di Enrico Rebuffat
Nel rapporto La Buona Scuola. Facciamo crescere il Paese, appena pubblicato dalla Presidenza del consiglio dei ministri e dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, uno speciale interesse per i docenti riveste il secondo capitolo, dal titolo Le nuove opportunità per tutti i docenti: formazione e carriera nella buona scuola; e in particolare il paragrafo 2.3, Premiare l’impegno: come cambia la carriera dei docenti.
Ormai da molti anni gli insegnanti della scuola pubblica sono privati del rinnovo contrattuale; sono sottoposti con tutti i dipendenti statali al perdurante (e ne è stata annunciata l’ulteriore proroga fino a tutto il 2015) blocco degli stipendi, per i quali non viene riconosciuto neppure l’adeguamento all’inflazione; sono titolari di retribuzioni tra le più basse d’Europa per la categoria, talmente esigue che tutti gli ultimi ministri dell’istruzione (compresa l’attuale) hanno, all’inizio del loro incarico, biasimato pubblicamente questa situazione. È dunque comprensibile che le aspettative dei docenti su questo tema, già molto vive, siano state ulteriormente stimolate dalle frequenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio, il quale ha più volte enfatizzato la centralità della professione docente per lo sviluppo della nazione e la necessità di un suo maggiore riconoscimento; un’enfasi di cui è tutt’altro che privo lo stesso Rapporto:
«Questo Governo non ha esitazioni: la scuola è la priorità del Paese, e su di essa intendiamo mobilitare le risorse che servono» (p. 118).
Ma l’argomento non riguarda solo i diretti interessati, al contrario risulta fondamentale rispetto al tema della “buona scuola”: perché è evidente che la condizione contrattuale e il trattamento economico di una categoria di lavoratori non possono non incidere sia sulla qualità del servizio da loro prestato (soddisfazione e motivazione dei docenti nei confronti del proprio lavoro, attualmente assai in crisi; possibilità concreta, oggi seriamente compromessa, di usufruire nel quotidiano di quelle esperienze culturali, che costituiscono la più autentica formazione di un docente), sia sulla composizione stessa della categoria (capacità di attrazione della professione docente per i migliori giovani e gli studenti più brillanti: oggi quasi a zero).
Era dunque auspicabile che le proposte del Rapporto su questo tema delicatissimo fossero significativamente migliorative rispetto alla situazione attuale, tanto negativa; ed era doveroso che lo si affrontasse con onestà e lo si esponesse con chiarezza, in modo che sia i diretti interessati sia l’opinione pubblica potessero, come si legge, partecipare a un
«dibattito e confronto […] nel quadro di quella che vogliamo diventi la più grande consultazione – trasparente, pubblica, diffusa, online e offline – che l’Italia abbia mai conosciuto finora».
Purtroppo nulla di ciò si è verificato. Nel merito, le proposte di riforma non migliorano la condizione della categoria, anzi la peggiorano e inseriscono nella vita della scuola elementi dannosi e persino pericolosi; nel metodo, la loro presentazione è artefatta e tendenziosa, fino alla falsificazione.
Il sistema illustrato nel Rapporto si può riassumere così:
- al 1 settembre 2015, la posizione stipendiale di ciascun docente, maturata in base alle attuali regole (scatti di anzianità), sarà fissata definitivamente e costituirà la base stipendiale su cui opereranno le nuove regole;
- da quel momento in poi, alla fine di ogni triennio (1 settembre 2018, 2021, 2024 ecc.), i due terzi dei docenti di ciascuna scuola (o “rete” di scuole) riceveranno un aumento stipendiale, il restante terzo non riceverà nulla;
- l’aumento triennale viene stimato in 60 € mensili («potrebbe essere», e l’esempio vale per la scuola superiore);
- i docenti cui attribuire l’aumento saranno individuati, di triennio in triennio, in base al numero di crediti da loro accumulati nel periodo in esame; tali crediti (distinti in didattici, formativi, professionali) saranno attribuiti da un Nucleo di valutazione interno di ogni scuola, cui partecipa anche un membro esterno;
- il numero massimo di scatti triennali nella carriera è fissato in 12, per un aumento teorico massimo di 720 € rispetto allo stipendio iniziale dopo almeno 36 anni di servizio e nell’ipotesi di un docente che in tutti i trienni sia sempre risultato nei due terzi ‘vincenti’;
- non esisteranno altre modalità di avanzamento della posizione stipendiale.
Com’è facile capire, nel momento in cui si assume come base stipendiale del nuovo sistema al 1/9/2015 l’attuale stipendio dei docenti italiani – basso, come si è detto, e congelato dal 2009 –, di fatto viene meno fin da principio ogni reale possibilità di miglioramento sostanziale della loro condizione economica. Smentendo tutte le dichiarazioni passate e presenti, anche del Rapporto stesso, sulla necessità di un maggiore riconoscimento della categoria, e a dispetto di tutte le valutazioni comparative con i paesi dell’Unione Europea, si continua a sostenere che un insegnante della scuola pubblica, dotato di laurea magistrale e di specializzazione all’insegnamento, che ha la responsabilità della formazione culturale e civile dei cittadini italiani, meriti una retribuzione-base di meno di 1.300 € al mese; e che questa retribuzione possa (e, in una media statistica di tutti i docenti, debba) rimanere tale per l’intera vita lavorativa di un terzo dei docenti italiani.
