di Massimo De Carolis

L’esito della manifestazione del 15 ottobre, con l’avvilente ma prevedibile spaccatura tra una maggioranza pacifista e una minoranza militarizzata, dovrebbe spingerci a riproporre un interrogativo che, nella sinistra radicale, è in sospeso da almeno quarant’anni. L’interrogativo è: in che cosa consiste, o può consistere, una politica extra-parlamentare? Con questa espressione non intendo semplicemente una prassi politica situata al di fuori delle aule parlamentari, come possono esserlo una manifestazione, uno sciopero o un’assemblea sindacale. Espressioni politiche di questo genere sono previste anche in un quadro del tutto tradizionale. Si tratta però, in questi casi, di iniziative politiche che affiancano e sostengono la prassi parlamentare, sul presupposto più o meno esplicito che la parola decisiva spetti comunque, alla fine, alla dialettica tra i partiti e alle alternanze di governo. Viceversa, una politica extraparlamentare in senso stretto è definita dalla convinzione programmatica che il nocciolo della decisione politica sia tale da non poter essere affatto demandato alla dinamica parlamentare – almeno in una certa situazione data – non per un qualche accidente passeggero, ma per i limiti intrinseci della democrazia rappresentativa; che, quindi, la mobilitazione diretta dei singoli non vada intesa come segnale o stimolo, ma come alternativa pura e semplice all’azione dei loro presunti rappresentanti.

Ora, per tornare alla manifestazione del 15, credo che sulla necessità di un’azione extra-parlamentare intesa in questo senso stretto fossero d’accordo tutti i partecipanti, sia i “buoni” che i “cattivi”. Per di più, in una fase di crisi della rappresentanza così acuta come quella dell’attuale governo Scilipoti, c’è da supporre che una tale necessità sia condivisa, nel profondo, da ampie fasce della società civile, compresi settori e soggetti decisamente estranei a suggestioni rivoluzionarie. Il problema cruciale, però, è che – almeno nella cultura politica italiana – si direbbe che una prassi politica extra-parlamentare non disponga che di un unico modello, destinato a riproporsi puntualmente, intatto e immutabile, quali che siano le circostanze e le trasformazioni della storia. Detto in breve, è il modello dell’insurrezione, articolato nei tre movimenti classici della rivolta armata, lo scontro militare, la presa del potere.

Per capirci, facciamo un passo indietro di qualche decennio e torniamo alla sinistra extra-parlamentare per antonomasia: quella dei gruppi come Lotta continua o Avanguardia operaia che vissero la loro breve ma intensa stagione a ridosso dei movimenti degli anni Settanta. Qui il termine “extra-parlamentare” è più o meno sinonimo di “rivoluzionario”, e in questa forma viene declinato dalle tante organizzazioni che si candidano a sostituire il Pci alla testa delle masse, con l’esplicito programma di guidarne la rivolta. Basta poco, oggi, per capire che uno schema così semplicistico ignorava praticamente tutto ciò che di veramente nuovo e duraturo i movimenti avessero prodotto in quel decennio. Di sicuro l’antiautoritarismo, le battaglie civili sul divorzio e l’aborto, il rifiuto del lavoro salariato o il femminismo furono, senza eccezioni, pratiche extraparlamentari in senso stretto, situate immediatamente sul terreno della vita individuale, dove non è previsto un meccanismo di rappresentanza. Ma queste politiche della vita avevano ben poco a che fare col vecchio canovaccio della presa del potere. Resta il fatto che fu quel canovaccio, riduttivo fino alla parodia, quello con cui le componenti organizzate del movimento scelsero di raccontarsi. Di qui, qualche anno dopo, la loro incapacità di contrastare il partito della P38, che in fondo si limitava a voler realizzare nei fatti, con stolida coerenza, quella rivolta armata che gli altri avevano invocato a parole per quasi dieci anni.

Tornando ora al presente, nella speranza che non si riproduca il medesimo stallo, è il caso intanto di osservare che il discrimine davvero decisivo, nei movimenti di questi anni, non è il tema della violenza in quanto tale, e che la distinzione cara ai media tra i bravi ragazzi e i cattivi teppisti aiuta poco a chiarire le cose. La simpatia generale per la primavera araba non è certo turbata dall’ovvietà che, in molti casi, i manifestanti fossero armati, e un paio di bancomat presi a bastonate non sarebbero una tragedia, se questo servisse davvero a mitigare le disuguaglianze indotte dalla crisi. Il problema con i black bloc, insomma, non è il fatto che siano cattivi, ma il fatto che hanno torto. E hanno torto per due ordini di motivi: perché, oggi più che mai, la loro idea di insurrezione è un modello del tutto inadeguato alla realtà dei movimenti; e perché si tratta di un modello semplicemente perdente. È inadeguato, in primo luogo, perché la democrazia e il pluralismo sono oggi le istanze basilari della politica extraparlamentare: a spingere gli indignati nelle piazze non è la diffidenza verso questi principi politici moderni ma, al contrario, la volontà di imporne una realizzazione piena, senza trucchi e compromessi. E l’esperienza insegna che democrazia e pluralismo sono poco compatibili con il rigore militare di una guerra civile, in cui un minimo dissenso può bastare a fare di un alleato un nemico. E si tratta di un modello perdente perché, come si diceva un tempo, per fare una rivoluzione occorre un partito rivoluzionario. Si prendano due esempi opposti come la rivoluzione russa e quella iraniana. In entrambi i casi, nelle fasi iniziali dell’insurrezione, bolscevichi e kohmeinisti erano solo una minoranza ben organizzata. A spianargli la strada del potere fu il fatto che entrambi, a torto o a ragione, avessero fin da principio un’idea assolutamente chiara del tipo di stato che intendevano costruire.

