cropped-Nadia-Campana-.jpgdi Nadia Campana

[E’ uscito da pochi giorni per Raffaelli Editore Verso la mente-Visione postuma, un cofanetto a cura di Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci che raccoglie le poesie di Nadia Campana (1954-1985) e i suoi saggi sulla letteratura. Presento alcune poesie da Verso la mente, scelte per Le parole e le cose da Milo De Angelis].

Noi, la lunga pianura immaginaria
ci inghiotte come sacramenti della notte

Sei stato una quantità esatta
nella pioggia che afferra i visi

Ma adesso in ogni angolo della stanza
aspetteremo fuori dall’esplosione
un legno che io, qui,
ho costruito (lasciami fare)
prodigi scelti dal caso, pioppeti da percorrere!

Il tenero è nel mezzo e nell’interno
umiltà di una porta

ascoltando treni, a un passo, come
una febbre nel ricordo esattamente

Guarda il campo
è così calmo, smisurato, stamattina.

*

Guardiamo dalla cima del monte
il filo di calma che è nato
del mio petto tu conti ogni grano
e ogni cuore si prende di colpo
il suo tempo: un amore
è tornato e si è accorto
il suo disco ci copre.
Adesso tu devi guardarmi
per quella collana di sì
nella mia pelle che apre
la piana la strada
e i fondi della notte
i centesimi della sete.

*

Ho fatto un grande sogno ma non ne ricordo
niente babbo amiamo le teste bruciate
dell’amore ma non la misericordia e
i chiodi come coltelli di gelosia
tra poco cadrà la strada su di te
spergiuro sulla mia infanzia scrivo
lettere, se non mi dai da mangiare
i capelli mi diventeranno come crine
e come un fucile. Notte di lupi
sprangare l’angelo del vento
qui è la piega
dove non sarà nuovo morire

*

già veduto già rotolato
già rimando il corpo sospeso
tra le rocce lacerato
qualcosa si disperse in lui nell’aria
e corse in ogni direzione con muta gioia
ancora una volta
avanti oltre la detonazione
i piedi nella terra
s’era gettata seguendo il fondo
cadde nel piatto
seguendo
quaggiù tra le onde e il sole
sagome di petali neri
bisanzio trasformazione

*

punta tenera di un dardo
ora io esisto ancora
sfinita dal correre è vero,
mi porti sulle ossa
finché la notte non mi contrari più
madre ogni minima cosa

*

ogni mille piani un motivo
che getta lettere tra gli alberi
nuotare nell’aria
questa tenere in mano
ragazze si accucciano sulla riva del canale
spose con i capelli lunghi e timidi
tocchiamoci le ginocchia
balliamo, arrivano i soldati,
e alla festa anche per i diavoli
c’è posto!

*

più viventi durante il viaggio
molti orizzonti per ore e ore
immersi in distanza
attraverso le canne e i buchi
l’acqua mutare in aria
eseguire la caduta
usare le labbra

*

il coltello segava segava
datemi un pane datemi un pane
ma questo no, sa di piume
e in bocca si fa masticare
come terra o sabbia dei morti
verso il centro conchiglie
e per questo accelero…
se l’incertezza non mi guarisce
trovo un’eco più potente
posso farlo, è la fine
anche se dietro non sono le orme
il filo dell’alba ha quest’ordine

*

di questo succo momenti di pura pace due corpi nudi che
camminano guardandosi vorrei dire che senza arabeschi è
possibile appartenere qualche volta. fuori dai cinque
sensi dentro un senso che liberi tutti scrutare dall’ al-
to del sinai: il sinai. ….anche voglio che rimanga in me
un’isola dinamica come un sogno esatto. bella sei amica
mia come un meriggio che pascola tra gli anemoni. il tuo
petto gregge notturno e candido. grandi cose il cuore ne
dice e paiono dire (ché nessun suono fuori riesco) quale
prova voglio vedere s’incurva al largo l’una vicino al-
l’altra al ritmo fai il viaggio nelle mie mani regione
di entrambi in te si realizza tutto il tempo in un istan-
te proprio grazie alla natura, a quella natura finita

