cropped-2006-10-30-ent_kings3.jpgdi Remo Ceserani

[Questo intervento è uscito su «Alias – il manifesto»].

È stata una buona idea quella delle case editrici 66thand2nd e Feltrinelli, di pubblicare nella nuova traduzione di Michele Martino il classico romanzo di Robert Penn Warren Tutti gli uomini del re, a suo tempo (1946) insignito del Pulitzer Prize e reso famoso da una trasposizione teatrale curata dall’autore stesso e messa in scena nel 1947 a New York dal grande regista tedesco Erwin Piscator, e poi da una trasposizione televisiva diretta da Sidney Lumet (seguita da altre di altri registi) e da due trasposizione cinematografiche, diverse ma entrambe interessanti, una più libera diretta nel 1949 da Robert Rossen con Broderick Crawford nei panni del protagonista e l’altra, più fedele al romanzo, diretta da Stevan Zaillian, con Sean Penn come attore principale (tre premi Oscar). Il romanzo era già uscito in traduzione italiana nel 1968 da Garzanti (ripreso dal Club degli editori), ma la nuova edizione ha il vantaggio di basarsi su una versione originale restaurata a cura di Noel Polk e pubblicata da Houghton Mifflin Harcourt. Essa è in più punti diversa da quella che abbiamo letto tutti, con un nome diverso del protagonista – non più Willie Stark ma Willie Talos –, con molte varianti e divisioni diverse dei capitoli.

Il titolo del romanzo si ispira a una nota filastrocca popolare inglese: «Humpty Dumpty stava su un muretto/ cadde rotoloni a capofitto/ provarono a rimetterlo insieme/ tutti i cavalli e gli uomini del reame/ ma i loro tentativi non ebbero effetto». Il tema principale del romanzo è l’avventura politica di un ex contadino divenuto avvocato, asceso di prepotenza all’ufficio di governatore in un immaginario Stato del Sud e proiettato a divenire senatore e forse presidente degli Stati Uniti, assassinato per ragioni del tutto private, dietro al quale non si fa fatica a riconoscere la figura del governatore della Louisiana Huey Long. Siamo quindi nel genere del romanzo politico e del sottogenere tipicamente americano (ripreso anche di recente in romanzi e film) delle storie di governatori e presidenti del paese, delle trattative politiche, delle campagne elettorali. Il tema del populismo può spiegare sia la ragione della grande fortuna anche cinematografica del romanzo di Warren, sia forse la ragione dell’attuale ripescaggio italiano, essendo il populismo grande tema delle nostre cronache politiche.

In realtà il romanzo (unico scritto da Warren) racconta molto di più di una sensazionale storia di ascesa e catastrofe politica. Alla storia principale (che è stata naturalmente privilegiata dalle riduzioni teatrali – complice la teoria del «teatro politico» di Piscator – e anche da quelle cinematografiche) se ne intreccia un’altra, molto più sostanziosa e accompagnata da molte inserzioni saggistiche, appartenente invece al genere del romanzo di formazione. Il vero protagonista è Jack Burden, studente di storia che non ha concluso gli studi, giornalista, uomo di fiducia e addetto stampa del governatore: il capo (il boss). Burden è chiaramente proiezione dell’autore. Warren uomo del sud, cresciuto nel Kentucky, vicino un tempo al movimento politico dei «Southern Agrarians» (nemici dell’industrializzazione scesa dal Nord a stravolgere la società tradizionale del Sud), con sulle spalle il peso (in inglese il peso è burden, come il cognome del personaggio) della storia atroce della Guerra civile americana. Warren è stato più tardi attivo nelle cause sociali e contro le discriminazioni razziali. È stato esponente con John Crowe Ransom, Cleanth Brooks e altri del movimento letterario del «New Criticism»: con Brooks ha curato importanti antologie per l’insegnamento della letteratura nelle scuole e nell’Università. Ammirava Faulkner, a cui l’amico Brooks ha dedicato studi importanti. La presenza di Faulkner, pur nella diversità degli stili, si avverte in Tutti gli uomini del re. Warren era autore anche del bellissimo racconto The blackberry winter e, come poeta raffinato, di celebri liriche: anche di queste capacità si avverte la presenza nel libro, in particolare in tante belle descrizioni naturali, in tanti momenti lirici di meditazione interiore, nella sovrabbondante presenza di metafore ispirate alla vita della campagna, della gente, degli animali nei torridi Stati del Sud.