Si immagini ora di porre a un nerovestito nostrano la fatidica domanda sul “che fare”: arrestare il processo di unificazione europea o rilanciarlo sul piano politico? Facilitare l’accesso al credito o lasciar fallire le banche? Nazionalizzare o liberalizzare? Non avrebbe risposte, come non ne abbiamo noi. L’incertezza diffusa, in questa fase, non è nemmeno necessariamente un fattore negativo: può essere un elemento di vitalità e una sfida all’immaginazione. In ogni caso, è incompatibile con il modello rivoluzionario di altri tempi. Se mai le proteste di piazza arrivassero, in Grecia o in Italia, ad abbattere la democrazia parlamentare (cosa non impossibile, data la fragilità delle istituzioni) non sarebbero i duri del movimento a trarne beneficio, ma qualche soggetto politico più sbrigativo, il cui primo impegno sarebbe di liquidare loro e noi. In Italia, si sa, i candidati non mancano.

Veniamo allora, finalmente, alla domanda di partenza: che cosa può essere una politica extra-parlamentare che non voglia ripetere fuori tempo massimo il copione dell’insurrezione? L’unico altro modello disponibile, per quanto ne so, è quello della disobbedienza civile, che ha ispirato a suo tempo la rivolta contro la guerra in Vietnam e, successivamente, tutti i movimenti per la pace o per la difesa dell’ambiente. In questi casi una norma dello Stato è apertamente trasgredita, perché si ritiene che essa violi i principi generali su cui è basato il vivere civile. Si capisce che, in questa forma classica, questo tipo di prassi è plausibile solo in casi estremi, quando ha senso il richiamo a una “giustizia superiore”. C’è un aspetto, però, di questo modello che ha una portata molto più generale: il fatto cioè che si intervenga in modo circoscritto su un singolo tema politico e che, in questa dimensione circoscritta, si sospenda, letteralmente, la norma ufficiale, per sostituirla con una regolamentazione alternativa che entra in vigore di fatto. La protesta, insomma, diventa immediatamente iniziativa. È una descrizione che si adatta bene, credo, a tutte le iniziative politiche davvero innovative di questi anni. Si prenda il caso, recentissimo, dell’occupazione del teatro Valle. La sfida o il paradosso, in questo caso, è che l’unica realtà teatrale di ricerca, in tutta Roma, si stia realizzando non con il contributo di una legge o di un decreto, ma attraverso la loro sospensione. Non si è “preso” il potere, insomma: se ne è esibita la vacuità.

Nessuno, oggi, è in grado di sapere se una prassi extra-parlamentare di questo genere potrà davvero rispondere alle sfide dettate dalla crisi. Non sarà, in ogni caso, né una passeggiata né un pranzo di gala. Di sicuro, però, avremo tante più probabilità di successo quanto più in fretta ci libereremo delle scorie e dei fantasmi del passato.

[già pubblicato su «il manifesto», 22.10.2011]

10 thoughts on “La disobbedienza, non l’insurrezione

  1. Bello e anche condivisibile. Resta la domanda: è possibile una politica extraparlamentare della disobbedienza civile in Italia oggi?

  2. La domanda di R. Genovese induce a riflessioni molteplici. Quel che è certo, a mio avviso, è che una politica extraparlamentare per L’Italia d’oggi è una necessità sine qua non. La democrazia non può più essere data, al momento, per vie parlamentari. E questo non vale solo per ciò che è “parlamentare”, ma anche perciò che è “istituzionale” in genere. Il futuro sta in una volontà extraistituzionale delle menti.

