cropped-pagina_interna_pubblicazioni_oro_e_piombo1.jpgdi Marco Mondini

[E’ uscito da poco La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-18 (Il Mulino), di Marco Mondini, un saggio che ricostruisce l’esperienza italiana della Prima guerra mondiale attraverso gli strumenti della storia culturale. Presentiamo l’introduzione al libro, intitolata Una guerra differente].

La Grande Guerra italiana è un paradosso.
L’intervento del Regno d’Italia nel conflitto europeo fu presentato come l’ultima campagna del Risorgimento che avrebbe permesso finalmente a tutti gli italiani di far parte di un unico Stato nazionale. Ma il governo che condusse il paese in guerra aveva poco in comune con le idealità del nazionalismo romantico e democratico di Mazzini o con l’ispirata strategia politica di Cavour: per combattere contro i propri ex alleati, il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, e il suo ministro degli esteri, Sidney Sonnino, pretesero la cessione del territorio di Bolzano, abitato da 250 mila austro-tedeschi, ma lasciarono al suo destino la città di Fiume, abitata da una popolazione di lingua e cultura italiana.

La guerra doveva essere la «prova del fuoco» degli italiani, il momento in cui avrebbero dimostrato al mondo di essere una nazione coesa, forte e degna di sedere tra le grandi potenze. Ma l’Italia entrò in guerra lacerata da profonde rivalità sociali e politiche, contro il volere della maggioranza parlamentare e di gran parte della popolazione. Queste radicali divisioni ideologiche sopravvissero alla vittoria. L’ultimo colpo di cannone della guerra non fu sparato il 4 novembre 1918 contro gli austriaci, bensì il giorno di Natale del 1920, quando la Regia Marina bombardò la città di Fiume occupata dai legionari dannunziani, in un bizzarro (ma sanguinoso) strascico fratricida del conflitto.

L’esercito Italiano che il 24 maggio 1915 varcò in armi la frontiera del’Austria-Ungheria era dipinto come la parte migliore del paese, una comunità salda e disciplinata di cittadini in armi, guerrieri superbi devoti al re e ai propri comandanti. Peccato che non avesse mai vinto una battaglia sul suolo europeo e che a Adua, nel 1896, fosse andato incontro alla peggiore sconfitta subita da un’armata bianca in Africa, uno scacco eclatante che, insieme alla disfatta di Custoza nel 1866, avrebbe lasciato agli italiani la perpetua fama di pessimi soldati.

Gli stessi generali non avevano fiducia nelle proprie truppe. Luigi Cadorna, capo di stato maggiore e comandante sul campo, era convinto che la sua armata fosse formata perlopiù da contadini ottusi e operai traviati dalla predicazione socialista, che potevano essere tenuti in riga solo attraverso una disciplina ferrea corroborata da continue punizioni esemplari. Eppure questa massa di fanti, alpini e bersaglieri, ritenuti inaffidabili e indisciplinati, si dissanguarono per tre anni in testardi assalti frontali sul peggiore dei fronti europei, fra le alte cime delle Dolomiti e il brullo e roccioso altipiano del Carso, sopportando perdite spaventose senza alcun segno di cedimento.

Quando, nell’autunno 1917, ripiegarono sotto i colpi di una brillante offensiva congiunta austro-tedesca, il generalissimo seppe offrire come unica giustificazione la vigliaccheria di alcuni reparti e la fantastica illazione che altri, sobillati dalla propaganda sovversiva, avessero inscenato uno «sciopero militare». Ma poche settimane dopo, sul fiume Piave e sul Monte Grappa, ciò che rimaneva dell’esercito intraprese un’ostinata battaglia difensiva sul cui successo erano in pochi (anche in Italia) a scommettere. Solo quando gli austro-tedeschi furono infine respinti, si disse che il merito principale era stato non dei 2 milioni di soldati italiani, ma di 200 mila francesi e inglesi inviati in tutta fretta a tamponare il fronte alla fine dell’anno (e in gran parte tornati in Francia nei mesi successivi). La leggenda secondo cui l’Italia venne salvata dagli alleati è ancora oggi ampiamente condivisa; che nella battaglia finale di Vittorio Veneto delle 56 divisioni impiegate solo 6 non fossero italiane pare irrilevante anche ai commentatori più seri.[1]

