cropped-renzi-Scuola.jpegdi Mauro Piras

[La prima parte di questo intervento si legge qui]

La qualità della scuola la fanno i docenti. Nessuna politica scolastica che intervenga su ordinamenti, programmi ecc. sarà efficace se non è capace anche di garantire docenti competenti e motivati. Per fare questo, i tre piani su cui intervenire sono la formazione iniziale e il reclutamento, la formazione in servizio, e la carriera dei docenti. Il progetto di riforma del governo Renzi affronta questi tre argomenti, il primo nel primo capitolo, e gli altri due nel secondo capitolo del documento La buona scuola. Vediamo quali sono le soluzioni proposte.

Formazione iniziale e reclutamento. Su questo terreno, non ci sono innovazioni radicali, ma solo la ripresa e in parte semplificazione di uno schema già previsto dal 2010. Il principio di base è che l’abilitazione all’insegnamento è frutto di un percorso universitario e professionalizzante, selettivo, distinto dal reclutamento che avviene invece solo per concorso. Per la scuola dell’infanzia e primaria, viene confermata la laurea in scienze della formazione primaria, a numero chiuso, quinquennale e abilitante. Per la scuola secondaria i passaggi sono questi: una laurea triennale nella propria disciplina; una laurea magistrale, a numero chiuso, quindi con selezione in ingresso, orientata verso la didattica; un tirocinio a scuola di sei mesi dopo la laurea magistrale. Alla fine del percorso, tramite esame, si ottiene l’abilitazione nella propria classe di concorso. L’idea generale è questa: l’abilitazione viene concessa solo a un numero limitato di candidati, selezionati all’inizio della laurea magistrale secondo il fabbisogno previsto per quella classe di concorso. Questo per evitare di dare aspettative di lavoro a laureati che poi rischiano di trasformarsi in nuovi precari della scuola.

In linea di principio, non c’è molto da eccepire a questo modello. Qui i problemi sono pratici: nell’applicazione è vitale garantire che il numero di posti previsti per le lauree abilitanti sia adeguato, cioè che non si creino disoccupati concedendo troppi posti. Inoltre, è altrettanto vitale che i concorsi siano banditi a cadenza regolare: il governo li prevede ogni tre anni, sarebbe meglio ogni due. Ma al di là del numero, è il principio che deve essere rispettato. L’assenza di concorsi produce inevitabilmente le graduatorie dei precari. Ovviamente, le graduatorie dei concorsi devono riguardare solo i vincitori ed essere valide solo negli anni tra un concorso e l’altro. Anche questa ovvietà, purtroppo, non è così scontata nella pratica.

Formazione in servizio. Il progetto del governo reintroduce il principio della formazione obbligatoria in servizio. Anche questo, in linea di principio, è giusto. Non basta selezionare bene i docenti in ingresso, bisogna garantire che la loro formazione sia aggiornata costantemente. E questa formazione non può essere demandata alla buona volontà dei singoli, come avviene ora. La riforma prevede che la formazione in servizio obbligatoria sia certificata da un sistema di crediti formativi, da legare, come vedremo, a possibilità di carriera e di incarichi aggiuntivi. Su questo, viene detto anche che verrà definito, da una commissione apposita entro tre mesi, un “quadro italiano delle competenze dei docenti nei diversi stadi della loro carriera”. Qui si parla apertamente di carriera, con diversi “stadi”, anche se il sistema proposto (vedi punto successivo) non è a rigore una “carriera”. Ma forse il governo ha in mente di introdurre più avanti una vera e propria carriera, con livelli diversi di insegnamento.

Anche qui, il problema non è nei principi, ma nella pratica. I pericoli da evitare, ben noti, sono: che i corsi abbiano contenuti di poco o nullo valore, diventando così solo una perdita di tempo per i docenti; che tutto si riduca alla ricerca dei punteggi per assolvere all’obbligo di formazione e per aumentare i propri crediti formativi, favorendo agenzie di formazione che propongono corsi farlocchi. Insomma, si tratta di attuare un controllo rigido sulla qualità dei corsi. Ma su questo non viene detto niente. Viene detto solo che i corsi dovranno essere coordinati da docenti, che si dovranno valorizzare le associazioni professionali e le reti di scuole, che si dovranno favorire dei fantomatici “innovatori naturali” (anche con premi), che non si capisce chi siano né come verranno individuati, né cosa dovranno fare. Infine, c’è la solita prevedibile tirata sulla necessità della formazione digitale.