La situazione economica attuale, peraltro, viene presentata nel Rapporto in un modo artefatto e fuorviante. Secondo la tabella a p. 49, Come funziona oggi la carriera dei docenti, attualmente un docente di liceo guadagnerebbe nella prima fascia stipendiale 34.400 € annui (2.646 € mensili), che salirebbero a 39.066 € nella seconda, fino a un massimo di 53.985 € a fine carriera (4.152 € mensili). Sono cifre che nessun docente d’Italia ha mai visto neppure da lontano, e che grosso modo equivalgono a più del doppio di quanto effettivamente percepito in busta paga. Si tratta infatti, come segnalato in una nota (senza dare spiegazioni), del cosiddetto «lordo Stato». Il «lordo Stato» non è lo stipendio lordo come comunemente si intende, quello cioè sul quale il lavoratore paga all’origine i contributi previdenziali e le ritenute fiscali, bensì il totale comprensivo degli oneri previdenziali e fiscali a carico del datore di lavoro: costituisce insomma non lo stipendio del lavoratore, ma piuttosto il costo di quel lavoratore per il datore di lavoro. Tutti i docenti hanno visto spesso tabelle delle fasce stipendiali simili a quella del Rapporto, ma credo che nessuno abbia mai sentito parlare del «lordo Stato». Ma perché allora nel Rapporto sono state utilizzate, nell’ambito di un discorso urbi et orbi sullo stipendio degli insegnanti statali, le cifre del «lordo Stato»? Evidentemente perché esse possono indurre i lettori del Rapporto, che non siano docenti, a ritenere che l’attuale condizione economica degli insegnanti statali sia tutto sommato positiva e che il nuovo sistema – che prende l’attuale come base – continui a tutelarla.
Analogamente lascia a dir poco perplessi il modo in cui viene presentato, nelle sue linee generali, l’argomento del «trattamento economico» (p. 53). Ci saranno, si scrive, «due modi, complementari e cumulabili», per integrare lo stipendio-base: il primo sono gli scatti triennali, il secondo – attenzione – «lo svolgimento di ore e attività aggiuntive, ovvero progetti legati alle funzioni obiettivo». Ma è del tutto ovvio che le ore e le attività «aggiuntive» siano retribuite: lo sono (poco, pochissimo) già oggi, come lo sono sempre state. Definire ciò un «secondo modo» di incrementare lo stipendio «complementare e cumulabile» con gli scatti triennali, conferma che il Rapporto non è stato redatto in spirito di verità e onestà, ma con un’impostazione che ricorda molto da vicino le tecniche della pubblicità commerciale.
Sulla stessa linea, ma ancora più censurabile è la spiegazione che viene fornita della transizione al nuovo sistema. Questa, si dice, «non sarà per nessuno drammatica e nella maggior parte dei casi favorirà anzi una vastissima platea di docenti attualmente in ruolo» (p. 56). Ma anche qui la presentazione del Rapporto è scorretta e nasconde il fatto che, al contrario, essa comporterà un danno per la grande maggioranza dei docenti in servizio. Il Rapporto prende in esame, a titolo di esempio, le situazioni di tre docenti diversi: un docente neoassunto; un docente che al 1/9/2015 entra nella seconda fascia stipendiale; un docente che al 1/9/2015 entra nella terza fascia, per dimostrare come il nuovo sistema permetterà loro di conseguire il prossimo aumento di stipendio dopo soli tre anni (2018), invece che dopo altri sei come nell’attuale. I tre esempi però sono scelti in modo capzioso, perché tutti configurano il caso più fortunato, quello in cui al 1/9/2015 un docente si veda riconosciuto lo scatto stipendiale che attendeva da anni e, contemporaneamente, venga inserito nel nuovo sistema. Ma è evidente che, per un docente che al 1/9/2015 si trovi in questa condizione fortunata, ce ne saranno molti di più che, alla stessa data, si vedranno cancellati uno, due, tre quattro e persino otto anni di anzianità già conseguita: giacché, se la posizione stipendiale di ciascuno verrà congelata nella fascia in cui si trova, è come se tutti venissero retrocessi d’ufficio al momento in cui sono entrati in quella medesima fascia, senza ottenere più lo scatto che da anni stavano maturando. Per esempio, un docente cui nell’attuale sistema spetti lo scatto in quarta fascia a settembre 2016 (circa 140 € di aumento: lo sta maturando dal 2009), non lo otterrà mai, ma potrà solo concorrere con tutti gli altri ai nuovi mini-scatti di 60 € previsti dalla riforma, e solo a partire dal 2018; il che significa che per almeno nove anni il suo stipendio non avrà subito variazioni e che egli non potrà mai recuperare quanto perduto.
Di mini-scatti, infatti, o di nano-scatti si deve parlare, non certo di incrementi significativi. Nell’ipotesi più favorevole («potrebbero» esserci, e solo «per un docente di scuola superiore»: gli altri prenderanno ancora meno) l’aumento stipendiale alla fine di un triennio sarà di 60 € al mese. Sessanta euro oggi non bastano per un pieno di carburante di un’utilitaria; tra qualche anno non basteranno per la metà. Eppure è questa la cifra per la quale, stando al Rapporto, i docenti statali dovrebbero dar vita a una gigantesca competizione meritocratica, una gara triennale per conseguire il maggior numero possibile di crediti didattici, professionali e formativi e risultare tra i vincitori all’interno del loro istituto. Quella che si ipotizza, allora, non è una categoria di professionisti più qualificata che in passato e più consapevole di se stessa: piuttosto una massa di operai sottopagati bisognosa, o disposta a sgomitare per una manciata di euro.