Infine, quando al termine del conflitto si contarono le perdite, si scoprì che la maggior parte dei 400 mila giovani uomini caduti in azione o a causa delle ferite riportate (solo una frazione dei circa 650 mila morti dell’esercito e della marina italiani) era stata uccisa sul fronte dell’Isonzo, dove fra il 1915 e il 1917 si combatterono undici gigantesche battaglie offensive nel tentativo di sbloccare una guerra di posizione il cui logorante tasso di mortalità non aveva nulla da invidiare ai peggiori settori del fronte occidentale. Eppure, l’immagine più popolare della Grande guerra italiana (specialmente fuori dall’Italia) è ancora quella di una spettacolare, e tutto sommato alquanto innocua, scampagnata sui ghiacciai alpini: il mito della «guerra bianca», per quanto naif, riesce ancora a emozionare il pubblico.[2]

Solo in parte, queste bizzarre antinomie hanno trovato una spiegazione nella storiografia specializzata. Fino agli anni Sessanta, la guerra è stata raccontata come una sublime prova di concordia e di unità nazionale, durante la quale il popolo in armi era stato guidato alla vittoria da uomini politici integerrimi, generali autorevoli (sia pure con qualche scelta discutibile) e da una borghesia entusiasta che aveva affollato i ranghi degli ufficiali di complemento. Dagli anni Settanta in avanti, con l’avvento di una nuova generazione di studiosi legati alla contestazione e ai movimenti di sinistra, i generali sono divenuti carnefici con velleità dittatoriali e i soldati vittime inermi, ansiose solo di sfuggire al combattimento, facendosi passare per pazzi o disertando. Oggi queste esasperazioni ideologiche sembrano superate, ma molte delle contraddizioni che paiono marcare l’esperienza della guerra italiana e il suo racconto non hanno ancora trovato una soluzione soddisfacente.[3] Difficilmente delle risposte potranno giungere da uno sguardo esterno. La percezione della guerra italiana fuori dall’Italia (con poche, anche se rilevanti eccezioni) ha spesso oscillato tra due pregiudizi alquanto stravaganti: l’irrilevanza degli eventi nel teatro italo-austriaco e il suo candido aspetto folkloristico.[4] La recentissima The Cambridge History of the First World War è stata concepita come il manifesto di una storiografia rinnovata e transazionale: peccato che in tre volumi un solo saggio sia specificamente dedicato all’Italia (e all’Austria-Ungheria).[5]

In effetti, ciò che gli storici, sia italiani che stranieri, hanno raramente messo in luce è che la guerra italiana fu radicalmente differente dal resto del conflitto europeo, anche se non esattamente per i suoi aspetti pittoreschi.

Unica tra le potenze in lizza, l’Italia affrontò la guerra non improvvisamente ma dopo quasi un anno di tentennamenti e trattative. Se gli altri europei scivolarono nel conflitto come dei sonnambuli, i governanti italiani ci entrarono in piena coscienza, il che non vuol dire che avessero veramente compreso ciò che stava succedendo; i lunghi mesi di neutralità servirono poco per preparare il paese e l’esercito, ma in compenso alimentarono uno scontro sull’opzione dell’intervento la cui violenza non trova eguali nell’Europa del 1914.[6]

E’ vero che la guerra italiana fu raccontata come un’avventura epica ed eroica dai tratti premoderni, sulla quinta di scena dei paesaggi alpini. Questo sguardo turistico sugli eventi non aveva molto a che fare con la realtà dei combattimenti di trincea sull’Isonzo e poi sul Piave (né, del resto, con le massicce operazioni condotte sul Grappa o sull’Ortigara), ma era rassicurante e soddisfaceva le aspettative del pubblico a casa. Lo sfruttamento delle spericolate imprese delle truppe di montagna sullo sfondo suggestivo delle Dolomiti permise alla cultura di guerra italiana di basarsi su modelli iconografici e narrativi completamente diversi da quelli germinati sul fronte occidentale. La letteratura, il cinema e la fotografia misero in scena più un duello cavalleresco tra guerrieri audaci che un massacro industriale e anonimo, una finzione ben orchestrata che fu essenziale per la creazione e il mantenimento del consenso.