Nel complesso, tutto questo tema è trattato in modo molto superficiale: è buono il principio della formazione obbligatoria, ma in fondo non c’è niente di più.

Progressione stipendiale, merito, carriera. Questa è la parte più nota e discussa del secondo capitolo. La più ambiziosa e “rivoluzionaria”, nel senso banale che stravolge strutture e abitudini esistenti. Come è noto, si propone di abolire la progressione retributiva per anzianità e di sostituirla con quella per merito.

Vediamo in sintesi lo schema proposto. Per una descrizione più approfondita rinvio all’ottimo intervento di Enrico Rebuffat, La buona scuola, pubblicato su questo sito, che mostra tra l’altro i gravi problemi salariali sollevati da questa riforma.

Attualmente, la progressione retributiva dei docenti avviene solo per anzianità di servizio. La riforma prevede di abolire del tutto la progressione per anzianità, e di sostituirla con il merito. Tutte le attività dei docenti dovrebbero essere certificate secondo un sistema di crediti, di tre tipi: didattici, per le attività di insegnamento; formativi, per le attività di formazione e aggiornamento; professionali, per le attività organizzative e che contribuiscono al progetto formativo della scuola. Questi crediti vengono raccolti in un portfolio, inserito in un registro pubblico, consultabile dai dirigenti scolastici. Viene detto che i dirigenti possono scegliere, da questo registro, le migliori professionalità: questo punto non è per niente chiaro, dal momento che il documento conferma il reclutamento per concorso, e non per chiamata diretta; quindi non si capisce chi possono scegliere i dirigenti e per cosa.

In ogni caso, il portfolio è alla base della valutazione dei docenti e dell’attribuzione degli scatti per la progressione di carriera. Un Nucleo di Valutazione interno alla scuola, integrato da un membro esterno, provvederà infatti a valutare i docenti sulla base dei crediti certificati nel portfolio. La progressione retributiva verrà riconosciuta sulla base delle competenze acquisite, attestate dai crediti: ogni tre anni due terzi (il 66%) dei docenti di una singola scuola o di una singola rete di scuole avranno diritto a uno scatto di retribuzione, detto “scatto di competenza”; si tratterà dei due terzi che in ogni scuola o rete di scuole avranno più crediti attestati nel portfolio. Il valore dello scatto triennale è uguale per tutti coloro che ne hanno diritto, ma si prevede la possibilità di differenziarlo secondo tre “fasce di merito”. Il sistema degli scatti di anzianità verrebbe abolito dal 2015, e il primo “scatto di competenza” verrebbe attribuito nel 2018. In questi tre anni, le retribuzioni vengono fermate al livello del 2015. Con questo metodo, il documento calcola che le risorse da usare per gli scatti di competenza saranno le stesse utilizzate per gli scatti di anzianità. I risparmi derivanti invece dal blocco delle retribuzioni tra 2015 e 2018 verrebbero usati per rafforzare il Fondo di Istituto, attualmente molto impoverito; non viene però fornita nessuna cifra.

Che valutazione dare di questo progetto?

In primo luogo, c’è la questione di principio: è giusto il passaggio da un sistema in cui tutti hanno lo stesso stipendio, salvo l’anzianità e le attività aggiuntive, a un altro in cui gli stipendi sono differenziati sulla base della valutazione del lavoro svolto? La risposta non è scontata. La prima opzione potrebbe essere difesa con l’argomento che l’anzianità è una forma di accrescimento dell’esperienza, e che un regime di competizione nella scuola rischia di rendere difficile la collaborazione tra i docenti. Tuttavia, è evidente a tutti che la qualità del lavoro dei docenti va affrontata, sia in termini di valutazione che in termini di riconoscimento. Questo problema ha due facce: detto brutalmente, la punizione e il premio.

