di Daniela Brogi
[La prima parte della rassegna dei film in competizione si può leggere qui].
LEONE D’ORO
En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence) (Roy Andersson), Germania, Norvegia, Francia
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LEONE D’ARGENTO
Belye nochi pochtalona Alekseya Tryapitsyna (The Postman’s White Nights) (Andrei Konchalovsky), Russia
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Hungry Hearts (Saverio Costanzo), Italia COPPA VOLPI MIGLIOR ATTRICE E MIGLIOR ATTORE
Il giovane favoloso (Mario Martone), Italia
Nobi (Fires on the plain) (Shinya Tsukamoto), Giappone
Sivas (Kaan Müjdeci), Turchia, Germania PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA
Le dernier coup de marteau (Alix Delaporte), Francia PREMIO MASTROIANNI DEDICATO AI GIOVANI INTERPRETI
Pasolini (Abel Ferrara), Francia, Belgio, Italia
Chuangru zhe (Red Amnesia) (Wang Xiaoshuai), Cina
Good Kill (Andrew Niccol), Usa
Ha vinto Roy Andersson. Il suo film è l’atto finale di una “Trilogia vivente” realizzata nell’arco di diciannove anni – avviata da Songs from the second floor (Canzoni del secondo piano), del 2000, e proseguita con You, the living, del 2007.
A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (qui una clip) si compone di trentanove situazioni che sembrano reinventare in chiave astratta e beckettiana il genere della conversation piece della pittura nordica sette-ottocentesca. Si tratta infatti di vignette animate da scambi di dialoghi orientati verso l’assurdo, e girate con una perfezione formale spinta quasi alla maniera: sono realizzate tutte con la camera fissa (come nei molti spot commerciali diretti dall’autore) e con una profondità di campo nitidissima; sono composte con una geometria che va verso l’iperrealismo (si è parlato spesso anche di una poetica ispirata ai quadri di Hopper). All’interno di questi tableaux vivants tutti virati verso il color crema e il beige si muovono, con una lentezza postumana, Sam e Jonathan, due tristi commessi viaggiatori che cercano di vendere improbabili oggetti di divertimento (maschere, denti da vampiro, polverine..). La scommessa formale, proprio come in Hopper, ma anche in Bergman, è quella di tirar fuori il sentimento per contrasto, cioè allestendo spazi essenziali ed esasperando al massimo la figuratività degli elementi in scena. Si passa da una sequenza all’altra a ritmo di valzer o di un coro popolare; i due protagonisti nelle loro false progressioni ricordano Vladimir e Estragon di Godot; l’azione scivola continuamente verso il non sense, producendo un relativo effetto di straniamento sui grandi temi attraverso i quali gli esseri umani hanno messo in posa e millantato la propria grandezza speculativa: può trattarsi della morte, della guerra, della superiorità sugli altri esseri, della civiltà – e a quest’ultimo riguardo: in uno dei quadri finali, dove alcuni “selvaggi” sono fatti entrare in un misterioso tubo di rame dall’interno del quale, una volta che viene surriscaldato, uscirà una musica soprannaturale, si potrà riconoscere il rimando all’antico mito greco del toro di Falaride. Fin che la sorpresa regge non si finisce di ammirare l’effetto d’insieme. Ma l’assurdo non sempre si tiene distinto dal demenziale, e dopo la prima mezz’ora rischia di arrivare la noia.
