di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci
[Il 18 settembre, per la collana “fuoriformato nuova serie” di L’orma editore, è uscito Condominio Oltremare (pp. 176, con 59 fotografie), di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci. Ne presentiamo un estratto].
Sono arrivato ieri, un lunedì di gennaio, pochi minuti dopo il tramonto, a ventisette anni di distanza dal mio ultimo soggiorno a Lido delle Nazioni. Ero l’unico passeggero a bordo del pullman, non volevo chiedere informazioni all’autista che mi scrutava sospettoso nello specchietto. Il suo sguardo era la certificazione tardiva dell’età adulta, della diffidenza reciproca, e solo quando mi sono alzato per avvicinarmi alla porta d’uscita c’è stato il sollievo inespresso di entrambi, tanto che mi è sembrato di essere accompagnato su un vecchio scuolabus. Temevo di proseguire in direzione dell’entroterra, sono sceso appena ho riconosciuto una fermata d’autobus della mia infanzia vacanziera. Ho appoggiato il trolley nel piazzale deserto. Ero nel parcheggio del Lago delle Nazioni, un lago artificiale salmastro scavato negli anni Sessanta. Da bambino mi stancavo della spiaggia, avevo bisogno di qualcosa di esplicitamente finto, pura apparenza che ricordasse l’Idroscalo di Milano. Pedalavo per un paio di chilometri, imboccavo una via molto larga, passavo davanti al Residence Galattico – un complesso di villette con il custode all’ingresso – e dopo trecento metri si apriva sulla destra un grande parcheggio, spropositato rispetto alle esigenze. Compravo il ghiacciolo al piccolo bar, mi sedevo su un gradino all’ombra, nell’angolo del semicerchio di cemento che cingeva lo specchio d’acqua sul quale volavano e atterravano gabbiani, sembravano tanti pezzi di carta bianca sganciati da un piccolo aereo, come si usava in quegli anni per distribuire i volantini pubblicitari in modo eclatante. Vivevano aironi, cormorani e altre specie di uccelli che studiavo nei sussidiari e avrei presto dimenticato. Arrivavano fidanzati in motorino, coniugi di ogni età, a volte coppie di amanti. All’inizio non sapevo bene cosa fossero gli amanti, ma notavo l’assurdità di raggiungere il parcheggio del lago con due macchine differenti: scendevano dalle rispettive auto per andare a bere qualcosa al
bar o sedersi abbracciati su una delle panchine. Gli amanti guardavano la superficie e il modesto orizzonte del laghetto, ciascuno con la testa leggermente inclinata su quella dell’altra, sembrava si dovessero staccare dai colli, senza quel miracoloso punto di equilibrio, presto interrotto dal simultaneo movimento grazie al quale si baciavano. Dalle panchine del parcheggio il cemento degradava verso l’acqua tramite due scalini e un salto finale di mezzo metro, così il punto di vista degli amanti era di dominio provvisorio sull’acqua, sul mondo, almeno fino a quando, di lì a poco, sarebbero ritornati alle rispettive case, ciascuno alla guida della propria automobile. Quando la giornata era nuvolosa e la temperatura dell’abitacolo sopportabile, capitava che l’uomo non scendesse nemmeno dall’auto, ma chiamasse la donna con un cenno della testa. La questione sentimentale italiana si basava sui numeri dei modelli Fiat. Se la donna arrivava a bordo di una 126, l’uomo arrivava come minimo su una 128, e se la donna arrivava su una 127, l’uomo arrivava su una 131, più spesso su una 132, che mi sembrava l’automobile più diffusa tra coloro che avevano l’amante. Era difficile vedere una donna con la 132 e un uomo con la 126, certe cose accadevano a volte nei film e non nel parcheggio del Lago delle Nazioni. Quando gli amanti si dividevano, si salutavano con un lieve bacio sulle labbra, altre volte necessitavano di un colpetto di clacson, agitavano la mano fuori dal finestrino e ripartivano verso le proprie esistenze.