Da un lato, verso il basso, si tratta di garantire che tutti i docenti svolgano in modo corretto il lavoro a cui sono tenuti. Qui non c’è un problema di differenziazione, ma di controllo: nessuno deve essere inadempiente. Questo lato, molto scomodo da trattare, manca del tutto nel documento; e viene evitato in ogni discussione pubblica. Eppure un modo per risolvere il problema dei docenti che “fanno danni”, pur senza violare i loro diritti di lavoratori, dovrà pur essere trovato. Attualmente, noi tutti sappiamo che questi docenti vengono spostati da una classe all’altra e da una scuola all’altra, scaricando così il problema su altri.

Dall’altro lato, verso l’alto, si tratta di incentivare i docenti a dare il meglio per la scuola. Qui però ci si deve chiedere se si vuole instaurare una competizione aperta tra i docenti, o se si vogliono riconoscere le attività di chi dà di più alla scuola, rispetto a chi svolge onestamente le proprie attività, ma non dà di più. Io sono per la seconda opzione, perché una competitività accentuata tra i docenti avvelenerebbe il clima della scuola, che ha bisogno di cooperazione e riconoscimento reciproco. Tuttavia, anche un livellamento che non riconosce gli sforzi di chi si impegna più di altri avvelena il clima, perché è iniquo. E nella situazione attuale di crescente scarsità di risorse porta molti dei più “impegnati” a tirarsi indietro, perché non vedono riconosciuto il loro sforzo.

Occorre quindi un sistema che riconosca pubblicamente il lavoro svolto, in modo differenziato. E non tanto per ragioni di efficienza, quanto per ragioni di equità (sul piano dell’efficienza, farebbe probabilmente molto di più un efficace sistema di controllo su chi non fa il proprio lavoro). Questo riconoscimento deve essere istituzionale e economico. Istituzionale: i ruoli devono rendere pubblicamente visibile il lavoro che si fa. Economico: chi fa di più guadagna di più.

Detto questo, per rispondere a queste esigenze sono possibili due vie.

La prima è quella di una progressione retributiva per merito, per cui è possibile migliorare la propria posizione economica sulla base della valutazione del lavoro svolto. La seconda è quella della creazione di una carriera dei docenti, ordinata secondo “gradi” gerarchizzati, a cui si può accedere tramite procedure pubbliche. La proposta del governo va nel primo senso, ma il documento sembra muoversi a volte ambiguamente tra i due terreni. Parla spesso di “carriera”, e inoltre introduce alcuni elementi che sembrano preludere alla formazione di una carriera dei docenti: introduce alla fine la figura del docente “mentor”, che avrebbe un ruolo particolare rispetto agli altri docenti; e, come ricordato all’inizio, evoca un quadro delle competenze dei docenti “nei diversi stadi della loro carriera”. Non è chiaro se si tratta di confusione e poca chiarezza da parte del governo stesso, o se ci sia invece il progetto di iniziare con la progressione per merito, per poi arrivare a una vera e propria carriera. Propendo per la seconda ipotesi interpretativa: la mancanza di chiarezza è dettata da ragioni politiche. Penso però che si dovrebbe invece fare chiarezza su questo, e sul modello scelto.

Vediamo comunque il lato “progressione retributiva per merito”, che è quello affermato esplicitamente dal documento. Qui, il modello proposto ha, rispetto agli intenti che dovremmo avere, dei gravi difetti.

In primo luogo, non è giustificata l’abolizione totale di qualsiasi avanzamento per anzianità. In teoria, stiamo parlando solo delle persone che fanno il loro lavoro. Allora non è chiaro perché chi fa correttamente il proprio lavoro, anche se magari non ci mette una marcia in più, debba restare inchiodato sempre al suo livello stipendiale iniziale. Questo è punitivo, e andrebbe bene per chi non fa il proprio lavoro: per chi è inadempiente ed è giusto che sia punito. Ma l’errore nasce proprio dal fatto che questo problema non viene affrontato: se non si garantiscono provvedimenti disciplinari efficaci per chi lavora male e fa danni, allora è il sistema di incentivi che, impropriamente, serve da strumento punitivo. Ma in tal modo questo sistema colpisce indiscriminatamente, perché (immaginando che funzioni bene) colpisce allo stesso modo sia chi non fa il proprio lavoro, sia chi lo fa onestamente.

