cropped-Texas.jpgdi Renata Morresi

[Questa è la nona puntata della rubrica dedicata alle piazze a cura di Adelelmo Ruggieri. In precedenza erano usciti i testi di Enrico CapodaglioFranca MancinelliLinnio AccorroniEliana PetrizziMarilena RendaEnrico De VivoAntonella Anedda e Nadia Agustoni].

L’ho subito cercato, il posto dove ci si vede, trova. Nella mia testa ingenua doveva essere la piazza, la piazzetta, il corso, o almeno, come negli anni dell’adolescenza più opaca, il bar della stazione e, soprattutto, il cassonetto all’angolo. “Ci vediamo al buzzico”, “Ci troviamo là” – si diceva, forse persino un poco compiaciuti dello squallore (ma no, c’eravamo troppo nati per esserne coscienti). Non era la stessa cosa a Austin, Texas. Il primo giorno, dal quindicesimo piano della mia stanza allo studentato guardai nella notte sfolgorante di luce della capitale, così costellata di giallo e di rosso, così fiammeggiante di centomila radiazioni, così brulicante che sembrava bruciare tutti i petroli del South-West. Guardai il rettangolo celeste-ciano della piscina al piano terra, e i contorni squadrati d’un cielo di grafite e scie violacee, e i grandi lego imponenti montati in bilico su di uno sfondo ampio di deserto. Guardai persino il vetro, mi ricordo, pensando ad un acquario. Dal silenzio ronzante della mia stanza condizionata guardavo, guadavo la mente. Sarei andata lì, e lì, decisi, tracciandomi come una punta di matita per le strade, a vedere, trovare. Voleva tutto la testa tutta sola. Niente era così lineare. Il giorno dopo, da sotto, coi 105 Fahrenheit e il vento caldo e secco, ogni cosa era a un’altra distanza. Le strade larghe venti metri, il numero civico mille e oltre. L’unico negozio raggiungibile a piedi, lo store di una stazione di servizio, ciascun cibo un diverso colore luminescente. Per strada c’ero io, c’era qualche barbone. I marciapiedi lisci e lunghi come tappeti, privi di gradini, appoggi, maniglie, insenature, erano scivoli urbani. Palazzi e grattacieli sembravano non avere facciate, solo fianchi, finestre a specchio senza impugnature, oggetti impermeabili. Non vi era motivo di sostare. Neanche i vagabondi riuscivano a indugiare. Qui forse starebbe bene un pensiero su quanto scivola la vita (eppure è ispida, raspa). Scoprii poi che anche altri posti manifestavano la stessa istanza di liscezza, evasività. Appena fuori città leggevi lungo le grandi strade provinciali, filmicamente lunghe-lunghe: divieto di fermata, pericolo, no standing, trespassers will be shot. Dov’erano gli altri?

Frequentavo la biblioteca giorno e notte – era aperta per tutte le 24 ore – ma al mio arrivo, in piena estate, giravano pochi studenti sparuti, e io languivo tra le miglia di scaffali e le stradine del campus. All’entrata dello stadio di football campeggiavano in enormi lettere di metallo i nomi delle guerre americane, una stella per ognuna, stella di Corea, stella del Vietnam, dell’Iraq, eccetera. Andai a una riunione di un gruppetto radicale. Organizzavano un sit-in di protesta contro lo stato della detenzione nel carcere femminile. L’appuntamento in un posto per me muto della mappa. Il giorno stabilito convinsi un nuovo amico a portarmi lì. Pensavo saremmo stati su una piazza, o almeno a un incrocio. Invece, dopo molto esitare, trovammo il luogo all’interno di un’aria presidiata. Era un’ora buona dopo l’orario concordato. La guardia ci guardò perplessa, sollevò la sbarra e passammo, ma la manifestazione era già stata sgombrata. Fernando, questo amico, l’avevo incontrato in una pizzeria italiana, di quelle con la scritta PEETSA che non sai se è davvero per gioco. In pochi minuti decidemmo di risalire sul suo truck e andarcene a un concerto trance-dance in un club da qualche parte in città. Era un giovane studente chicano molto cattolico e appassionato di erba. Non ricordo nulla di quello che ci dicevamo. Credeva, ecco, nella purezza. Di cosa? È passato troppo tempo. Io funziono solo se incontro qualcun altro. Da sola mi perdo. E sono costretta a deviare di continuo, a incontrare l’estraneo, per ricordarmi che sono.