*

Principessa nere sopracciglia mangi dolcezze che sono sopra il tavolo fino alle dita fai sentire il tuo azzurro pieno di onde tra te e me senza rimedio io ti chiamavo allora per te ogni poesia e i nomi di tutti gli animali e le piante dei cinque continenti un urlo lontano sobbalzo ad esso anche trema il ramo contro il cielo che stride entra in lui ci sei quasi…

*

cominciò a ridere.. ridere veramente totale.. ritmandosi
il respiro riprende l’andatura.. completa il sospiro l’anda-
re.. scatena impazzisci ergiti edificio ora capisci e rico-
minci

*

resta per un momento a rimirare
la figura sua riflessa nell’acqua
increspa la superficie col piede
avanza con eleganza nel fresco
per due tre volte fa il giro su se stessa
non mi volete raggiungere?
voltandosi verso i ragazzi pronti
gli asciugamani pronti con caldi profumi
in un momento si liberarono leggeri
si tuffarono unendo le mani
circondandola di una allegra e vivace catena

*

sciolgo l’appoggio
catturo un lume
sul pavimento sveglio l’incanto
coi segni, non
un trono che fluttua altissimo
né occhi abbacinati dal sole, ma
andare e venire
con la forza di una formica
percepire gli ulivi
avvolti nel silenzio
finché il mattino sciolga il suo bavaglio
e ci spinga alla stagione in piazza.

[Immagine: Nadia Campana. Foto di Giovanni Turci (mg)].

 

22 thoughts on “Verso la mente

  1. In luglio avevo letto la recensione di Roberto Galaverni sul Corriere della Sera e devo dire che Nadia Campana è proprio una bella conferma. Una poesia inquieta , appassionata, viva, intelligente, con un gran senso della natura e una particolare percezione delle cose sentite nel loro inizio. Una poesia profonda e originale, direi unica in questi decenni.

    Roberto R.

  2. Ho saputo che Nadia Campana è la protagonista della poesia “Cartina muta” di Milo De Angelis, una delle mie preferite in assoluto. Averlo saputo mi commuove e mi sospinge a leggerla ancora meglio, ancora più a fondo. Prenderò sicuramente il suo libro!

    Elena

  3. A dispetto della sua morte precoce, una poesia assai vitale. Ed è anche una donna assai bella, Nadia Campana!

  4. LEGGENDO “VISIONE POSTUMA” DI NADIA CAMPANA. APPUNTO

    Per Nadia Campana la Dickinson è stata schiacciata perché molti l’hanno ridotta alla sua biografia (p. 60) e hanno cercato «la verità di un poeta fuori dalla sua poesia» (p. 62), andando a caccia dei suoi «disastri emotivi» (p. 62) con conseguenze negative sull’attenzione da dare al discorso poetico. Si meraviglia addirittura – rompendo lo stereotipo della suicida sofferente in cui si può finire di chiudere anche lei oggi da parte nostra – che non si veda«mai un poeta come uno che non soffre» (p. 62).

  5. Ha ragione Abate a ricordarci la Campana saggista, che ha scritto pagine importanti soprattutto sulla Dickinson, come la postfazione a “Le stanze di alabastro” (ed. SE,2003). Inoltre le sue traduzioni della poetessa americana sono molto meditate e anche coraggiose e originali.