Secondo, il meccanismo del 66% è inaccettabile. Gli incentivi dovrebbero essere accessibili senza che ci sia una soglia rigida che determini chi li può avere e chi non li può avere. È pensabile che ci sia un montante dato per gli incentivi (a che livello, però? di scuola, territoriale, nazionale?), ma non se ne può predeterminare la distribuzione in rapporti percentuali. Facendo così infatti si divide a priori il corpo docenti di una scuola nei “buoni” e nei “cattivi”, creando pessimi rapporti al suo interno: si tratta infatti apertamente di un gioco a somma zero, in cui il vincente lo è a spese del perdente. Lo spirito di collaborazione e la collegialità sono fattori determinanti per far funzionare una scuola, lo può dire chiunque abbia esperienza di scuole in cui si lavora bene; è vero che la collegialità spesso è più un auspicio che una realtà, ma è anche vero che un clima conflittuale ricade sempre negativamente sugli studenti. Nella singola scuola, una certa percentuale di docenti rischia di restare sempre sotto la barra degli incentivi. Ed è illusorio pensare che questo possa essere compensato da meccanismi di adattamento come il trasferimento di docenti da una scuola di livello più alto a una di livello inferiore, come afferma il documento: questo modello sottovaluta il senso di appartenenza di un docente alla propria scuola, una volta che il docente ha una sua stabilità.

Terzo: chi valuta? Il Nucleo di Valutazione proposta dal documento è, a dir poco, ridicolo. Anzitutto, perché è del tutto vago: da chi è composto? come viene selezionato? quali procedure segue? Su tutto questo non viene detto niente, solo che sarà composto da personale interno alla scuola, più una componente esterna. Troppo poco. E poi il principio è sbagliato. Se si vuole ancora contribuire ad avvelenare il clima di una scuola, la soluzione migliore è in effetti quella di far valutare i colleghi da altri colleghi. Così siamo sicuri che ci sarà la guerra di tutti contro tutti. La valutazione deve essere gerarchica ed esterna. Dentro la scuola, la persona più adatta a valutare è il dirigente scolastico, è inutile che ci giriamo intorno. Ma ovviamente la valutazione deve essere fatta anche da personale esterno alla scuola, che faccia delle visite con una certa regolarità, e che non si limiti a guardare i pezzi di carta dei crediti accumulati, ma incontri le persone, le intervisti, entri in aula, segua le attività ecc. Certo, questo presuppone due cose: che i dirigenti stessi siano valutati efficacemente, perché non valutino arbitrariamente; e che si formi un corpo di ispettori con competenze didattiche. In ogni caso, la valutazione non deve mai essere fatta da colleghi interni alla scuola.

Per concludere, due righe sul modello che si potrebbe opporre alla proposta del governo.

Se si decide per una progressione retributiva per merito, lasciando da parte la questione della carriera (ancora del tutto aperta), si potrebbe pensare a una progressione retributiva che procede in parte per anzianità e in parte per merito. Per questa seconda parte, potrebbe essere possibile “accelerare” la propria progressione stipendiale sulla base di una valutazione fatta da una commissione composta dal dirigente scolastico e da ispettori esterni (scelti a livello territoriale?), che valuti sì dei crediti formativi, ma soprattutto l’attività reale della persona, con interviste, osservazione in aula ecc. Una valutazione qualitativa, quindi, legata a una visita ispettiva. La possibilità di accedere a tale valutazione potrebbe avvenire periodicamente (ogni tre anni? ogni cinque anni?) e su base volontaria, come una sorta di concorso: i docenti che vogliono sottoporsi all’esame, in quelle date, possono farlo. Così la selezione tra chi accede agli incentivi e chi non vi accede è meno rigida, non essendo imposta dall’alto.