Il vento ieri ha preparato lo spazio per una luna quasi piena, che illuminava lo scheletro di una pizzeria incendiata negli anni Novanta del Novecento, mia madre diceva di aver visto la superficie del lago bruciare come in una scena di guerra. Forse, senza volerlo, aveva ragione lei: in Italia si combatte quotidianamente una guerra silenziosa, ma vogliamo fingere che non sia così. Mi sono avvicinato ai ruderi, un cartello era appeso alla cancellata arrugginita, ritraeva un rottweiler scolorito di cui si intravedeva a stento il corpo, mentre le zampe erano completamente dissolte, sembrava che lo spirito del cane fosse rappresentato dalla sopravvivenza di materia che svolazzava prigioniera del cartello; il disegno vent’anni fa – subito dopo l’era del pastore tedesco e del dobermann – riusciva a intimorire, ieri invece mi è sembrato il manifesto funebre del cane e di un’intera epoca. L’acqua del laghetto si increspava a pochi metri dalla riva di cemento, dove c’erano anelli per attraccare piccole imbarcazioni. Il bordo era sbrecciato e rivelava le maglie dei ferri appena sotto la superficie illuminata dalla luna. Avevo le palpebre secche, ero assetato. Ho lambito alcune delle 294 villette che compongono il Residence Galattico e attraversato Lido delle Nazioni. Il vento soffiava da est, trasportava la sabbia dal lungomare Italia. L’umidità gocciolava dai tetti bassi delle villette, dai rami degli alberi spogli, tintinnava sull’intonso tappeto di foglie marce, così compatte e appesantite da non riuscire a sollevarsi nemmeno con il vento. Alcune foglie erano rimaste misteriosamente attaccate ai rami, resistevano illuminate dalla luce artificiale, che pareva rianimarle, ma sarebbe bastato sfiorare le foglie per capire quanto fossero confinate a un fondale di buio.
La luce dei lampioni sporgeva dai marciapiedi, non riusciva a superare il buco nero dei piccoli giardini, le cui rientranze erano irraggiungibili perfino dai raggi lunari. La mia ombra proiettata sul selciato cadeva opaca ma centrale, lasciando all’oscuro i margini, l’emozione dei metri cubi di cemento. Credevo che da un momento all’altro potesse sbucare qualcuno, ero contento del rumore del trolley, simile al fischiettio stonato che facevo da bambino per farmi coraggio, quando attraversavo una zona buia. Avanzavo nel cigolio dei cardini, delle antenne televisive oscillanti sui tetti bassi, nella brezza salmastra frammista all’odore del piscio di gatto. Non ho visto alcun essere umano, nemmeno qualche micio abbandonato alla fine dell’estate.
A poche centinaia di metri di distanza, il palazzo sembrava dissotterrato dalla sabbia, strappato a una sepoltura ancora più profonda, accanto a qualche giocattolo infantile. Ho dubitato che quello fosse il luogo dove avevo trascorso parecchie estati della mia esistenza, quelle che si vorrebbero decisive nella costruzione della memoria. Ricordavo l’edificio come qualcosa di immenso, ritagliato dal disegno apparso sul quotidiano che aveva convinto i miei genitori alla visita nel cantiere e successivamente all’acquisto, siglato in un appartamento al piano terra, adibito a ufficio. Il condominio sembrava trapiantato sulla spiaggia dal naturale flusso azzurrognolo della Tangenziale Ovest di Milano; ieri mi è parso molto più basso, tarchiato, forse per colpa del buio che lo schiacciava dall’alto, comprimendone il tetto e allargandone i bordi, tanto che i balconi laterali parevano protuberanze mollicce. Ho mormorato per contare i piani e accertarmi che fossero ancora otto, come molti anni prima. Tutte le tapparelle erano abbassate e i lampioni pubblici, sfidando la legge di caduta della luce, sospingevano l’illuminazione in alto, al terzo, quarto piano, ma da lì in su l’oscurità circondava l’edificio fino a ventiquattro metri d’altezza. Prima di arrivare al portone, la saracinesca abbassata di una friggitoria ha sobbalzato per lo spostamento d’aria del mio corpo e del trolley. Ho appoggiato la valigia in verticale. La targa d’acciaio affissa al muro dell’edificio mi ha confermato di essere giunto al Condominio Oltremare.