    Anna Grossi

  6. LEGGENDO “VISIONE POSTUMA” DI NADIA CAMPANA. APPUNTO 2

    Bene. Parliamo: sia dei versi che delle prose. Non sprechiamo un’occasione. (E anche se Nadia Campana non fosse stata “una donna assai bella”…).
    Che dicono le persone che l’hanno conosciuta della sua poesia e di questi scritti ora pubblicati; e magari – ma dopo – di lei nella Milano anni ’80?
    A me la prefazione di De Angelis non convince del tutto.
    I «testi di poetica» della Campana trattano, sì, il tema della morte volontaria e saranno anche «ricchi di forza lirica», ma è davvero così «centrale» (p. 5) il tema della morte e c’è davvero tanto «presagio» (del suicidio, intendo)?
    La poetessa scrive: «Marina [Cvetaeva] mi prende troppo, e mi fa un po’ paura. Questo perché, se non si è un po’ distaccati, si rischia di balbettare. Spero che questa paura non sia troppo grande» (nota di p. 11). Bene, non trascuriamo la tentazione di simbiosi con la Cvetaeva, ma il suicidio in questo rapporto con un modello letterario (e ammettiamo che la Cvetaeva possa essere stata in teoria per la Campana anche “maestra di suicidio”…) non è ancora un «destino». Sarà stato vagheggiamento, suggestione. Perché allora leggere a senso unico la paura che qui la Campana dichiara e trascurare il suo sforzo per uscire dalla paura (o dalla tentazione del suicidio) con la poesia, con la scrittura, con gli innamoramenti, con la frequentazione dei luoghi di vita culturale della Milano che lei frequentava?
    Si può far diventare la frase scritta dalla Campana: «Ci sono dei poeti per i quali è impossibile immaginare una vecchiaia», sulla base del suo reale suicidio, una sorta di epigrafe conclusiva e profetica?
    A me non va la mistica della “poetessa giovane/vecchia” (cioè già vecchia, cioè matura, saggia, ecc. da giovane). E, oarafrasando per contrasto direi: di alcuni poeti (e di alcune poetesse) è impossibile immaginare la vecchiaia (la maturità…) non perché l’abbiano raggiunta in modi fulminei da giovani, ma perché altri – consapevoli o meno – e il mondo attorno a loro andavano in modi che gli hanno impedito di maturare. ( E il problema non riguarda solo i poeti o le poetesse). I suicidi davvero interrogano i non suicidi, i “normali”, quelli che invecchiano.
    Mi piacerebbe sentire altre opinioni per correggere o confermare queste mie impressioni di lettura.

  7. Penso che questo di Campana sia stato un percorso prima ed un lutto poi interno alla comunità letteraria del tempo e del luogo e che quindi gli esterni debbano tacere. Se c’è un vantaggio nella poesia sui social network di questi anni è che quasi nessuno/a viene lasciato indietro e che agli scarti maggiori (spesso delusionali perché infondati e quindi alla lunga insostenibili) fanno da contrappeso richiami all’omologazione di gruppo che sostanzialmente salvano la vita. Direi anche che il poetico, nelle sue manifestazioni popolari, e’ più utile della poesia a questo scopo attenuativo e terapeutico, basta leggere le pagine facebook di tanti artisti per rendersene conto.

  8. @ Il fu GiusCo

    Taciamo, taciamo. Ossequiamo il lutto interno alla comunità letteraria del tempo (e magari le loro ciarle sommesse). Come se la poesia fosse un fatto privato. Come se quanti conobbero in vita questa poetessa non fossero stati lo stesso esterni al suo dramma. Come se gli esterni, leggendo e studiando le sue poesie e i suoi saggi, fossero condannati in eterno a rimanere tali. Come se ogni generazione si dovesse smazzare solo i suoi lutti. Lasciamo spazio alla chiacchiera e alle autoterapie da social network, che fanno tanto bene a noi, alla poesia, a questo Paese. Non critichiamo. Taciamo, taciamo…

  9. Più di quattro anni fa, provai a commentare sul blog di Comunità provvisoria una poesia di Nadia Campana, quella che nell’offerta antologica di questo post figura come seconda. Ripropongo il mio commento. Forse può essere utile al dibattito. Grazie.
    Donato Salzarulo