Si tratta, va anche detto, di un romanzo di formazione abbastanza speciale: la parabola del protagonista (che rappresenta simbolicamente quella di tanti giovani americani, sia del Sud che del Nord) va dalla fiducia ingenua nelle gioie della vita, dell’amicizia, dell’amore alla lenta (molto lenta, perché il ritmo della narrazione è volutamente pacato, meditabondo) presa di coscienza sempre più amara della presenza insidiosa del male e della corruzione in tutta la società e anche dentro la vita di persone ammirate, come la madre, la donna amata, il vecchio giudice e il vecchio governatore amici di famiglia e sempre ammirati. Un po’ alla volta, anche grazie al freddo metodo storico imparato da studente, Burden scopre che la madre è persona dedita solo a se stessa, al lusso, al piacere, colui che egli credeva il padre è un povero vecchio in preda a crisi religiose, il vero padre ha un passato da nascondere (e per preservare la sua integrità morale è costretto al suicidio), la donna amata, compagna di giochi e confidenze, lo ha tradito per ambizione legandosi al governatore, l’amico più caro diventa un assassino, la corruzione è dovunque e il suo grande eroe, il boss, ha sì una vitalità ammirevole, ma anche debolezze imperdonabili.

I suoi pensieri e le analisi sempre più approfondite della coscienza e dei sentimenti echeggiano talvolta le posizioni dell’esistenzialismo e di Camus. Esse si fanno mano a mano sempre più amare e sboccano in pensieri come: «La Vita è un fuoco che brucia lungo una corda – o è forse la miccia di un barile di polvere da sparo che chiamiamo Dio? -, e la corda è ciò che noi non sappiamo, la nostra Ignoranza, mentre la scia di cenere che conserva la struttura della corda, sempre che non arrivi una folata di vento, è la Storia, la Conoscenza dell’uomo, ma è cosa morta, e quando il fuoco avrà bruciato tutta la corda la Conoscenza dell’uomo sarà uguale alla Conoscenza di Dio, e non vi sarà più alcun fuoco, che è la Vita»; oppure: «Gli studenti di storia imparano che l’essere umano è un marchingegno molto complicato e che non ci sono buoni e cattivi ma solo buoni-e-cattivi e che il bene viene dal male e il male viene dal bene, e gli ultimi se li prende il diavolo».

La nuova traduzione è scorrevole. Ci sono le inevitabili imprecisioni dovute a scarsa familiarità con la cultura biblica (le gerarchie angeliche dei troni, dominazioni e potestà diventano «ministri, regnanti e sovrani») e soprattutto con l’enciclopedia culturale (flora, fauna, cibi, proverbi, filastrocche), e le espressioni idiomatiche e strascicate degli Stati del Sud (i red-necks perdono la connotazione sociale e razziale dei lavoratori bianchi poveri e prendono quella religiosa dei «bigotti» e i niggers perdono il sapore razziale e paternalistico diventando semplicemente «negri»). E c’è qualche libero adattamento al nostro mondo, che è ormai lontano dagli anni Trenta, e così il tizio lop-haired (dai capelli a ciuffo) e swivel-hipped (mobile sui fianchi), che scrive commedie in un quartiere squallido di Memphis diventa un «artista capellone» degli anni Sessanta; i personaggi così fortemente connotati come americani del sud, rustici e volgari ma anche timorati del dio biblico e con il rispetto tradizionale dell’onore, diventano un po’ improbabili quando esclamano: «Vaffanculo a questo posto del cazzo».

[Immagine: Steven Zaillian, All the King’s Men (gm)].

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