E da chi sarà pagato l’aumento ai docenti con più crediti? Come spiega candidamente il Rapporto, dai loro colleghi perdenti:
«Le risorse utilizzate per gli scatti di competenza saranno complessivamente le stesse disponibili per gli scatti di anzianità, distribuite però in modo differente secondo un sistema che premia l’impegno e le competenze dei docenti. Ciò consente all’operazione di non determinare oneri aggiuntivi a carico dello Stato» (p. 57)
Ecco l’amara verità: la condizione economica dei docenti come categoria di lavoratori non migliora di un solo euro, non è previsto che lo faccia: semplicemente, a un terzo dei docenti statali verrà negata una parte della retribuzione, che finora spettava loro per contratto, e con essa verranno dati pochi euro in più, rispetto al sistema attuale, agli altri due terzi (pochissimi euro in più, necessariamente: perché quello che verrà tolto a un docente dovrà coprire gli scatti di due).
Nessun “premio, nessun maggior riconoscimento, nessun miglioramento da parte di quel Governo «che non ha esitazioni: la scuola è la priorità del Paese» e che su di essa intende «mobilitare le risorse che servono»: è lo stesso fieno di sempre, ma stavolta lanciato nel recinto lasciando che lo addentino i più “bravi”.
In questo modo, nell’ipotesi che i docenti vincitori degli scatti triennali siano di volta in volta sempre gli stessi, ci ritroveremmo dopo un po’ con un terzo dei docenti italiani ridotti per legge a una condizione di diseredati privi di dignità professionale, in condizioni economiche più che precarie e destinati, dato il sistema pensionistico contributivo, a un futuro ancora più fosco; nel caso, invece, che di triennio in triennio risultino vincitori ora l’uno ora l’altro docente, il risultato finale della gigantesca competizione sarà un ‘pari e patta’ nel quale, dopo tanto affannarsi, ciascuno si ritroverà con i medesimi magri incrementi stipendiali del sistema attuale.
Ma pensiamo anche a che cosa comporti in concreto, nella vita di una scuola, introdurre un sistema del genere. Chi farà da arbitro e da giuria, nella gara per i crediti? Il Nucleo di Valutazione. E da chi sarà composto il Nucleo? Da una parte dei docenti stessi dell’istituto, più un membro esterno (più, si può scommettere, il dirigente). Ora, l’assoluta fiducia che il Rapporto pone in un meccanismo a punti, nel quale ciascun docente dovrebbe cercare di farsi “certificare” sul proprio “portfolio” quanti più “crediti” possibili con le più disparate esperienze formative e professionali, è non solo irrazionale nella sua pretesa di identificare per tale via i docenti “più bravi”, ma smentita dalle esperienze finora fatte in tale direzione: basti pensare a quanto sono stati indotti a fare, per non essere scavalcati in graduatoria, proprio i docenti precari inseriti nelle graduatorie permanenti, un vero e proprio mercato dei crediti assai più vantaggioso per il bilancio delle agenzie private che lo hanno gestito, che per la qualità professionale dei docenti. Ma, soprattutto, solo chi non ha la più pallida idea di che cosa sia la vita di una comunità scolastica, può non vedere quanto sia esiziale una simile prospettiva. Come si può immaginare che un docente si lasci indurre a decretare, lui, a quale dei suoi colleghi spetti non dico la responsabilità di un’attività aggiuntiva durante l’anno scolastico (già questa risulta spesso una scelta delicata, e la si fa nel collegio dei docenti), ma addirittura un aumento di stipendio? E nel caso che ciò avvenga, quali danni produrrebbe una simile operazione sui rapporti tra coloro che dovrebbero attuarla e subirla? Quella comunità di persone tanto diverse per età, carattere, idee, interessi, formazione, che nonostante le divergenze, e talvolta gli scontri, si ritrova pur sempre insieme all’inizio di ogni anno scolastico per condividere la gestione di una comunità di studenti, sarebbe irrimediabilmente perversa e avvelenata da una pratica del genere. E quale sarà l’effetto sulla credibilità e l’autorevolezza del docente nei confronti dei suoi studenti, quando sarà certificato che egli non figura tra i «bravi docenti» della scuola? Invece nel Rapporto si dichiara, incredibilmente, che
«di tutti gli aspetti del nuovo sistema ce n’è uno più importante di tutti. Ed è che l’unità di riferimento per il calcolo del 66% sia la singola scuola … questo creerà un incentivo sano per tutti i docenti all’interno di ogni scuola … eviterà distorsioni e anomalie (casi di scuole dove i docenti sono sempre tutti nel primo 66%)» (p. 58)
e addirittura si sostiene che questo meccanismo perverso consentirà di aumentare nientedimeno che la coesione sociale:
«i docenti mediamente bravi, infatti, per avere più possibilità di maturare lo scatto, potrebbero volersi spostare in scuole dove la media dei crediti maturati dai docenti è relativamente bassa e quindi verso scuole dove la qualità dell’insegnamento è mediamente meno buona, aiutandole così a invertire la tendenza … il meccanismo nel suo complesso consentirà di ridurre la disparità tra scuole, e aumentare la coesione sociale» (ib.)
È un ragionamento che lascia sgomenti. Dunque: Giorgio è un docente ‘mediamente bravo’ (non bravissimo, ma neppure scarso: mediamente bravo), ma nella sua scuola non riesce ad ottenere lo scatto perché molti suo colleghi sono bravissimi. A questo punto, secondo il Rapporto, Giorgio dovrebbe pensare così: “in questo istituto mi trovo abbastanza bene, non è troppo lontano da casa, sto portando avanti un lavoro con le mie classi… però non riesco ad avere l’aumento di 60 €. Sai cosa? Potrei chiedere il trasferimento in un’altra scuola, magari più lontana, dove iniziare tutto da capo, ma che sia piena di insegnanti mediocri con pochi crediti”. A questo punto, secondo il Rapporto, i nuovi colleghi di Giorgio lo accoglieranno a braccia aperte, riconoscendo subito in lui quella media bravura di cui loro sono ancora privi; i membri del Nucleo di Valutazione gli concederanno lo scatto agognato, a scapito di colleghi che conoscono da anni e con i quali hanno lavorato fianco a fianco; l’intera scuola lo prenderà a modello per il proprio miglioramento professionale; la coesione sociale del Paese ne trarrà giovamento.