Infine, gli italiani non solo iniziarono il conflitto in modo differente dagli altri alleati e nemici, ma lo terminarono anche secondo coordinate diverse. Unica tra le potenze vincitrici, l’Italia non uscì mai veramente dalla guerra. Le delusioni dei reduci, i miti politici che agitavano il paese (dalla «vittoria mutilata» alla rivoluzione imminente), la sensazione che la lotta dovesse essere continuata contro un insidioso «nemico interno», furono tra gli agenti che resero lo stato di guerra permanente molto oltre la fine delle ostilità: la violenza rimase negli animi e nei comportamenti, si riversò nelle piazze, dove divenne l’ingrediente principale di scontro politico sempre più brutale, e impedì agli italiani di conquistare la pace.

I tempi e i modi della partenza, le forme del racconto e un ritorno spesso impossibile: sono le tappe attraverso le quali ho cercato non tanto di ricostruire integralmente ciò che la guerra fu nei suoi aspetti militari, politici od economici (un’impresa affrontata da alcune monografie e vari lavori collettivi negli ultimi quindici anni) quanto di illustrare le sue caratteristiche uniche nel panorama europeo e il significato che essa ebbe per i contemporanei, coloro che la combatterono e coloro che la sentirono solo raccontare.[7]

Ciò che ho scritto non è una storia militare classica. Le battaglie e le tecniche di ingaggio hanno trovato poco posto nelle pagine che seguono, anche se la conoscenza dei meccanismi della società militare, della cultura tecnica dei professionisti delle armi e delle condizioni di vita (e di morte) dei combattenti è ovviamente un elemento fondamentali di questo lavoro. Il mio approccio fa però i conti soprattutto con ciò che è stata definita la storia culturale della guerra e con la predilezione per l’analisi delle rappresentazioni e dei discorsi, piuttosto che degli ordini di marcia e dei calibri delle artiglierie.[8] Per questo ho intrecciato fonti che possono apparire a prima vista incongrue: documenti d’archivio istituzionali e testi letterari, testimonianze artistiche e statistiche ufficiali, pellicole cinematografiche e fumetti. La mia prospettiva si basa sulla convinzione che ciò che conta maggiormente in una guerra totale e di massa sia il consenso delle popolazioni che ne sopportano i sacrifici e la loro capacità di convincersi (e spesso illudersi) che combattere e morire sia necessario, giusto e nobile. Tra 1914 e 1918 non vennero mobilitati solo milioni di maschi adulti, ma anche civili di ogni sesso e età, impiegati per dare il proprio contributo lavorativo o morale allo sforzo bellico. Molti di loro compirono rinunce e patirono sofferenze straordinarie, altri furono raggiunti dalla brutalità della guerra moderna, persero i loro beni e, molto più spesso di quanto si tenda a ricordare, anche la vita, ad opera di eserciti che parevano aver già scordato le regole che la civile Europa aveva codificato solo poco tempo prima.[9] Anche gli italiani – non solo i cittadini del Regno d’Italia ma tutti coloro che abitavano lo «spazio linguistico» italiano, ivi compresi i sudditi italofoni dell’Austria-Ungheria – furono coinvolti da questa rovinosa mobilitazione totale: oltre cinque milioni di uomini vestirono l’uniforme, milioni di civili (donne, giovanissimi, inabili) vennero chiamati a dare il proprio contributo (volenti o meno) alla produzione, alla propaganda patriottica o all’assistenza, centinaia di migliaia di profughi vennero cacciati dalle loro case e videro la propria esistenza sconvolta. Eppure, la maggior parte di coloro che vennero travolti dalla guerra, fossero soldati al fronte o donne mobilitate nelle retrovie, fece la propria parte fino in fondo. Come ciò sia stato possibile, è uno dei quesiti a cui ho tentato di dare una risposta. Perché, dopo anni di combattimenti e morte e dopo una vittoria così duramente pagata, le emozioni dominanti in Italia siano state non l’orgoglio ma la disillusione e il senso di fallimento, è un altro.