Il fatto è che l’assegnazione del premio, com’è anche bello che accada, ha smentito le previsioni di molti. Fino all’ultimo si era creduto che potessero vincere, oltre a The Look of Silence (ma il cinema documentario era già stato premiato lo scorso anno), almeno altri tre film: Chuangru zhe (Red Amnesia); Belye nochi pochtalona Alekseya Tryapitsyna (The Postman’s White Nights); e Nobi (Fires on the plain). Il film di Wang Xiaoshuai è interpretato dall’attrice (Lü Zhong) che, va detto, si meritava la Coppa Volpi più di ogni altra; la storia di cui è protagonista ha un impianto narrativo in crescendo, perché quella che inizialmente sembra la vicenda di un’anziana madre pronta ad ogni momento ad invadere la vita dei due figli adulti con l’argomento universale della preparazione del cibo («vengo solo a cucinarvi qualcosa»), diventerà invece, mescolando situazioni formali oniriche e soluzioni di inquadratura hitchcokiane, un thriller psicopolitico. L’amnesia rossa a cui allude il titolo, infatti, non evoca solo il sangue di un misterioso delitto, ma anche e soprattutto gli ideali della Repubblica popolare cinese: quelli che dividono ormai le vecchie e le nuove generazioni, anche a causa della rimozione dei danni di cui non si ha più coscienza, o dell’oblio delle tante vite anonime fatte fuori dal sistema dei controlli e delle denunce.
Il film di Konchalovsky, secondo le stesse parole del regista, è «il tentativo di vedere con gli occhi di un “neonato” il mondo che ci circonda. Il tentativo della “lettura lenta” della vita». Per raggiungere questo effetto di contemplazione delle persone e degli ambienti che entrano nel racconto soltanto a titolo del proprio esistere, The Postman’s White Nights ha compiuto un viaggio fino alla fine, anzi fino all’inizio del mondo, prendendo spunto da una notizia di cronaca: negli ultimi anni sono stati abbandonati diciassettemila villaggi russi, e ormai in trentaquattromila paesi vivono non più di dieci persone. Attraverso il racconto della vita quotidiana di un postino (Aleksey Tryapitsyn), che è l’unico contatto col mondo esterno (tant’è vero che oltre alle lettere porta il pane, le lampadine, i soldi, le pensioni), il film mette in scena uno di questi universi ai bordi della fine dove ancora si ara la terra coi cavalli: siamo in un villaggio sperduto a nord della Russia che si affaccia sul lago Kenozero, e dista quattro ore dalla stazione da cui affrontare un viaggio di venti ore per Mosca. In The Postman’s… tutto è circolare: il lago, il ritmo ripetitivo di queste esistenze lasciate agire e pedinate con movimenti documentari (salvo due eccezioni non ci sono attori professionisti); è circolare l’andare in su è in giù con la barca del postino, la passione per la sbornia («il dolore mi passa solo quando sono ubriaco»).
Anche Nobi (Fires on the plain), di Tsukamoto, è un grande film scelto dai selezionatori di Venezia 71, ed è auspicabile che, proprio nell’anno della ricorrenza del centenario della Grande Guerra, questo film arrivi nelle sale, perché sa rappresentare la guerra facendola vivere allo spettatore come esperienza sensibile. L’epopea del soldato Tamura, abbandonato dal suo plotone, malato di tubercolosi, che in un’isola delle Filippine (siamo alla fine della seconda guerra mondiale) vaga per la giungla, diventa l’epos della lotta per la sopravvivenza: non ci sono più ideali, c’è la fame che lo aliena, fino a fargli vedere i compagni come cibo. E anche in questo caso il protagonista poteva meritare la Coppa Volpi.
L’altro film in concorso dedicato alla guerra, cioè Good Kill, è più tradizionale e di minor impatto rispetto a Nobi, e tuttavia interessante, sia per le soluzioni visive e per gli spazi che per il tema, perché racconta esattamente l’esperienza opposta a quella del film di Tsukamoto: qui infatti il corpo è completamente sparito: «sono un pilota e non sto volando». Il protagonista, Tommy Egan (Ethan Hawke), è un maggiore dell’Aeronautica Militare americana che, dopo aver guidato molti aerei in Iraq e Afganistan, è stato assegnato a una postazione vicino a Las Vegas da cui si comandano i droni che sorvolano il Medio Oriente. Da undicimila chilometri di distanza Tommy aziona i dispositivi di invio dei missili («Oggi ho fatto saltare i talebani in Pakistan e adesso vado a fare il barbecue»). Ma proprio questo scambio tra realtà e simulazione della guerra («la cosa peggiore che mi può accadere è il tunnel carpale o versarmi addosso del caffè») produce una crisi in Tommy («mi manca la paura»); e anche se certe soluzioni sono scontate (come il finale, o il personaggio della moglie, interpretata da January Jones, che è identico a quello di Betty Draper in Mad Men), Good Kill è un film capace di raccontare la cultura americana della guerra, i suoi archetipi, le sue narrazioni, con un impianto tradizionale ma gestito con coerenza. Quella coerenza, per esempio, troppo poco presente nel film francese Le dernier coup de marteau – e, del resto, dispiace dirlo ma nessuno dei film francesi in competizione aveva qualità speciali: costruire una narrazione che lavora per sottrazione e trattenendo le emozioni è molto difficile; se questo movimento in levare invece di essere un punto di arrivo del lavoro di sceneggiatura, di regia e di montaggio, è invece una postura di partenza, si rischia di scambiare per intensità espressiva o per charme quello che rimane, a livello della composizione d’insieme, una storia superficiale dove si parla un po’ di tutto (la malattia della madre del giovane protagonista, la ricerca del padre, l’amore per una coetanea, la passione per il calcio) senza raccontare nulla.