Il rapporto “La Buona Scuola”. Facciamo crescere il Paese”, si legge, «è il frutto del lavoro portato avanti congiuntamente, tra luglio e agosto 2014, dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi e dal Ministro Stefania Giannini» (p. 134).
La scuola pubblica meritava un lavoro più intelligente, più serio, più onesto.
Enrico Rebuffat
Liceo Michelangiolo, Firenze
enrico.rebuffat@teletu.it
[Immagine: Stefania Giannini e Matteo Renzi (gm)].
Un articolo da leggere per intero per scoprire a quale grado di buffonaggine può arrivare il governo Renzi.
Bellissimo articolo, concreto, documentato. C’è da preoccuparsi.
Sono d’accordo su tutto. Questa riforma è scadente e iniqua, poco articolata e con banalità sorprendenti. Altre riforme, come quella di Berlinguer non ci pacevano , ma erano di gran lunga più valide. La riforma Brocca poi era la più interessante. Poveri precari della scuola, poveri docenti! Sempre più degradati in nomite di un’innovazione che non c’è, con stipendi miseri e in mano ai Presidi, che rappresentano la burocrazia più scadente e corrotta.
Adesso apsettiamo i miseri programmi semplificati, suoerficiali, come sono le idee dei membri delgoverno. La scuola, la ricerca migliorano la qualità della vita e degli esseri umani. Va studiata bene, la riforma, e non dai Pierini che simulano un progresso e un’innvazione che richiederebbe ben altro lavoro. In effetti non c’è innovazione. Aspettiamo per domani i programmi, sapendo che saranno una presa in giro.Si parla di don Milani, ma non c’è niente di don Milani, e neanche dei maestri di strada.
Sono d’accordo su tutto. Questa riforma è scadente e iniqua, poco articolata e con banalità sorprendenti. Altre riforme, come quella di Berlinguer non ci pacevano , ma erano di gran lunga più valide. La riforma Brocca poi era la più interessante. Poveri precari della scuola, poveri docenti! Sempre più degradati in nomite di un’innovazione che non c’è, con stipendi miseri e in mano ai Presidi, che rappresentano la burocrazia più scadente e corrotta.
Adesso aspettiamo i miseri programmi semplificati, suoerficiali, come sono le idee dei membri delgoverno. La scuola, la ricerca migliorano la qualità della vita e degli esseri umani. Va studiata bene, la riforma, e non dai Pierini che simulano un progresso e un’innovazione che richiederebbe ben altro lavoro. In effetti non c’è innovazione. Aspettiamo per domani i programmi, sapendo che saranno una presa in giro.Si parla di don Milani, ma non c’è niente di don Milani, e neanche dei maestri di strada.
Da tempo non mi capitava di leggere un articolo così onesto, analitico e dal tono serio su una proposta politica di riforma scolastica.
Non è semplice smascherare gli inganni della classe dirigente senza scadere nella critica corrosiva e “gridata” dello stile talk televisivo.
C’è altro da aggiungere?
Sottoscrivo e inoltrerò ai colleghi.
Come risulta da questa analisi del rapporto governativo sulla “Buona Scuola” (“sit venia verbis!”), è evidente che le proposte di politica scolastica avanzate dal Pd renziano ricalcano quel disegno di legge Aprea, a suo tempo sperimentato in Lombardia, “consule Formigoni”, pochi mesi dopo che era stato indetto dal ministro Profumo il concorso nazionale che si è da poco concluso. Così nella lombarda Vandea berlusconiano-leghista si è dato il via alla chiamata diretta dei presidi, fornendo un esempio quanto mai istruttivo per chiunque voglia comprendere quale sia la politica scolastica, organicamente ‘bipartisan’, che si va delineando. Il principio fondamentale che caratterizza il modello di scuola proposto dal Pdl e dalla Lega Nord (con significative assonanze e riprese nient’affatto temperate anche nel campo del centrosinistra) è infatti la distruzione non solo del diritto allo studio inteso come bene realmente pubblico in quanto universale e indivisibile, ma anche della stessa libertà di insegnamento dei docenti intesa come garanzia della loro responsabilità verso la Repubblica: diritto e libertà che vengono sostituiti da una concezione dell’istruzione privatistica e mercantile, familistica e localistica, in apparenza meritocratica e in realtà clientelare.