  3. DISOBBEDIENZA CIVILE COME ESORCISMA
    Alcune obiezioni a Massimo De Carolis

    1. «In che cosa consiste, o può consistere, una politica extra-parlamentare?» (De Carolis). Mi pare una domanda retorica, di quelle coi paraocchi e con la soluzione già predisposta e indiscutibile. Non tiene conto, infatti, che la politica (“vera”) – e non da oggi e anche nei paesi democratici – NON SI FA nei parlamenti. Viene cucinata altrove (non sempre nelle cucine istituzionali) e, a voler essere generosi, nei parlamenti transita già precotta e corrotta. Come può, allora, uno che si dichiara consapevole dei «limiti intrinseci della democrazia rappresentativa», indicare come bersaglio un parlamentarismo esangue e insignificante. (E poi i giovani scesi in piazza a Roma il 15 ottobre si autodefinirebbero “extraparlamentari”?).

    2. Mi pare unilaterale imputare il fallimento delle politiche dei “gruppi extraparlamentari” degli anni Settanta al «modello dell’insurrezione, articolato nei tre movimenti classici della rivolta armata, lo scontro militare, la presa del potere». Se questo modello (leninista, ma Lenin non è riducibile solo a padre “demoniaco” di tale modello…), allora ripreso ad es. da Avanguardia Operaia, non funzionò, non si può dire che funzionò l’altro, quello luxemburghiano, a cui si rifece Lotta Continua nella prima fase della sua storia .

    3. Accusare il «modello dell’insurrezione» di essere «semplicistico» o sostenere che le sue versioni “extraparlamentari” degli anni Settanta ignorassero « tutto ciò che di veramente nuovo e duraturo i movimenti avessero prodotto in quel decennio» significa leggere la storia e quella storia con troppo senno di poi e dal punto di vista delle cosiddette «politiche della vita» a cui va oggi la propria adesione. L’esplosione del ’68-’69 aveva fatto emergere un magma incomposto di bisogni, in precedenza ignorati o soffocati. Allora le cosiddette «politiche della vita» non esistevano; e non potevano realisticamente essere (non so neppure se lo potranno essere in futuro, se non si realizzano certe condizioni) un baricentro “alternativo” alla cosiddetta «centralità operaia», allora ritenuta da tutti – a torto o a ragione (problema enorme stabilirlo…) – canonica. «Politiche della vita» serie non ci sono neppure oggi, che i leninismi, considerati loro ottusi censori, sono stati seppelliti e non impediscono più un bel nulla. Ad impedirle semmai – allora e oggi – è l’incombente e sempre poco decifrabile dominio delle politiche capitalistiche, che non sono state scalzate né dai discorsi sulla “rivoluzione” degli anni Settanta né da quelli odierni sulle «politiche della vita». Non vanno assolti gli errori degli “extraparlamentari” di allora. E’ innegabile che ci fu anche «parodia» degli avanguardismi del primo Novecento, ma la spinta organizzativa anticapitalistica e massiccia espressa in quegli anni oggi ce la sogniamo. Aggiungerei che non fu quel «canovaccio» a impedire di fermare «il partito della P38». Semmai fu il suo abbandono o l’incapacità o l’impossibilità di svolgerlo più a fondo – con coerenza, immaginazione e coraggio – a dare poi (col concorso di responsabilità ben più enormi soprattutto da parte del PCI) la stura al vaso di pandora dei pentitismi, delle parodie, dei ritorni al privato, del lottarmatismo cieco e della «crisi della ragione».

    4. L’esperienza storica «insegna che democrazia e pluralismo sono poco compatibili con il rigore militare di una guerra civile, in cui un minimo dissenso può bastare a fare di un alleato un nemico» , ma non dimostra che democrazia e pluralismo si ottengono per evoluzione naturale, graduale dei movimenti. Qui il rompicapo irrisolto, che risale alla polemica tra Lenin e Rosa Luxemburg. Non pensavano e volevano entrambi il comunismo appunto come «realizzazione piena, senza trucchi e compromessi», cioè come «democrazia reale», sostanziale, contro la «democrazia formale» degli avversari, della borghesia? Ma quanto sia difficile (o addirittura impossibile?) questo passaggio dal formale al sostanziale è un problema che sta di fronte sia ai movimentisti entusiasti che ai partitisti freddi. E va ricordata un’osservazione di Enzo Modugno, che si legge in questi giorni ne «L’utopia perduta del web 2.0» (http://www.sinistrainrete.info/marxismo/1652-enzo-modugno-lutopia-perduta-del-web-20.html:

    «In una prima fase l’unione, l’azione comune, si afferma perché i lavoratori riconoscono l’impossibilità di continuare a subire nell’inerzia lo statuto di cose umane. Chi prende la parola, chi intraprende un’azione, sa che tutti intendono proseguirla, lo fa sapendo di farlo a nome di tutti. In questa prima fase il gruppo che insorge non ha strutture che potrebbero renderlo stabile, non ne ha bisogno: anzi è proprio questo che lo rende temibile, mare insondabile che straripa in azioni spontanee. È il gruppo in fusione di Sartre, il movimento di Rosa Luxemburg, l’azione libertaria. Questa fase tuttavia si trasforma rapidamente se il modo di produzione riprende i suoi spazi e subentra il pericolo della smobilitazione. La sopravvivenza del gruppo richiede ora un’organizzazione che impegni tutti a continuare la lotta: ma se le condizioni peggiorano potrebbe spingersi fino a punire chi non lo fa, è la «fraternità-terrore». Se non si è dissolto prima, il movimento è diventato ormai istituzione».