Infine, dovrebbero essere previsti degli incentivi speciali per chi sceglie di lavorare nelle scuole più disagiate, tema del tutto trascurato dal documento e spesso dal dibattito pubblico. Attualmente, su questo fronte, le cose vanno al contrario: i docenti migliori cercano di fuggire dalle scuole difficili (tranne rari eroici casi, ma le istituzioni non si devono reggere sugli eroi) per andare nelle “scuole migliori”. Così le iniquità sociali si aggravano, perché nelle scuole migliori vanno i figli di papà, che in più hanno i docenti migliori. Invece bisogna motivare i migliori a impegnarsi per un certo numero di anni in scuole in difficoltà, con un riconoscimento economico del loro sforzo, e quindi con scatti retributivi speciali.

(Torino, 28 settembre 2014)

[Immagine: Matteo Renzi inaugura l’anno scolastico 2014-15].

4 thoughts on “La scuola di Renzi /2. Dall’eguaglianza al merito?

  1. Stavolta, caro Mauro, mi trovo molto più in sintonia con te. Mi pare che dal tuo pezzo emerga abbastanza bene tutto il velleitarismo, le genericità e i gravi rischi che da queste proposte governative emergono.

    Io aggiungerei che non c’è però da stupirsi, perché il governo Renzi – un po’ perché il Presidente del consiglio ragiona così e riesce a imporre il suo marchio su ogni azione politica, un po’ perché questa è l’aria che tira – è perfettamente in linea con quella retorica e ideologia della valutazione di cui s’è discusso a lungo anche qui su LPLC e che sostanzialmente serve a giustificare a posteriori soltanto la distribuzione iniqua delle scarse risorse, in cui il “merito” vale come una volta valeva la patente di “sangue blu”: come naturalizzazione delle differenze sociali.
    A parte questa mia critica più spinta, ripeto, il tuo pezzo mi sembra comunque giustamente e condivisibilmente assai critico, ed è quello di cui abbiamo bisogno.

  2. Anche questa parte dell’analisi di Piras delle proposte di riforma della scuola da parte del governo, oltre ad essere dettagliato, lo trovo molto condivisibile, specie la critica dell’abolizione di ogni avanzamento per anzianità e dell’assenza di una valutazione gerarchica ed esterna. Mi interesserebbe sapere da Piras poi quali possono essere le cause che hanno portato il governo a formulare alcune idee guida di base sbagliate e alcune idee guida di base corrette ma con realizzazioni pratiche superficiali e da correggere. Poca conoscenza di dettagli dell’ambiente scolastico? O anche visioni politiche generali slegate dai problemi generali della scuola attuale?

    Quello che mi pare chiaro è comunque che l’idea generale di una valutazione dei docenti e della didattica dovrebbe essere vista non con il fine di accumulare denaro e risorse fine a se stesse ma con il fine di produrre docenti e didattica di qualità (la quale richiede risorse anche economiche), che in un mondo a risorse finite fa sì che i docenti e scuole che “fanno danni” debbano avere “fette” di risorse più piccole degli altri. E’ bene dunque non pensare che ogni valutazione porti a una competizione selvaggia in cui scuole povere e prive di risorse diventano sempre più povere e quelle ricche e con più risorse diventano sempre più ricche, se no la valutazione viene vista come la notte dove tutte le vacche sono nere.

    Inoltre volevo sapere da Piras se ci sarà una terza parte del suo saggio relativo alle rimanenti proposte del governo presenti ne “La buona scuola” relative al punto di vista dei contenuti della didattica e degli studenti, a mia impressione la parte più superficiale e che non affronta molti problemi importanti di queste tematiche.

  3. C’è un punto che non mi è chiaro della proposta del 66% e che rischia di essere problematico, in aggiunta a quanto già ottimamente spiegato nel post.
    In La buona scuola si parla sempre del 66% dei docenti in blocco, ma a me sembrerebbe abbastanza ovvio che dovrebbe trattarsi di graduatorie specifiche per materia o area disciplinare. Ma questa cosa è estremamente problematica, perchè diverse graduatorie sarebbero estremamente ridotte, cioè con pochissimi insegnanti dentro, e posizioni difficilmente mutabili.
    Se invece si volesse fare davvero una graduatoria unica per tutta una scuola, si confronterebbero le mele con le pere, e si arriverebbe facilmente a paradossi assurdi.

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