Tale concezione, i cui germi erano già presenti all’interno della legge sull’autonomia scolastica, emerge con chiarezza dalla lettura del disegno di legge Aprea e trova conferma nelle dichiarazioni rese da Davide Faraone, responsabile del Pd per la scuola. Per rilanciare la scuola occorrerebbe, secondo la suddetta concezione, manovrare tre leve: “valorizzazione del merito e piena applicazione del principio di autonomia scolastica”, “valorizzazione del merito degli studenti” e, infine, “valorizzazione del merito dei docenti”. Come? ‘In primis’, passando per il “rafforzamento dei poteri organizzativi e disciplinari dei dirigenti scolastici con compiti di gestione amministrativa e di reclutamento del corpo docente” (il principio è, in questo caso, il seguente: “tutto il potere ai presidi!”). Proseguendo, poi, per “la promozione di una piena concorrenza tra le istituzioni scolastiche, mediante l’adozione di meccanismi di ripartizione delle risorse pubbliche in proporzione ai risultati formativi rilevati da un organismo terzo” che pubblicherà “annualmente una classifica regionale delle istituzioni scolastiche fondata su parametri trasparenti e verificabili” e attraverso “il riconoscimento alle famiglie di voucher formativi da spendere nelle scuole pubbliche o private” (ecco il sistema duale pubblico-privato con i buoni-scuola pubblici quali graziosi regali alle famiglie borghesi che scelgono di iscrivere i propri figli alle scuole private). Per gli studenti in difficoltà – prosegue il disegno di legge Aprea, echeggiato da quello del Pd e codificato dal progetto Renzi-Giannini – occorrerebbe prevedere “all’interno del piano dell’offerta formativa delle singole istituzioni scolastiche, anche consorziate tra loro, appositi moduli integrativi obbligatori che diano l’opportunità, senza oneri a carico dello studente, di recuperare nel corso dell’anno eventuali insufficienze nelle singole materie” (in sostanza, dei doposcuola ispirati al ‘capitalismo compassionevole’) e per i più bravi incentivare “gli interventi volti alla concessione di borse di studio legate al merito, ferma restando la necessità di garantire un sistema adeguato di sovvenzioni a studenti meritevoli in stato di necessità” (come sopra). Per spingere i docenti a lavorare “meglio” dovrebbe essere eliminato, insieme con il contratto collettivo nazionale di lavoro, “ogni automatismo nelle progressioni retributive e di carriera degli insegnanti” (il principio è quello ‘premiale’, laddove nel rapporto sulla “Buona Scuola” tale principio si vorrebbe addirittura coonestato dai colleghi, che dovrebbero addirittura sancire, come dei ‘kapò’, quali dovrebbero essere, sul piano giuridico e retributivo, “i sommersi e i salvati”). Infine, bisognerebbe liberalizzare progressivamente la professione docente “attraverso la chiamata nominativa su liste di idonei, con un periodo di prova propedeutico all’assunzione a tempo indeterminato”, e dare “la possibilità alle singole istituzioni scolastiche di stipulare con singoli docenti contratti integrativi di tipo privatistico” (ciò significa aggravare il precariato nella scuola, condendolo con una buona dose di clientelismo). Di fatto, la libertà di insegnare dei docenti viene vanificata, in quanto viene seccamente subordinata al diritto di apprendere degli allievi e alla libertà di scegliere delle famiglie, come se i docenti, retrocessi allo ‘status’ premoderno di istitutori privati, non fossero titolari di alcuna specifica competenza. In realtà, il famoso ‘concorsone’ di Berlinguer, contro il quale una parte consistente della categoria insorse come un sol uomo, si può paragonare ad una gentile carezza rispetto al trattamento riservato ai docenti da questo modello di controriforma scolastica, che si può paragonare invece ad una scarica di poderose pedate nelle terga, con cui i docenti vengono spediti nella fossa dei leoni di un mercato selvaggio senza troppi complimenti e con tanti saluti sia alle antiche graduatorie sia all’articolo 33 della Costituzione che garantisce contestualmente la libertà di insegnamento del singolo docente e l’indipendenza della scuola dall’esecutivo politico.
Dunque, nel quadro della ‘devolution’ regionale e dell’autonomia scolastica, che si rivelano sempre di più le teste di turco della destrutturazione della scuola pubblica, questo modello ridarà vita ad un sistema di tipo feudale-assolutistico che, oltre ad essere in contrasto con le norme di legge esistenti e con la stessa Costituzione che sancisce il carattere pubblico e nazionale della scuola, aggraverà i pesanti problemi occupazionali esistenti in questo settore (problemi che non possono essere risolti con l’albo regionale e che devono invece essere affrontati a livello nazionale con una efficace politica di stabilizzazione del personale). Non credo che occorra procedere oltre in questa sintetica esposizione. Sarebbe già una buona cosa se la riflessione su tale politica scolastica aiutasse a comprendere che il sistema dell’autonomia è il cavallo di Troia delle strategie neoliberiste in campo educativo, e che è per mantenere tale sistema che le ‘riforme’ succedutesi in questi anni hanno creato l’agenzia per la valutazione, imposto i tagli lineari e cronicizzato la precarizzazione. Il fine della legge sull’autonomia scolastica è stato ed è lo scardinamento del carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione (in cui i diversi tipi di scuola e i singoli istituti scolastici sono articolazioni settoriali e locali di un progetto educativo nazionale) e la sua sostituzione con un sistema solo formalmente pubblico, organizzato con logica privatistica in cui ogni singolo istituto, posto nelle condizioni giuridiche di procacciarsi finanziamenti e risorse (ecco il ‘fund raising’ evocato con alata espressione inglese dall’ex ministro Carrozza!), progetta se stesso in competizione con altre scuole. Il progetto Renzi-Giannini è il prodotto di una visione dell’istruzione coerente fino in fondo con le politiche neoliberiste, in cui la valutazione, intesa come strumento di ricatto, di controllo, di coercizione all’assenso e di divisione dei docenti svolge un ruolo strategico. Opporsi a questa decapitazione dei docenti (non trovo un sintagma più appropriato per definire il sistema che viene delineato nel rapporto) significa sia combattere una controriforma del sistema educativo radicalmente classista e di stampo neomalthusiano sia dare vita, durata e spessore ad un rilancio della mobilitazione unitaria degli insegnanti, degli studenti, dei genitori e del mondo del lavoro, che faccia fallire questo attacco concertato a ciò che Kant chiamava “l’uso pubblico della ragione”, difendendo il diritto allo studio e la libertà di insegnamento in una scuola pubblica e nazionale, qualificata e formativa.