    5. Di conseguenza, se De Carolis riconosce che oggi né da un black bloc né da «noi» è possibile
    avere un risposta chiara alla «fatidica domanda sul “che fare”», non si capisce perché escluda a priori «il modello rivoluzionario d’altri tempi» e, trascurando ogni prudenza di analista che dovrebbe valutare tutte le ipotesi, sposi subito l’altro modello: «L’unico altro modello disponibile, per quanto ne so, è quello della disobbedienza civile, che ha ispirato a suo tempo la rivolta contro la guerra in Vietnam e, successivamente, tutti i movimenti per la pace o per la difesa dell’ambiente». Sarà anche l’unico oggi disponibile o che viene in mente a dei giovani che cominciano a ribellarsi e non hanno memoria delle lotte passate, ma non è detto che sia davvero l’unico o che sia quello vincente. Se non va più il «modello dell’insurrezione», non pare che quello della «disobbedienza civile» più “americanizzato” valga, alla prova dei fatti, di più. La politica è sempre una scommessa…

    6. In conclusione, il discorso di De Carolis rischia di ridursi ad un esorcisma intelligente contro il fantasma insurrezionale che le gesta dei black bloc, che io pure (senza demonizzarle) giudico sconsiderate e prive di chiarezza politica, hanno indirettamente evocato. Troppo facile è fare l’apologia del movimento circoscritto. Bisogna, invece, fare i conti con il convitato di pietra capitalista, di cui qui poco si parla. La storia più che paziente magistra è tremenda e esigentissima giudice; storce il muso e alza il ditino ammonitore. Una cosa è realizzare, con l’occupazione del Teatro Valle, «l’unica realtà teatrale di ricerca, in tutta Roma». Ben altra cosa spostare questo Paese in cancrena dalle reti della sua subordinazione europea e occidentale che lo avvolgono. E non da ieri, ma dalla caduta del fascismo. E dalla prima cosa (locale e romana) non è detto che si arrivi alla seconda.

  4. Stupisce abbastanza di questa polemica proprio il ricorso a categorie e linguaggi, al vecchio paradigma della rivoluzione-presa del potere e a quello di una disobbedienza che continua a essere tratteggiata riecheggiando Capitini e la non –violenza quaranta anni dopo Solidarnosc e le discussioni di allora ( ricordo, non certo per il piacere di autocitarsi, un mio articolo di allora su “ Primo Maggio”) : certo si può sostenere che in fin dei conti rimane sempre il nocciolo duro ( come abbattere il potere del capitale, come prendere il potere) e che insomma certe categorie e approcci rimangono validi perché siamo pur sempre nell’epoca del dominio capitalistico. Ma è davvero così?
    Ennio Abate cita Modugno e il suo articolo ma ho l’impressione che lo abbia letto di fretta. “Quanto al soggetto rivoluzionario, riaffiora nel dialogo la vexata quaestio dell’organizzazione. Vecchi richiama gli autori a considerare il radicamento nei rapporti sociali di produzione indispensabile per ogni tipo di autorganizzazione. Bifo infatti pensa a comunità che agiscano in maniera autonoma e che si riproducano secondo un sistema di proliferazione contagiosa, la «scismogenesi» di Gregory Bateson. Formenti pensa a un cybersoviet che possa «durare nel tempo». Andrebbero benissimo entrambi se non fosse per quel «durare nel tempo»: sappiamo che non durano. Ma possiamo seguirne le vicende perché ogni gruppo che insorge, soviet o comunità, attraversando fasi successive, segue lo stesso diagramma.In una prima fase l’unione, l’azione comune, si afferma perché i lavoratori riconoscono l’impossibilità di continuare a subire nell’inerzia lo statuto di cose umane. Chi prende la parola, chi intraprende un’azione, sa che tutti intendono proseguirla, lo fa sapendo di farlo a nome di tutti. In questa prima fase il gruppo che insorge non ha strutture che potrebbero renderlo stabile, non ne ha bisogno: anzi è proprio questo che lo rende temibile, mare insondabile che straripa in azioni spontanee. È il gruppo in fusione di Sartre, il movimento di Rosa Luxemburg, l’azione libertaria. Questa fase tuttavia si trasforma rapidamente se il modo di produzione riprende i suoi spazi e subentra il pericolo della smobilitazione. La sopravvivenza del gruppo richiede ora un’organizzazione che impegni tutti a continuare la lotta: ma se le condizioni peggiorano potrebbe spingersi fino a punire chi non lo fa, è la «fraternità-terrore». Se non si è dissolto prima, il movimento è diventato ormai istituzione.