Presto capii che a girare a piedi o con i mezzi pubblici non si arrivava mai là dove ci si poteva vedere, trovare. Una domenica un’amica (Maria, dipartimento di francese) mi portò al suo Country Club sul fiume, e lì scoprii, o mi parve di scoprire, dove finivano tutti dopo il lavoro e nei fine settimana. Ricordo un fiume apparentemente addomesticato in mezzo a un verde perfettamente selvaggio. Ti potevi fidare? È lì che che c’era il giro, mi assicurò Maria, ma bisognava pagare. Io studiavo, poi percorrevo a caso isolati di campus o dragavo la Sesta strada o The Drag. Di giorno brevi sortite, per il gran caldo. Meglio la notte, malgrado gli enormi scarafaggi volanti che invadevano le strade dopo il tramonto. Trovavi sempre qualcuno che faceva finger-picking in un bar, sulla veranda o nel retro, seduti a caso sotto lucine di carta, carezzavano le corde come a cullarci. Si stava bene con questi sconosciuti. “Le ore belle sono degli altri o non esistono”. Avevo imparato a chiedere passaggi, farmi portare qua e là, lasciarmi scorrere sulla corrente umana, affidarmi a qualcuno per intuire la densità. Abbordavo i nuovi amici nei momenti di passaggio da uno stato all’altro. Ricordo una attesa al semaforo e un attraversamento di strada durante il quale incontrai Tom, che sulle strisce mi indicò la torre dell’Università che ci stava di fronte e mi raccontò di come un giovane nel 1966 si fosse affacciato da lì con un’arma e avesse ammazzato 16 persone. (Questa è la storia della mia amicizia con Tom; il massacro invece era andato avanti per un paio d’ore).

Abuu, il mio amico rasta texano suonatore di djembe, mi portò a vedere l’edificio più antico della città, un albergo dell’ottocento e qualcosa. E poi l’albero più antico, ora non so più quanto. Lui l’avevo conosciuto nuotando in piscina (io nuotavo, lui studiava al piano numero 7). Un giorno lo accompagnai a casa di un’amica malata. Una casa stipata di cose, cumuli di cose, cumuli di libri, giornali, cartoni, lampadine, coperte, tetrapak, barattoli di marmellata, foto, scarpe, portavivande, posate di plastica, borse, tenaglie, chiavi, le cose di una vita e altre. L’amica era molto dolce. Sedemmo in un angolo del tappeto, dove era rimasto un poco di posto, e mentre parlavamo delle poesie di Langston Hughes mi addormentai. Guardavo il telefono, con i tasti grossi e i numeri giganti – lei stava perdendo la vista per via del diabete – e ascoltavo che l’amore è un’ombra nuda, baby, e dormii.

Un altro giorno con Dana, una soldatessa indiana pueblo, conosciuta ad un concerto, visitammo il Campidoglio texano, cioè la sede delle camere e del governatore. Fui sorpresa di notare quanto assomigliasse al Campidoglio ‘vero’. Ho una foto all’interno, seduta sul grande mosaico posto in terra a rappresentare il sigillo dello stato del Texas, one and indivisible. Io, vista dall’alto, me ne sto grossomodo semi-distesa sul “div”.

Pat aveva una gamba finta, di giorno lavorava in biblioteca, la notte faceva il tecnico del suono a teatro. C’eravamo conosciute al banco prestiti. Aveva un anello indiano ad ogni dito, aveva cercato sua madre per tutta l’America, aveva perso la gamba in un incidente stradale. Non aveva mai trovato la madre naturale, al contrario di sua sorella, anche lei adottata. Questa era una donna rimasta incinta giovanissima, che soffriva di narcolessia. Erano partite insieme, le due sorelle, per andare a trovarla e avevano una ripresa video del loro primo incontro. La madre ritrovata, di tanto in tanto, si assopiva. Il sonno si gonfia come un pallone aerostatico – diceva – mi fa vedere il mondo.