Analisi molto interessante, precisa e, va detto, elegante. Però non concordo con questo tipo di valutazione.
In primo luogo c’è una questione di metodo. Su questo punto fondamentale (che è solo un aspetto della riforma proposta dal governo) il giudizio deve essere politico e non, come largamente in questo intervento, sindacale. Mi spiego meglio. Il giudizio deve essere su questo: è giusto abbandonare la progressione solo per anzianità e introdurre altre forme di distinzione nella retribuzione dei docenti? Se sì, è corretto scegliere questa via, della progressione stipendiale per merito, e non piuttosto quella di una carriera con gradini cui si accede per concorso? E se si accetta la prima opzione, la valutazione dei docenti su quali terreni deve essere fatta, e da che tipo di personale? Inoltre, è giusto limitare i “premi” a una quota del personale? Insomma, il giudizio fondamentale dovrebbe essere sulle scelte generali di politica scolastica, a partire dalle ragioni che possono (o non possono) giustificare la scelta della progressione stipendiale per merito o della carriera (o delle due abbinate). E su questo terreno ci sarebbero delle cose da dire sulle scelte del governo, ma mi riservo di farlo in un altro momento.
Invece l’intervento si concentra subito sulle questioni “tecniche” di realizzazione della riforma proposta. Ma è evidente che, se si accettasse di fare una riforma in questa direzione, molti dettagli tecnici sui livelli stipendiali e sugli scatti possono essere oggetto di trattativa sindacale.
Ho comunque qualche osservazione sui singoli punti.
Gli scatti dei docenti sono stati recuperati per gli anni 2010, 2011 e 2012; quando verranno pagati questi ultimi, a ottobre, saremo tutti indietro solo di un anno (il 2013, per il resto vediamo).
Il fatto che si parli di “due modi” di aumento stipendiale si spiega con l’intenzione del governo di rafforzare la possibilità di fare ore aggiuntive.
Non si tratta affatto di “mini-scatti” o “nano-scatti”. Per un docente delle superiori lo scatto di anzianità ogni sei anni è adesso intorno ai 160 euro lordi, cioè 80 lordi su tre anni. Quindi i 60 netti corrispondono più o meno a questo livello. A meno di definire “nano-scatti” gli scatti di anzianità.
Concordo sul fatto che limitare al 66% la platea di chi può accedere agli scatti è scorretto, perché genera meccanismi perversi. Ma allora dobbiamo garantire dei meccanismi che evitino dei premi “a pioggia”.
E concordo anche sul fatto che la valutazione non va fatta da colleghi interni, bensì solo da ispettori esterni.
Renzi agli Italiani: “Volete un posto di lavoro fisso, anche se non è fisso perché sempre sotto il ricatto del licenziamento da parte di apparati economico-burocratico-manageriali, un posto di lavoro economico-burocratico-manageriale anche se sei un insegnante e quindi dovresti insegnare la critica costruttiva di ogni apparato compreso quello economico-burocratico-manageriale? Volete un posto di lavoro fisso in cambio di qualsivoglia dignità personale? in cambio di mentire anche a voi stessi (perché non si tratta di lavoro ma di schiavitù e non è fisso ma sotto quella spada di Damocle economico-burocratico-manageriale sotto la quale sto bellamente anch’io)? Volete un posto di lavoro (togliamo il “fisso”) in cambio di uno Stato senza cittadini (se per essere un cittadino bisogna essere prima una persona)? Volete una macchina, senza però poterla guidare perché la guida un pilota automatico che vi fa scendere quando vuole lui? Ecc. Ecc.?”
Gli Italiani a Renzi: ” … ”
Commento: se – e te lo dicono per primi i sindacati: provate a contattarli – basta un lavoro qualsiasi esso sia, perché non andiamo in massa tutti e 60 i milioni che stiamo in Italia a prostituirci ai 60 milioni di cinesi più ricchi (ce ne saranno, su di un miliardo …)? Quest’ultimo piano sarebbe stato se non altro più onesto di quello millantato dal disgoverno Renzi.
Anch’io sono d’accordo con Piras sul fatto che l’articolo è una critica molto dettagliata sui particolari delle proposte del governo sulla scuola ma non è chiara la posizione dell’autore dell’articolo sulle linee generali del governo relative alla politica sulla scuola in quanto se si è in disaccordo con le applicazioni particolari delle linee generali allora è possibile una contrattazione, cosa non possibile se si è in disaccordo radicale sulla linea politica di fondo del governo.
Mi piacerebbe inoltre che i critici della linea politica di fondo del governo proponessero anche loro una loro riforma ideale, in modo da capire quali concrete soluzioni alternative essi vorrebbero ai problemi reali che si ritiene presenti nella scuola, problemi che possono includere alcuni non individuati dal governo ed escludere altri individuati dal governo che si ritiene non presenti in realtà nella scuola attuale. Di fatto a me pare che molti critici delle riforme degli ultimi governi, in primis i docenti, stiano semplicemente sulla difensiva, avendo magari buone ragioni per criticare le proposte di riforma degli ultimi governi, ma senza rispondere con richieste di reali proposte di cambiamenti radicali necessari nella scuola. Mi piacerebbe sapere ad esempio cosa pensano i vari docenti di proposte di alternanza scuola-lavoro obbligatori per tutti gli indirizzi, proprio in questi giorni ho letto dall’ultimo rapporto OCSE del fatto che in Italia è altissimo l’abbandono scolastico e che legare il sistema educativo al lavoro fa contenere gli abbandoni, il punto è che spesso i critici dell’alternanza scuola-lavoro gridano alla “aziendalizzazione”, “tecnocrazia” e “mercificazione” del sapere, come se esistesse ai giorni d’oggi ancora una divisione netta tra sapere teorico e astratto e operare pratico e concreto dove chi si occupa della prima attività non avesse bisogno della seconda e viceversa. Magari è meglio non dilungarci in questa sede ma questo è soltanto un esempio di come una linea generale di politica della scuola può essere affrontata e che influenza fortemente le azioni pratiche di riforma di essa.