Abbiamo assistito molte volte a questo percorso. Ma gli attivisti dei movimenti hanno sviluppato spontaneamente una diffidenza assoluta a confondersi con un potere a cui delegarsi, scompaiono e ricompaiono sapientemente nelle alterne fasi di questo processo. Con Bifo, Formenti, Vecchi («la democrazia rappresentativa è alla fine»), ricompare la dissoluzione del patto sociale e la restia ostinazione a reinventarlo, come scriveva il filosofo francese Maurice Blanchot.”

    Se IL DIAGRAMMA è lo stesso è vero che gli attivisti dei movimento hanno ormai una tale diffidenza a confondersi con un potere da comparire e scomparire nelle fasi altenne del processo. Questa è la piccola grande verità, cioè che ai movimenti non interessa porsi il problema del potere ma tuffarsi nella rete sociale delle trasformazioni, come viene confermato anche dal nuovo ciclo degli “ indignados”. Avevo scritto qualche giorno fa che” Anche se spesso le pure e semplici definizioni di stampo giornalistico tendono a sottolineare questo o quell’aspetto delle diverse proteste e lotte esplose in questo ultimo periodo e a spingere a una serie di “ distinguo” in quella parte di movimento che non si identifica con la definizione stessa, si parli di INDIGNADOS, BLACK BLOC, NO TAV, SE NON ORA QUANDO, MOVIMENTO DI LOTTA o altro ancora il fatto di trovarsi di fronte a un vero e proprio “movimento “ rende inevitabile cercare di riconoscere i tratti comuni, i comportamenti collettivi, le subculture, le modalità di protesta e di azione. Molti degli stessi partecipanti e protagonisti cercano di ridefinire la propria esistenza politica per differenza ( che c’entriamo noi coi black bloc? La nostra lotta esclude il ricorso alle violenze e agli atti di vandalismo fini a se stessi etc.) riproponendo in qualche modo la classica distinzione tra buoni e cattivi che ha pur sempre una sua lunga tradizione nella storia della sinistra. In questo senso è pur sempre ragionevole che una parte o un’altra marchi la propria identità con un misto di orgoglio, autodifesa e senso di superiorità, per evitare le ricadute in cui tutto si annulla. Come però non prendere atto di quelle lezioni classiche che la sociologia ci consegna a proposito dei modi di classificare, definire, identificare, un movimento per le sue caratteristiche globali ( che non annullano le differenze ma le riconducono a un contesto di fondo). Il richiamo al precedente del 1968, alle caratteristiche comuni di un movimento di contestazione globale che esprimeva appunto una cultura politica di insieme attorno a un vero e proprio IMMAGINARIO POLITICO è in questo senso obbligato, chi si accosta oggi alla storia del 68 ne riconosce appunto i tratti comuni di fondo, che non aboliscono certo le differenze tra 68 americano,francese, italiano, cecoslovacco, cinese riconducibili alle specifiche storie nazionali ma consente di inquadrare l’insieme, l’universale e i particolari. Se analogo metodo viene dunque adottato per questo nuovo movimento non basta dire “ ma che c’entriamo noi col Pelliccia( il nome del giovane fotografo con l’estintore)? “ o rimproverare la parte attivamente distruttiva, di assalto a banche e vetrine, per aver trascinato dietro di sé un movimento che voleva fare una manifestazione e basta. In una parte dello stesso movimento ( o dei movimenti al plurale, per segnalare comunque l’intreccio di identità e differenze) si osserva che in fondo tutto questo accade per assenza di regole ( o per assenza di servizio d’ordine, secondo altri) e che occorrerebbe che queste famose regole del movimento ci fossero e fossero accettate da tutti allo stesso modo, cosa facile a dirsi e difficilissima a farsi. Occorrerebbe invece uno sforzo maggiore di analisi per interrogarsi sui lati comuni: cosa unisce la protesta delle manifestazioni della Grecia a quelle spagnole, quelle della primavera africana e quelle inglesi? Far riferimento alla definizione generale di CAPITALISMO e a questa sua nuova CRISI è condizione necessaria ma non sufficiente, anche perché i modelli che continuiamo ad avere in testa sono quelli novecenteschi ( la crisi del 29, il New Deal, le guerre mondiali) e il richiamo al Lenin dell’imperialismo, l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, della fusione tra capitalismo “ produttivo” e capitalismo “ finanziario” mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Certo questa analisi rimane sempre valida e al tempo stesso obbliga a continui aggiornamenti.Il vecchio capitalismo produttivo è ormai alla mercé delle banche e delle speculazioni di borsa. Antiche aziende produttive, come la Fiat,( la cosa è sotto gli occhi di tutti) vanno trasformandosi in holding finanziarie. Altre, come la Fincantieri, in crisi di commesse, non ottengono credito per riconvertirsi. Le uniche o comunque le principali attività di rilievo economico registrabili sono le scalate dei finanzieri nei consigli di amministrazione delle società esposte al debito. Il solo sviluppo accertato è quello della moneta in mano agli “squali “che – come è noto- cannibalizzano tutto il cannibalizzabile, senza produrre un solo posto di lavoro in più. Gli stati politici, privi di