Bill lo incontrai per le scale del cinema. Io uscivo da Pi greco, lui entrava a Hands on a hard body, dove in realtà poi non entrò, perché appunto rimanemmo sulle scale, a parlare. Studiava animali di grossa taglia a Helena, Montana. Aveva lunghi capelli navajo e una gran passione per la bicicletta. Questi sono solo dati, sì. Ma, credetemi, hanno molto significato. Cosa c’è, in fondo, a parte la descrizione?

Un giorno ce ne andammo a Fredericksburg, nel parco che era stato un luogo sacro per i nativi, un corpo di colline di roccia nel mezzo del vuoto. Perché vuoto? Di cosa deve essere pieno un luogo? Era una regione di enormi massi sulla pianura, da qualche parte sul pianeta colmo di sé. Arrivammo un tardo pomeriggio. A stenderti addosso alla terra la sentivi irradiare calore. Il ranger ci aveva raccomandato di scendere prima di notte perché era facile perdersi al buio. Che fu proprio quel che accadde. Fumammo erba guardando un cielo dieci volte più fondo, con occhi dieci volte più larghi. Perdemmo l’orientamento. Prendevamo tratti impervi, non c’erano sentieri e seguivamo i rovi, tornavamo sui nostri passi, obbedivamo a improbabili luci, strisciavamo sulle zampe, lasciandoci scivolare lungo le pendenze più insidiose. Il buio e il fumo ci avevano confuso, e i soliti discorsi sull’essere, il non-essere e l’essere un po’ meno, e le allucinazioni avevano fatto il resto: le metamorfosi di Bill da scarabeo a giraffa a cane dalle lunghe orecchie morbide e il mantello pezzato, e il mondo come gomitolo che si dipanava dal mio ombelico, mentre io a mo’ di pangea a galla sul cosmo sanguinavo dalle mani, bucate da saette, lampi del temporale che imperversava molte miglia più in là, ma già troppo vicino per restarsene all’aperto. L’angoscia di questo doversi ritrovare, perché la natura è un pericolo, la natura può far male, diluiva nel candido stupore di vedersi oceanina e mobile, mutante naturale. Correre, correre, correre con una mandria di me e sfiatarsi appena un attimo prima di smettere chi ero.

Occorsero molto tempo e molti giri a vuoto e incespicare e accucciarsi sulle pietre e dirsi cose strane, ma riuscimmo a riemergere da quel limo liquido pastoso. Prima fui solo una testa di sughero a galla, flottante verso riva, poi una bottiglia che recupera contenuto, quindi un tronco sbattuto sulla battigia, infine un ex-invertebrato, un secondo dopo lo scatto evolutivo. Ero sulle mie gambe, arrivata ai piedi della collina, a un largo spiazzo, dalla parte opposta – scoprimmo poi – a quella da cui eravamo saliti. A qualche centinaio di metri si vedeva il profilo delle tende di un campeggio. Tra noi e l’accampamento uno spiazzo brullo di sterpaglie con dei cartelli con su scritto “Attenti ai serpenti”. C’era qualcuno, un ombra piccola, scavava. Si aggirava in quello slargo di confine un armadillo, con la sua armatura mobile, le placche cromate che balenavano nel buio, e il naso lungo. Vedeva nell’oscurità, cercava nutrimento, avrà trovato larve, lucertole scincidi, radici. Tornammo a notte fonda dagli altri amici.

[Immagine: Fredericksburg, TX, Main Street (ar)].

2 thoughts on “C’è qualcuno

  1. Un raccontare davvero bello, le immagini si imprimono, c’è qualcosa dell’America di Dick e dell’America profonda in cui levigatezza e violenza circondano un non abitare, un senso di precarietà e di stare in movimento più per forza che per convinzione.

  2. Mi colpisce sempre di te, Renata, come riesci ad avvicinare le cose al naso di chi legge, non con esplicatività ma con calore di cuore, con un affetto che non potremmo non provare neanche per gli oggetti più ostili.
    Tantissimi gli spunti su cui fermarsi a pensare, personalmente sopra tutti la lapidarietà disarmata di “Cosa c’è, in fondo, a parte la descrizione?”. Noi disegniamo ogni giorno sul nostro registro interiore i volti le atmosfere i dialoghi le propsettive i labirinti le smanie e i sorrisi che vediamo, negli altri e in noi, una descrizione che, uniti i puntini dell’enigma, ci fa sbattere le palpebre e schioccare le dita e accendere di rabbia e delusione.
    Come sempre, grazie,
    mdp

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