    SU UNA POESIA DI NADIA CAMPANA
    Guardiamo dalla cima del monte
    il filo di calma che è nato
    del mio petto tu conti ogni grano
    e ogni cuore si prende di colpo
    il suo tempo: un amore
    è tornato e si è accorto
    il suo disco ci copre.
    Adesso tu devi guardarmi
    per quella collana di si
    nella mia pelle che apre
    la piana la strada
    e i fondi della notte
    i centesimi della sete.
    (Nadia Campana, Verso la mente, Crocetti, Milano 1990)
    Nadia Campana è nata a Cesena nel 1954 ed è morta sui¬cida a Milano nel 1985. Ha tradotto Emily Dickinson (Le stanze di alabastro, Feltrinelli 1983). Una raccolta di brevi saggi e riflessioni sulla letteratura è in corso di pubblica¬zione dalla Editrice Polena di Milano.
    Dov’è il suicidio in questi versi? Dove mostrando si cela il gesto successivo, la scelta che avrebbe spinto Nadia a togliersi la vita? E’ possibile cogliere – e fino a che punto – nel “corpo di un testo” il “corpo vivente” che l’ha espresso o dal quale, come una pera matura, si è staccato? “Guardiamo dalla cima del monte / il filo di calma che è nato”. Dovrebbe, quindi, andar tutto bene per chi scrive. Ma non è così. Perché “il filo di calma” è a distanza, forse è nella piana successiva. Mentre quel noi che guarda è sulla “cima del monte” e chissà che aria soffia lassù, se c’è vento, nuvole, instabilità atmosferica…Lassù, in un luogo spesso di solitudine, in cui un po’ ci si tira fuori dagli incontri e dal commercio con gli altri.
    Il guardare “il filo di calma” è in ogni caso desiderio di calma. Il “corpo del testo” brucia ansia, inquietudine, e “il filo di calma” è appena un filo, un soffio. Alla fine dei primi due versi dovrebbe esserci un punto, una pausa, qualcosa che fa tutt’uno con quella fragile quiete conquistata dallo sguardo. Non è così. La punteggiatura salta, scompare. C’è, ma si nasconde. “del mio petto tu conti ogni grano”. Ci siamo. Lo sguardo fuso del noi cede alla distinzione dell’Io e del Tu. Desiderio o gesto reale? Davvero quel Tu conta “ogni grano” del petto di quell’Io che pronuncia il pensiero? Ma come fa? Davvero quell’Io vorrebbe essere “contato” (discriminato, individuato, analizzato, compreso…) in ogni suo elemento o si sta esprimendo soltanto un desiderio-timore?…”e ogni cuore si prende di colpo / il suo tempo:” Ancora uno spostamento del soggetto. E’ il cuore di quell’Io e di quel Tu in dialogo-apprensione? “Ogni cuore” è ogni cuore dei due o è ogni cuore dei tutti? E il tempo che si prende di colpo quale tempo è? E’ quello della morte o quello dell’amore suggerito dai due punti esplicativi e dalla rima: “un amore / è tornato e si è accorto”. Il problema è accorgersene, scoprire, capire. E’ il problema dell’amore e di “un amore”. Avvertire l’altro, percepirlo,
    avvedersene, intuirlo…”il suo disco ci copre”. Di chi è questo disco? Dell’amore? Forse la musica di questo sentimento può trasformarsi a volte in copertura di ciò che davvero gli amanti, volenti o nolenti, consapevoli o meno, celano tra di loro? Fidarsi o non fidarsi dell’amore? Mi pare fosse Benjamin – un altro suicida illustre – a sostenere che “una persona la conosce solo colui che l’ama senza speranza”. Quanti elementi precipitano in sette versi! Quanta legna mentale si brucia! Inquietudine e calma, comprensione e incomprensione, trasparenza e segreto, copertura e scopertura, tempo del cuore e bersagli d’amore…I versi colpiscono per questo loro concentrarsi, per questo bruciare immagini e pensieri, per questo far apparentemente sparire le pause.
    “Adesso tu devi guardarmi” . Più che un invito, è un ordine rivolto al Tu. Ancora lo sguardo, il desiderio di aprirsi, di mostrarsi. Un dovere richiesto al Tu in nome di “quella collana di si” (affermazioni positive quindi…tanti Si che nascondono un grande No!), una collana che fa tutt’uno con la “pelle” dell’Io, il confine del corpo, la parte visibile “che apre / la piana la strada / e i fondi della notte / i centesimi della sete”. Non so quanta di questa “pelle” coincida col corpo di questo testo. Probabilmente è solo intersezione, più o meno ampia. Ma questa poesia che, aprendo “la piana la strada” potrebbe rappresentare una specie di via d’uscita dalla “cima del monte” in cui l’Io si trova, nello stesso tempo evoca “i fondi della notte” in cui versa e “centesimi della sete” che l’assetano. O forse la piana e la strada è quella dove la notte si raggiunge fino in fondo e della sete di vita rimangono centesimi. Poesia come insidia, lunga insidia.
    Ovviamente non riesco a dare risposte alle domande iniziali. E il “corpo del testo” nei suoi movimenti concentrati e suggestivi ostenta un segreto che rimane tale fino alla fine.
    23 febbraio 2010