mandato per regolare i mercati finanziari nei superiori casi del bene comune, subiscono gli stessi identici processi delle imprese, aggrediti come sono da chi possiede i suoi titoli e spinge al rialzo l’offerta degli interessi. Sono analisi necessarie da compiere ma fino a che punto questa lettura della crisi globale spiega azione e reazione dei movimenti di oggi e del loro stesso anticapitalismo? Emerge insomma in questo movimento una sorta di potenziale distruttivo del tutto incurante di porre come oggetto la TRASFORMAZIONE SOCIALE stessa, un potenziale distruttivo che è anche, inutile nasconderselo, autodistruttivo Non a caso il movimento globale contro la crisi esprime solo una indignazione,un messaggio e una parola d’ordine di cui è stata sottolineata più volte la riduttiva semplificazione del mondo, E’ stato osservato infatti che L’indignazione è anzitutto, un sentimento, non il contenuto di una rivendicazione (ridistribuzione, abrogazione, potere, …). Manifestare una indignazione significa rendere manifesto un sentimento, un particolare stato emotivo. Gli indignati dicono: ci troviamo in questo stato emotivo a causa della vostra politica, la quale non è all’altezza della presente situazione. Voi politici non siete perciò degni di esercitare la funzione amministrativa. E perché non ne sarebbero degni? Già Galli Della Loggia ha osservato che allora quel che si richiede o servirebbe è un di più di politica, non un di meno, una capacità di ricondurre la politica alla sua funzione progettuale. Forse può servire a questo punto richiamare le discussioni e le analisi di quasi trenta anni fa sul passaggio dal MODERNO al POST MODERNO come passaggio che pone fine all’epoca delle GRANDI NARRAZIONI, in cui la storia si compie come processo in avanti, progresso permanente etc. In qualche modo si tratta di analisi da riprendere per capire fino in fondo il compiersi di questo stesso passaggio e interrogarsi sulla fine della politica come discorso universale .”
    Ho aggiunto ancora in questi ultimi giorni.” Sono passati quasi due mesi ormai da quando sono emerse le prime avvisaglie improvvise del movimento degli INDIGNADOS e che tutto lascia intendere che queste caratteristiche di durata, generalizzazione, modello culturale e dinamiche di simbolizzazione e di comunicazione di massa abbiano appunto i tratti di un movimento generale che rende legittimo il confronto col precedente movimento del 68.A suo tempo i sociologi e gli storici ebbero come terreno di confronto il 1848, la famosa ondata che inaugurava la prospettiva degli Stati nazionali , rilevando che invece la prospettiva sessantottesca era non più nazionale e rispondeva alla richiesta di nuovo benessere capitalistico sorta dopo la seconda guerra mondiale, a una “ ripresa” economica e sociale ( il famoso neo-capitalismo degli anni sessanta, la rielaborazione di un nuovo welfare accompagnato da nuovi diritti e nuovi soggetti sociali). A quale domanda di ripresa (?) o di nuova trasformazione risponde adesso la cultura dell’indignazione? Essa sembra indicare la fine di un’epoca, quella delle politiche del liberismo sfociata , mi si scusi il termine, in una sorta di BANCARIZZAZIONE dell’economia Come ha notato Andrea Spanu “ Gli “indignados” ritengono che l’attuale sistema finanziario, incarnato dalle banche, sia il principale fautore della crisi in cui si trova l’economia mondiale e il responsabile della creazione di pesanti debiti sovrani che tolgono il futuro alle giovani generazioni. “Noi la crisi non la paghiamo”, o ancor più precisamente “La vostra crisi non la paghiamo” è uno slogan che si è diffuso nelle manifestazioni studentesche e negli scioperi dei dipendenti fin dal 2008, non solo in Italia ma anche in Francia, Spagna, Grecia, Gran Bretagna, Stati Uniti. L’idea sottesa a questo slogan è che la crisi sia dovuta a un manipolo di biechi affaristi, di istituzioni finanziarie senza scrupoli e senza legittimazione democratica, che hanno arricchito una ristretta cerchia di grandi investitori e impoverito tutti gli altri: ergo, tocca a loro pagare i debiti o cancellarli. “ Colpisce ovviamente la denunzia globale e senza assoluzione, in cui la stessa via d’uscita è il rifiuto di fondo del sistema, il rifiuto di sentirsi parte del problema e di essere determinati dal sistema mondiale, è davvero una indicazione “ rivoluzionaria” o è solo un rifiuto, una dichiarazione di estraneità verso Stati e governi ? E’ una ripresa del marxismo o anche questo è visto come parte di un sistema che ha fallito? Se infine si guarda alla storia di quel “ primato della politica “, sanzionato dalle rivoluzioni politiche nazionali ottocentesche e alla storia di quel” primato del sociale “( con la sua domanda di nuova trasformazione e nuovo benessere degli ultimi sessanta anni) la domanda che si presenta è proprio capire di chi debba essere il nuovo primato . Le stesse categorie ( poliitico e sociale, politica ed economia, economia e società) che hanno caratterizzato l’epoca moderna si rivelano insufficienti. Di nuovo il ricordo del 68 e di quella formula della RIVOLUZIONE CULTURALE che allora si diffuse torna a riproporsi come esempio. “