 Note

[1] J. Keegan, La prima guerra mondiale. Una storia politico-militare, Carocci, Roma 2001 [1998], pp. 468-469.

[2] M. Thompson, The White War. Life and Death of the Italian Front, Faber and Faber, Londra 2008.

[3] M. Mondini, L’historiographie italienne face à la Grande Guerre : saisons et ruptures, «Histoire@Politique. Politique, culture, société» 2014, 22 (www.histoire-politique.fr).

[4] Tra le eccezioni: A. Kramer, Dynamic of Destruction. Culture and Mass Killing in the First World War, Oxford University Press, Oxford 2008; O. Janz, Das symbolische Kapital der Trauer. Nation, Religion und Familie in italienischen Gefallenkult des Ersten Weltkriegs, Niemeyer, Tubinga 2009; Id., Der grosse Krieg, Campus, Francoforte – New York 2013.

[5] N. Labanca, The Italian Front, in J. Winter (a cura di), The Cambridge History of the First World War, 1, Global war, Cambridge University Press, Cambridge – New York 2014, pp. 266-296.

[6] C. Clark, The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, Harper Collins, Londra 2013.

[7] Tra i testi che fanno il punto sui vari aspetti politici, militari ed economici della guerra: A. Gibelli, La Grande Guerra degli italiani 1915-1918, Sansoni, Milano 1998; M. Isnenghi – G. Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, Il Mulino, Bologna 2008 [2000] e M. Isnenghi – D. Ceschin (a cura di), Gli italiani in guerra, III, 1-2, La Grande Guerra. Dall’intervento alla “vittoria mutilata”, UTET, Torino 2008.

[8] J.-J. Becker et al. (a cura di), Guerres et cultures 1914-1918, Colin, Parigi 1994; J.-J. Becker et al. (a cura di), Histoire culturelle de la Grande Guerre, Colin, Parigi 2005.

[9] S. Audoin-Rouzeau et al. (a cura di), La violence de guerre 1914-1945, Complexe, Bruxelles 2002 ; J. Horne – A. Kramer, 1914. Les atrocités allemandes, Tallandier, Parigi 2005 [2001] ; J. Horne (a cura di), Vers la guerre totale. Le tournant de 1914-1915, Tallandier, Parigi 2010.

[Immagine: Achille Luciano Mauzan, Fate tutti il vostro dovere! Manifesto per la campagna del IV Prestito nazionale (1917) (gm)].

2 thoughts on “La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-18

  1. La “sottorappresentazione” dell’Italia moderna e contemporanea nella attuale storiografia anglosassone non riguarda solo la Prima guerra mondiale, come giustamente messo in luce nell’articolo, ma pare estendersi a pressoché ogni altro periodo successivo al Rinascimento, con la parziale eccezione del Risorgimento. Faccio spesso il gioco di verificare quante volte ricorra “Italy” nei testi di storia contemporanea: rispetto a Gran Bretagna, Germania o Francia si è il più delle volte nella proporzione di un quarto, un quinto. Talora, in autori nordamericani, si va perfino a un decimo, un dodicesimo. Agli stessi livelli di “peso storico” di Paesi che hanno un decimo degli abitanti. L’assunto è quello di una sostanziale irrilevanza dello Stato italiano unitario nella storia del Novecento, o comunque di una posizione periferica e di personaggio “passivo”, paragonabile a quella della Grecia o del Portogallo. Nell’ambito militare, poi, è d’obbligo la rappresentazione macchiettistica: perfino in seri storici accademici inglesi e statunitensi par di vedere il “capitano Corelli” col suo mandolino in mano, che canta alla luna e prova nostalgia per la mamma e la pastasciutta. La forza di questi stereotipi si è fusa con l’autorappresentazione degli “Italiani brava gente”, e così la descrizione sprezzante dell’inettitudine italiana fatta dagli stranieri ha agito sinergicamente con il gusto italiano di pensarsi innocui e simpatici a tutti, contribuendo a impedire la consapevolezza di capitoli violenti della nostra storia coloniale.