  10. @ Caro Abate,

    pur condividendo la sostanza delle osservazioni di contenuto che Lei avanza, spero di non apparire troppo pedante se mi permetto di farLe osservare che, da un punto di vista formale, in corretta lingua italiana si dice e si scrive non “taciamo” (con una sola ‘c’), ma “tacciamo” (con due ‘c’).

  11. L’invito è senz’altro da estendere ai lettori silenziosi e a chi sente un’appartenenza, in discreto numero entrambi a queste latitudini del web. Saluti.

  12. Abate, credo che Campana si presti molto, per biografia e poetica, a monografie professionali, didattiche o concorsuali e che chi legge su questo sito potrebbe certamente dire di più. Io ho altri modi e scopi, in questo caso inadatti. Saluti.

  13. Il GiusCo, io (e spero altri) ho i miei modi di occuparmi di poesia. Aver sollecitato una riflessione sulla poesia e i saggi di Nadia Campana anche su questo blog non interferisce o ostacolo la stesura delle “monografie professionali, didattiche o concorsuali”, a volte valide a volte pallose.
    E insisto: per me la poesia, specie se pubblicata, non è più un fatto privato o riservato al ceto dei letterati specializzati o dottorandi. Un saluto.

  14. Non ho capito cosa sta insinuando Ennio Abate. Accenna a un “contesto” che avrebbe contribuito al suicidio della Campana. Accenna alla responsabilità dei “luoghi di vita culturale della Milano che lei frequentava” e dei “modi che le hanno impedito di maturare”. Quale sarebbe questi luoghi e questi modi? Se qualcuno fa delle accuse così pesanti, dovrebbe anche fare dei nomi, a mio parere.

    Maria Rosi

  15. P.S. Mi riferisco naturalmente al commento di Ennio Abate del 27 settembre 2014.

    M.R.

  16. @ Maria Rosi

    Lasci perdere, per carità, certe parole ( “cosa sta insinuando Ennio Abate”; “Se qualcuno fa delle accuse così pesanti, dovrebbe anche fare dei nomi”)…Io i tribunali non li frequento e non ho voglia di frequentarli.
    Sul contesto culturale milanese in cui ha operato Nadia Campana cercherò di dire la mia opinione con rispetto ed onestà nel prossimo articolo su POLISCRITTURE dedicato al “Visione postuma”.

  17. Grande, forte poeta, vitale e dolente,che meriterebbe un saggio vero, ampio,come è stato scritto per Silvia Plath, Dickinson,, Annesexton, la Cvetaeva.. I poeti suicidi non sono tali per malinconia, debolezza, ma per forza vitale, saudade, intensità emotiva, carattere, scontro violento con una vita mediocre e di chiacchiere meschine. Si uccidono per eccesso di vita , per ardore e amore di vita intensa. Ne scrive Borgna, Ne L’arcipelago delle emozioni. E, per dirla con Majakovskij: ‘la barca dell’amore s’è infranta contro la vita’. Su questo bisognerebbe riflettere molto, scrivere, se è ancora tempo di poesia, per non ripetere le solite banalità . Si tratta di poete/ poeti forti, duri, che non cercano facili conforti, banali vissuti sentimentali. C’erano,nei loro versi, pathos, trasformazione ,, rinnovamento del sè. E questa non è una affermazione teorica, ma una considerazione che nasce dalla lettura dei loro versi.,dal nodo che ti afferra violentemente alla gola. E dal fatto che resistono ancora al tempo, alle riletture. C’è in loro un eccesso di vita.