  5. In questo post un po’ troppo di “sacrestia di sinistra” provo a far sentire la voce di un “demone”, sperando che male non faccia. Alle persone intelligenti e oneste l’invito a non fermarsi alla forma “irritante”. I demoni, si sa, vengono dall’inferno e, da lì, le cose dette bruciano. E poi non è obbligatorio pensarla come lui (ad es. sul comunitarismo). Basta ascoltare anche questo tipo di “altro”, rimuginare in proprio e magari rimandare il demone all’inferno, ma a ragion veduta argomentado il proprio rifiuto.
    Per non abusare della pazienza altrui, trascrivo solo un brano di queste “Riflessioni strategiche sul movimento degli “Indignati” di Costanzo Preve. Il testo integrale si trova a questo indirizzo: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2839.
    “Il contrabbandiere”

    “Il movimento pacifista ha reagito con quella che chiamerò Strategia Ostensiva del Gregge Belante, insaporita o meno dai black bloc, in genere ideologicamente anarchico-negristi. Esemplare la marcia Perugia-Assisi, cui partecipò anche D’Alema, il baffetto bombardatore della Serbia per conto degli USA. Non rimprovero certo a questa strategia ostensiva del gregge belante di non essere mai riuscita a impedire le guerre d’aggressione, sia chiaro. Le rimprovero invece di non avere sedimentato nulla, ma proprio nulla, in termini di coscienza storica e politica. L’unica possibile sedimentazione sarebbe stata l’individuazione nell’impero americano del nemico principale, e quindi una riformulazione dell’invecchiata, ma sempre attuale teoria dell’imperialismo. Niente di tutto questo. Il gregge belante se l’è presa con tutti, dalla Cina in Tibet alla Russia in Cecenia, preparando così il terreno per la catastrofe del 2011, in cui la “sinistra” ha addirittura appoggiato e appoggia la NATO in Libia e in Siria.
    Risultato: non hanno ottenuto niente, e non hanno sedimentato niente. Le guerre aumentano, sono sempre più ipocrite e sfrontate, e il movimento si divide fra pacifisti belanti e incappucciati incendiari. Si vuole proprio continuare così? Il ceto politico professionale di “sinistra” lo vuole, naturalmente, con i suoi giornaletti corrotti e post-moderni, ma il mondo non finisce con questi parassiti.”

  6. ” l’apparato politico-culturale di “sinistra”, con la sua cultura individualistica, multiculturale, orientata solo verso i migranti e le minoranze sessuali e odiatore del 90% delle persone cosiddette “normali”. ”

    Questo passo del ” comunista ” Costanzo Preve fa abbastanza rabbrividire: è roba che si legge paro paro sul Giornale…

    Infatti, il comunista Preve pensa le stesse cose dei teorici della nuova destra più o meno anarchica, a partire da Alain de Benoist (ma un filosofo di destra come Marco Tarchi sembra Che Guevara rispetto al contenuto dell’articolo linkato).

    Io penso che il comunismo applicato sia stato un mostro pari al nazismo. Si è ottenuto qualcosa di decente solo da quello non applicato, come il nostro, non a caso divenuto filoatlantico (per decisione del mentore di D’Alema, Enrico Berlinguer…) e alla fine liberale. Certo, il liberalismo ci ha tanti limiti, ma criticarlo a partire dal suo contenuto internazionalista è francamente delirante, rimanda direttamente al Socialismo Nazionale… D’altra parte volere un ONU ” funzionante “, capace di limitare l’aggressività della NATO, come si concilia con il non volere organismi politici sovranazionali?