Gentile Collega,
La ringrazio di cuore per questo intervento che ha il merito, a mio parere, di sottolineare – e di affrontare adeguatamente – le questioni che per prime devono essere messe a fuoco in una discussione di commento alla proposta governativa sulla scuola.
Farò quanto posso per diffondere la sua riflessione.
Buon lavoro,
Alessandra C.
Ringrazio anch’io il collega per la precisione e i calcoli dettagliati.
Nello specifico, e per portare un altro argomento a una critica radicale a queste linee guida (notato che oggi a criticare radicalmente bisogna preliminarmente discolparsi, come a dire “presunzione di colpevolezza fino a prova contraria”?), linee guida che sono pessime da tanti punti di vista, faccio notare il seguente passaggio: “A seguire è riportato il cronoprogramma, che mostra come il concorso sarebbe bandito ad inizio 2015, dopo che in autunno sarebbero state trovate le risorse per il piano straordinario descritto sopra”.
Il piano straordinario “descritto sopra” consiste, semplicemente (ecchessaràmai!), nell’esaurimento totale di tutto il precariato, per indire poi nuovi concorsi e procedere all’assunzione dei laureandi, circonfusi dal radioso sol dell’avvenire. Nel concreto: si esauriscono prima le Graduatorie a esaurimento (cioè si assumono tutti i sissini), poi i vincitori di concorso, poi gli idonei del concorso. E attenzione: le graduatorie a esaurimento, che nessun governo ancora è riuscito a esaurire in più di dieci anni, Renzi vorrebbe esaurirle in un solo anno.
Perché non ci credo e anzi dico, a costo di sentirmi dare del conservatore, che ci stanno prendendo in giro? Per due ragioni: 1) le previsioni di regolarità hanno ancora un senso per conoscere. Se la regola è stata che nessun governo è stato in grado di esaurire le Gae, vuol dire che, a parte le volontà maligne, c’è qualcosa di strutturalmente insano nel sistema di reclutamento e neanche mago Merlino potrebbe risolvere i problemi in un anno, neanche se lo aiutassero fata Morgana, il re Negromante e Giucas Casella.
2) Forse anche Merlino è impotente, ma i soldi possono molto. Se ci fosse un investimento davvero ingente (nell’ordine, pensionamenti in massa, poi assunzioni in massa) forse il piano del Miur funzionerebbe (diciamo per metà del precariato, che già sarebbe un miracolo?). Ma leggendo tutto il documento, e leggendo il passo che ho citato, si capisce che i fondi ancora non sono stati trovati (l’autunno è sempre la stagione dei buoni auspici e del wishful thinking, come il primo dell’anno): siamo ai “pagherò”.
“Dopo che sarebbero stati trovati” (e che razza di condizionale è, anzi sarebbe?). Delizia degli slalom linguistici, in cui però poi s’inciampa. Da un piano di assunzioni ci si aspetterebbe qualcosa come “abbiamo trovato questi fondi e li impegneremo così e così”. Tollerabile linguisticamente ma sospettissimo sarebbe “troveremo i fondi”. Ma “dopo che sarebbero stati trovati i fondi” è sublime, per eccesso di ridicolo; contiene addirittura due piani di virtualità, due tempi futuri ipotetici soltanto premessi i quali, si otterrebbe la conseguenza fatta di ciccia e sangue, di realtà: le assunzioni.
Si discolpi chi crede all’effetto delle formule magiche sulla realtà fisica.
(Nota di realtà: in provincia di Torino, per la classe A037, storia e filosofia, ancora non hanno immesso in ruolo neanche UN sissino del PRIMO ciclo. Questa è la realtà, bellezza. Il resto è Renzi)
Grazie per questo articolo.
Una breve risposta (spero) ad alcuni degli interrogativi sollevati da Mauro Piras e da Michele, che ringrazio.
Il fatto che l’analisi che ho proposto affronti solo alcuni aspetti del rapporto “La Buona Scuola”, e lo faccia prevalentemente dal punto di vista economico (un taglio “sindacale”, se si vuole: ma che questo, parlando di scuola, sia diventato un termine riduttivo e quasi negativo la dice lunga sulla condizione della categoria), ha sollevato due critiche: non ha molto senso sviluppare un’analisi economica e sindacale sul tema, senza subordinarla ad una presa di posizione più generale sui princìpi, a un discorso anche di ordine politico; è troppo facile stigmatizzare determinati elementi di una proposta complessiva senza proporre nulla di alternativo.