  18. I poeti non dovrebbero frequentare i salotti letterari, risonanti di chiacchiere saccenti. La loro dimensione è la solitudine meditativa, l’incontro con la gente amica e i viaggi ,il bagno nell’umanità, nella natura. Sono nomadi, non . La casalinhjtudine uccide, come il gruppo ristretto. Perdersi nel mondo e ritrovarsi, è la cifra del loro nomadirmo, della loro ricerca di voci autentiche, di suoni e del NOI.

  19. RIORDINADIARIO.

    Poveri i poeti e le poetesse che si suicidano…(A margine della serata milanese in memoria di Nadia Campana).

    Questo mi è venuto da pensare la sera del 9 aprile 2015 quando, a conclusione degli interventi che hanno ricordato a un pubblico per fortuna numeroso la poesia di Nadia Campana alla Palazzina Liberty di Milano, me ne sono tornato un po’ deluso a casa.
    Insomma, una bellissima giovane, corteggiatissima, avviata dall’allora autorevole Antonio Porta a un inizio di carriera di traduttrice (della Dickinson poi!…), inserita nella rete del femminismo milanese d’avanguardia, d’un tratto decide di scomparire e si butta dal ponte di Via Corelli. Poi silenzio su di lei per anni. E, infine, benvenuta la riedizione delle sue poesie e dei suoi scritti in prosa e questo avvio di riabilitazione postuma come poetessa organizzato dalla Casa della Poesia di Milano.
    Ma perché – insisto a chiedermi – non una parola su un suicidio che, come ho scritto, interroga «i superstiti, i “salvati”» e, nel suo insieme, quella «“tribù metropolitana” (di poeti, poetesse, intellettuali), che, crollate le speranze di cambiamento del ’68-’69, andava incupendosi e s’avviava verso l’inaridimento sociale-politico-culturale, che si prolunga fino ai nostri giorni»?

    Ora è vero che Nadia Campana separava, di suo, biografia da poesia. E faceva anche benese si pensa ai troppi pettegolezzi che si costruiscono sulle biografie dei poeti ai danni delle loro opere. È vero pure che le parole risuonate nella sala della Palazzina Liberty quella sera non sono state malvage ma interessanti.
    Milo De Angelis ha ripetuto la sua tesi: una giovane che starebbe tutta in quei cinque anni dedicati alla poesia e che non avrebbe potuto accedere alla «maturità». Aglieco ci ha parlato del “vitalismo” di Nadia Campana e di quella sua «voce che irrompe nella parola» (?!). Marco Forti dell’importanza del suo «sconfinamento» e di un qualche legame con la psicanalisi. Maria Pia Quintavalla della spinta che aveva alla «trascendenza». Silvio Raffo della sua «empatia pericolosa con la sovrumana Dickinson», pur così fertile quando tradusse quelle cento poesie della poetessa americana «scelte per elezione». E Giovanni Turci ha letto con commozione alcuni testi inediti dell’amica rivelatori della sua «difficoltà di ritrovarsi nella storia».
    Ma sul suicidio?
    Non è curiosità morbosa la mia. Né presunzione di poter illuminare con forzati riflettori razionalistici ciò che sfugge alla ragione. Però – per la miseria! – interrogarsi e tentare di capire quanto quel suo gesto finale abbia avuto soltanto origine nei meandri insondabili del suo inconscio di giovane donna o accogliesse suggestioni di certi modelli poetici del passato a lei cari (la Cvetaeva ad es.); o quanto, invece, andasse ricondotto – *anche* (e non *soprattutto*) – a certi stili di vita freddi, distratti, vanagloriosi, cinici ed egoisti che sono prevalsi nella sempre più spappolata società letteraria milanese, è una perdita di tempo? Viva il Culto (astratto e “mistico”) della Poesia e poveri i poeti e le poetesse che si suicidano, dunque?

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