    Mah, a volte meglio la sacrestia…

  7. Nella parte finale del suo articolo Costanzo Preve scrive che “Eppure, questa volta è forse possibile non certo vincere, né a breve né a medio termine, ma almeno sedimentare qualcosa. Bisogna quindi evitare i fallimentari esiti del movimento pacifista e del movimento altermondialista. Ma la sola cosa che concretamente può essere sedimentata è un programma articolato di de-globalizzazione, con eventuali correzioni almeno in parte “protezionistiche” e comunitarie: parlo di un comunitarismo ovviamente non razzista, il che è del tutto possibile, se si ridà la parola alla gente comune e si limita il blaterare post-moderno del circo intellettuale. Questa sedimentazione si troverà di fronte purtroppo due acerrimi nemici. In primo luogo, l’apparato politico e ideologico del neoliberalismo politico bipolare e del liberismo economico cosmopolitico, assolutamente egemone in Europa. In secondo luogo, l’apparato politico-culturale di “sinistra”, con la sua cultura individualistica, multiculturale, orientata solo verso i migranti e le minoranze sessuali e odiatore del 90% delle persone cosiddette “normali”.

    Credo sia giusto accogliere con interesse il senso della proposta, sia nel suo aspetto negativo o pars destruens ( la de-globalizzazione) che in quello positivo delle correzioni comunitaristiche. Il richiamo al comunitarismo è ormai parte integrante del suo discorso e ovviamente fa discutere, lui lo presenta come il nuovo significato del comunismo ma altri non sono convinti. Dico solo che il comunitarismo , almeno filosoficamente parlando, è una corrente che esiste da tempo e negli Usa ad esempio non si pone come risposta di inveramento del marxismo ma su binari diversi, che meritano attenzione ma non sono riducibili alla lettura di Preve. Anche la proposta di deglobalizzazione, che a mio parere coglie o quanto meno intuisce come occorra una risposta nuova alla cultura mondialista , non sa e non può indicare molto di più, per certi versi fa tornare in mente gli schemi ecologisti di una società post ma non sa indicare ( nè del resto potrebbe farlo, è un compito grave che non può essere scaricato su nessuno) come e quando sia possibile costruire un mondo senza banche , una economia del post o una post economia. Bisogna ammettere e prendere atto che abbiamo tutti interiorizzato il modello di transizione ( dal capitalismo al comunismo) così come il modello leniniano ( insurrezione, presa del potere, potere diverso) mentre il capitalismo conosceva la sua ennesima trasformazione globale al punto che nessuno ha un modello teorico interpretativo che possa spiegare oggi cos’è il capitalismo stesso, se esiste ancora o se il suo stesso ” modo di produzione” ci ha fatto entrare tutti in una nuova dimensione che non sappiamo nemmeno leggere. Anche per questo non sappiamo se lo stesso movimento degli indignados sia appunto, come i precedenti ricordati, espressione di una cultura infine utopica ed estrema o se la stessa visione di un mondo senza banche evidenziata dagli assedi a Wall Street sia l’inizio di una nuova strategia.

  8. @Massino

    Entrando nei post più “politici” di LPLC, più che in sacrestia sembra di entrare nel deserto. Ma dato che ci incrociamo, ne approfitto per una veloce considerazione: se tu, invece di entrare nel merito e contestare le cose dette dal demone Preve, ti limiti a mettergli addosso l’etichetta infamante (per i sacrestani) di pensare «le stesse cose dei teorici della nuova destra più o meno anarchica»; se con la stessa velocità, nel post della Brogi su terrorismo e oscurità, hai liquidato il discorso che lì riportavo di Fortini (un altro demone?) con un lapidario « lasciami dire che se Fortini ha scritto certe cose, ciò non va certo a suo favore»; se, infine, equipari comunismo e nazismo e ti va bene la scelta filoatlantica «e alla fine liberale» di Berlinguer e D’Alema, non mi resta che prendere atto della differenza tra un contrabbandiere e un esorcista. A me il tentativo di accostare due modi di pensare diversi e contrapposti per comparare e capire meglio. A te rimuovere e demonizzare, avendo certezze (o dogmi) . Amen. Non a me, ma almeno agli eventuali visitatori di questo post, prova, però, a spiegare che cosa sarebbe questo non mostruoso “comunismo non applicato” di D’Alema e in cosa consiste il «qualcosa di decente» che avrebbe ottenuto. Tutto qui

    Il contrabbandiere

  9. Caro Ennio, la lotta politica, nei prossimi anni, sarà tra europeisti internazionalisti e nazionalisti socialisteggianti. le idee di Costanzo Preve stanno tra i secondi, almeno a giudicare dall’articolo che hai linkato, insieme ai movimentisti di destra feroce, come Borghezio. Io, modestamente parlando, preferisco i primi, con tutte le critiche che si possono loro rivolgere. In particolare mi aspetto dal socialismo europeo, di cui D’Alema fa parte come una delle massime espressioni, lotte per una maggiore giustizia sociale, la stessa ottenuta attraverso le lotte operaie fatte negli anni ’50 e ’60 dal ” comunismo non applicato “. Mi aspetto anche che confermino le politiche per una società multirazziale e multiculturale. Confermo che comunismo e nazismo furono in Europa due equivalenti mostri. Confermo anche che l’omicidio è un reato, non un normale strumento delle lotte politiche, piaccia o non piaccia a te (o a Fortini). Tutto qui.

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