di fare il bimbominkia

  3. Cioè, effettivamente ora mi è venuto il sospetto che hanno scritto un romanzo a tua insaputa, o a insaputa di qualcuno

    Chiedo scusa a colui o colei che è costrett@ a leggermi e a sbloccarmi i commenti, a meno che non sia una pratica automatica, nel qual caso chiedo scusa comunque.

  4. @ DFW vs RB
    Ma tu citavi il vecchio San G! Pensa te che non l’avevo mica capito, davvero. O forse davvero non l’ho scritto io :-)

    ps: se ti sta piacendo mi fa piacere…

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