Narrare l’infanzia è difficile: nella parte iniziale, dedicata a quanto possano lavorare nell’io le difficoltà legate alle relazioni con i propri coetanei, Sivas ci riesce; il film è ambientato in un villaggio della Turchia orientale e racconta la storia di Aslan, di undici anni, e di, Sivas, un cane da combattimento moribondo salvato dal bambino e che diventerà un campione. (I cani, ha assicurato la produzione, non si sono fatti male perché erano protetti da guaine e cuscinetti; basta per sollevarci dal disagio, reale ancor prima che etico, di vedere degli animali incitati ad aggredirsi e che evidentemente non potevano sapere di recitare e basta? Forse no).
Siamo giunti ai film italiani in concorso. Di Anime nere si era già parlato nella prima parte di questa rassegna, e, dopo la visione di tutti i film in competizione, il giudizio positivo resta confermato: il film di Munzi è stato uno dei migliori passati da Venezia 71. Come gli altri tre presto arriverà presto in sala e dunque, in questo caso come per i film di Costanzo, Martone e Ferrara, ci saranno molte occasioni per continuare a discuterne.
Hungry Hearts, che ha conquistato i premi per la miglior interpretazione femminile (Alba Rohrwacher) e maschile (Adam Driver), tratta un tema originale e importante, e si ispira a un romanzo pubblicato da Marco Franzoso: Il bambino indaco (Einaudi, 2012), che narrava la storia di un delirio di onnipotenza scatenato dalla maternità: per preservare il proprio bambino da ogni rischio di contaminazione e garantirgli lo statuto di bambino speciale Isabel (nel film diventa Mina) sviluppa un’ossessione di purezza sempre più grave, tenendo il figlio in uno stato continuo di carenza e di denutrizione. Lo sta uccidendo per troppo amore, insomma, e il padre, che inizialmente aveva sottovalutato i disturbi della moglie, giungerà a soluzioni estreme pur di salvare il figlio dalla madre. Hungry Hearts mette in scena questo incubo, con scelte di realizzazione anche originali (un esempio: il piano sequenza iniziale nello spazio angusto del gabinetto in cui restano imprigionati), malgrado a tratti caricate. La protagonista ricorda spesso Catherine Deneuve in Repulsion, di Polanski.
E infine Leopardi e Pasolini: entrambi presenti a Venezia 71 con i due film di Martone e Ferrara. Da una parte il poeta moderno più amato, secondo una certa iconografia liceale; dall’altra parte l’intellettuale più spesso invocato come simbolo del pensiero antagonista al potere. Ma l’orizzonte di attesa dei due film non sembra il medesimo: nel caso di Leopardi si ha la sensazione di un terremoto, un temporale, un tumulto generale, un bisogno di rigore senza indulgenze, e ancor prima di aver visto il film è partita la caccia al riscontro pseudofilologico (come se l’arte fosse adeguamento passivo al dato storico; come se la filologia fosse esercizio poliziesco del controllo; come se qualcuno potesse pensare di non leggere più la novella Libertà, di Verga, perché in un bel saggio Sciascia riscontrava delle incongruenze storiche). Nel caso di Pasolini, invece, sembra accadere il contrario: la scelta dell’autore sembra garantire libertà incondizionata e la patente dello scandalo. Limitiamoci allora a un paio di rapide considerazioni sui film.