  2. 1) In un film come “Il mestiere delle armi”, dedicato agli ultimi tempi della vita di Giovanni dalle Bande Nere, Ermanno Olmi e tutti i suoi collaboratori riescono a:
    a) darci una mirabile rappresentazione figurativa e scenografica del periodo
    b) non accorgersi (o fare finta di non accorgersi, non saprei e comunque il risultato non cambia) che la morte di Giovanni in una scaramuccia con le truppe di Georg Frundsberg segna, già nella percezione dei contemporanei, la fine delle aspirazioni all’indipendenza italiana.

    2) Quanti tra i milioni di italiani appassionati della Ferrari sanno che il cavallino rampante, celeberrimo marchio della scuderia, è lo stemma che Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana caduto sul finire della IGM, portava sulla carlinga del suo aereo?

    3) Quale nazione, civile o incivile, include nel suo governo un Ministro della Difesa che, richiesto da una giornalista televisiva di spiegare a che cosa servano i cacciabombardieri F35 che abbiamo incautamente acquistato dagli USA, risponde con una supercazzola da imitatrice del conte Mascetti di “Amici miei”?

    4) Quale nazione, civile o incivile, annovera tra i suoi Presidenti del Consiglio un uomo politico che
    a) ordina, senza il minimo dibattito parlamentare, una aggressione militare immotivata, incostituzionale e contraria al diritto internazionale, contro una nazione vicina che mai si è sognata di minacciare l’Italia
    b) si giustifica asserendo che è così che si entra nel novero delle “nazioni di serie A” (testuale)
    b) nel medesimo anno, partecipa alla Marcia per la Pace di Assisi senza ridere nè essere pubblicamente deriso o fatto segno a fitto lancio di ortaggi (nota per i più piccini: si tratta di Massimo D’Alema, insediato alla Presidenza del Consiglio a mezzo trucchetto parlamentare con regia di Cossiga proprio per aggredire la Jugoslavia per conto USA).

    5) Quale nazione, civile o incivile, firma un solenne trattato di amicizia con il capo di Stato di una nazione alla quale la legano una lunga storia e importanti interessi, per poi, nel giro di due anni (ventiquattro mesi), partecipare a una aggressione militare, illegale e incostituzionale, contro la medesima nazione amica, la quale dà il seguente esito:
    a) brutale assassinio con infame tortura del suddetto Capo di Stato ad opera di bande di fanatici criminali
    b) esplosione di una incontrollabile anarchia, con sanguinosa guerra per bande, nella suddetta nazione amica
    c) grave e forse irreversibile danno degli interessi nazionali e del prestigio italiani.

    6) In quale nazione, civile o incivile, il Capo di Stato che ha fortemente voluto e ottenuto, con la sua “moral suasion”, il bel risultato di cui al punto 5, cioè a dire di compiere un atto disonorevole senza ricavarne altro che danno e disonore per la nazione che presiede, viene all’unanimità qualificato, nella stampa ufficiale, quale “miglior presidente della repubblica”, “padre della patria”, “garante della Costituzione”?

    7) In quale nazione, civile o incivile, l’uomo politico responsabile dei fatti di cui al punto 4 viene unanimente qualificato di “statista”?

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