Comprendo il desiderio di una riflessione più ampia e completa; ma sinceramente dubito che, se avessi soddisfatto questi desiderata, la mia analisi sarebbe risultata più utile. Lo scopo del documento era quello di chiarire e di sottoporre a controllo alcuni elementi del rapporto “La Buona Scuola”, nel quale Renzi-Giannini annunciano con enfasi i significativi miglioramenti che la loro riforma apporterà alla condizione dei docenti dal punto di vista professionale e, appunto, economico. La mia valutazione è che gli autori del rapporto non presentino le cose in modo obiettivo e corretto, anzi utilizzino artifici dialettici e retorici per persuadere il lettore della bontà di una riforma la quale, al contrario, non è migliorativa sul punto ma peggiorativa. In tal senso l’analisi, ancora prima che sindacale, si potrebbe definire filologica. Le mie personali opinioni generali sulla scuola o sulla questione della carriera e del merito, quali che esse siano, non esimevano il Governo e il Ministero dell’Istruzione dal presentare in modo corretto e onesto la loro riforma in un documento rivolto alla nazione; e tantomeno potrebbero modificare, o addirittura cambiare di segno i dati economici che interessano la categoria, se essi sono negativi come a me risulta dalla lettura del rapporto. Difficilmente, d’altro canto, si può prendere una posizione politica consapevole contro o pro una riforma, se le sue applicazioni e conseguenze concrete sono presentate da chi la avanza in modo poco chiaro, artefatto o, addirittura, mistificato. In questo senso, un lavoro di umile filologia sindacale può tornare utile anche alla politica.
A mio avviso abbiamo molto bisogno di analisi puntuali di aspetti precisi, anche e soprattutto in materie così vaste e complesse come la scuola, anche e soprattutto quando si vuole discutere di princìpi e di politica. Di esempi se ne possono fare anche troppi; io ne faccio solo uno, che però conosco bene. Qualche anno fa, in occasione della cosiddetta “riforma Gelmini”, il piano orario del liceo classico fu modificato introducendo nel primo biennio l’insegnamento delle scienze; ma dato che, allora come oggi, nel nostro paese le riforme e le rivoluzioni si vogliono fare “a costo zero”, a compensazione delle due ore in più di scienze furono eliminate un’ora di italiano e una di geografia (quest’ultima, dotata ormai di un’unica ora settimanale, fu per pudore accorpata alla storia creando una pseudo-materia chiamata “Storia e Geografia”). Allora non ci fu, che mi ricordi, una gran discussione culturale sul tema, e ciò fu grave; ma mancò anche un’analisi puntuale. Se la si fosse svolta, si sarebbe presa consapevolezza del fatto che quello scambio di ore comportava, tecnicamente, uno stravolgimento del liceo classico nelle sue fondamenta: perché? Perché i docenti di materie letterarie della classe di concorso A052, il cui orario di cattedra rimaneva invariato a 18 ore di lezione, non avrebbero più potuto essere assegnati alle classi in modo razionale – latino e greco in una classe (9 ore), ad esempio, e italiano e storia e geografia in un’altra (9 ore prima, ma 7 dopo la riforma): per fare 18, sarebbe stato necessario scomporre e ricomporre ogni anno l’orario di ciascuno nei modi più disparati. Ecco la ragione per cui, nel mio istituto, quest’anno gli studenti della I C inizieranno il loro liceo classico con: un docente A che insegna italiano, un docente B che insegna latino, un docente C che insegna greco, un docente D che insegna storiageografia; ed è possibile che l’anno prossimo proseguano il loro corso di italiano con un docente E, e che a latino debbano adeguarsi al metodo di un docente F, o chissà cos’altro. Per la stessa ragione, da tre anni a questa parte, a me non viene più assegnato l’insegnamento del latino (io “faccio 18” con: due italiani, due storiageografia e un greco), mentre altri colleghi non insegnano più il greco o l’italiano. E sempre per la stessa ragione il libro di testo X, scelto dal docente A l’anno scorso pensando alle proprie esigenze didattiche, viene quest’anno utilizzato dal docente B, che magari ha esigenze diverse; il quale naturalmente aveva scelto per sé un testo Y che, invece, è finito nelle mani del collega C, che adotta un metodo completamente diverso. Non sono questi problemi di poco momento, considerato il legame profondo che esiste tra la didattica di queste discipline, l’importanza della presenza di un docente di riferimento nel biennio ginnasiale, la necessità della stabilità delle cattedre perché sia possibile scegliere bene i libri di testo e progettare delle innovazioni. Il danno prodotto da dilettantismi riformatori di questo genere colpisce tutti, qualunque opinione generale e politica si abbia sulla scuola: è interesse di tutti che essi siano messi in luce, e lo si può fare solo con analisi puntuali che entrino nel merito tecnico delle questioni.
E le proposte alternative, si dice? Possibile che i docenti sappiano solo criticare le ipotesi altrui? Questo è un argomento passepartout frequentemente invocato, ma non so quanto a ragione sul punto che ho trattato nel mio documento. È certamente auspicabile, e sarebbe magnifico, che i docenti come categoria fossero capaci di far sentire la loro voce in modo il più possibile unitario sulle questioni che riguardano la scuola. Purtroppo siamo lontanissimi da ciò, anche perché la consapevolezza stessa di appartenere a una categoria appare piuttosto fievole in molti insegnanti, che magari lavorano tanto e in modo professionale, ma non riescono ad accendere in sé né la coscienza politica del lavoratore, né il protagonismo del professionista. Ma se tu, ministero dell’istruzione e mio datore di lavoro, mi proponi una riforma della professione docente che non migliora la mia condizione di lavoratore, non vedo perché il mio diritto di critica, di dissenso e se necessario di lotta dovrebbe essere vincolato alla presentazione, da parte mia, di una proposta alternativa.
Vedremo come si svolgerà e quale effetto sortirà «la più grande consultazione – trasparente, pubblica, diffusa, online e offline – che l’Italia abbia mai conosciuto finora». Il mio timore, e spero di sbagliarmi, è che il suo obiettivo non sia tanto raccogliere ed eventualmente recepire proposte alternative, quanto legittimare quelle che si sono formulate.