Partiamo dal film di Martone, con una considerazione tecnica che non va data per scontata: far recitare L’infinito davanti a una macchina da presa riuscendo a evitare il grottesco e il ridicolo è già un merito di regia forte. A cui ne aggiungerei altri due, che rendono molto bella la prima parte del film, quella di ambientazione recanatense. Il lavoro di Martone non è semplicemente un biopic, cioè un film dedicato alla ricostruzione della biografia di un autore. E d’altronde il titolo è già lì, subito, a indicarlo: l’aggettivo “favoloso”, che è tratto da un passaggio di Anna Maria Ortese («così ho pensato di andare verso la grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso»), sembra intendere non soltanto il giovane di cui si dicono cose leggendarie, ma anche, direi soprattutto, il giovane che abita dentro la favola della sua gioventù, per resistere alla prigione materiale e mentale della famiglia, del luogo, dello studio («[…] Non vivono fino alla morte se non quelli che restano fanciulli tutta la vita»). Se usiamo questa chiave, ecco che si potranno apprezzare almeno altri due meriti del film, vale a dire: in primo luogo la scelta, riuscita, di mettere in scena l’anima romantica di Leopardi – nel senso pieno dell’espressione: il film è anzitutto il tentativo di raccontare un’interiorità (« il cor non si spaura. E come il vento»); o ancora: l’urlo cacciato al cospetto del padre e dello zio non è reale ma mentale. In secondo luogo, Il giovane favoloso non descrive e basta gli ambienti e le situazioni: restituisce il senso dell’esperienza come materia viva, e così, sempre nella prima parte, si avranno i passaggi dagli scorci naturali alle mura (tutto il sistema dell’Infinito è costruito sul movimento continuo di apertura e chiusura); e lo stesso vale per la costruzione e il trattamento dei personaggi: da Silvia, che è una popolana che parla male e con cui Giacomo si impappina (dove sarebbe lo scandalo? Perché dovrebbe darci fastidio, per principio, la riconversione di un fantasma nell’esperienza concreta da cui è partita la trasfigurazione poetica?); o ancora la madre, forse troppo caricata, ma certo paurosissima in quel suo silenzio; o Ranieri, l’amico, che in una trovata di regia delicata entra in scena, di sorpresa, con un gesto che già mostra la sua funzione, senza spiegarla: per portare la colazione a Giacomo.
Potrà piacere, o magari no, creare dubbi, ma il film di Martone non merita una stroncatura preventiva, perché nasce e si realizza attorno a un progetto di regia che ha inteso riappropriarsi creativamente della storia, e in questo senso il film ha un’anima. Come invece non accade a Pasolini: il soggetto (cioè il racconto dell’ultimo giorno di vita di Pasolini) c’era ed era buono; la sceneggiatura (di Maurizio Braucci) pure: con l’invenzione, per esempio, di mettere in scena un film dentro il film, attraverso la realizzazione di una sequenza di Petrolio nel momento in cui Pier Paolo la sta scrivendo. Quello che manca del tutto – facendo mancare, di conseguenza, un’anima del film – è il lavoro di regia, che resta un esperimento velleitario di mimetismo del personaggio narrato. Ma non basta raccontare Pasolini, in qualsiasi maniera, per diventare Pasolini. Continuamente si ha l’impressione di un lavoro condotto senza passione, quasi con sciatteria, senza un punto di vista forte capace di reimpossessarsi della materia.
Le tue recensioni, molto competenti e complete, andrebbero raccolte in un cahier. Io già sto raccogliendo e stampando. Già mi sono trovata d’accordo con te su La Grande Bellezza, mentre tutte le recensioni ne parlavano come di un rifacimento della Dolce Vita, e non avevano capito niente. Con stimae affetto