di Damiano Frasca
[È uscito da poco Posture dell’io (Felici) di Damiano Frasca, un saggio sulla poesia italiana degli anni Sessanta che adotta, come parametro critico e storico, l’analisi della postura che la prima persona assume in alcuni libri fondamentali che escono fra il 1963 e il 1966: Nel magma di Mario Luzi, Gli strumenti umani di Vittorio Sereni, La vita in versi di Giovanni Giudici, Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni, Variazioni belliche di Amelia Rosselli. Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dalla prefazione del libro]
In questo studio si prendono in considerazione cinque raccolte poetiche pubblicate a distanza di pochi mesi l’una dall’altra. Gli strumenti umani di Sereni, La vita in versi di Giudici, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee di Caproni sono, infatti, del 1965. Nel magma di Luzi è del 1966, sebbene una prima edizione, con un numero minore di testi, fosse uscita già nel 1963. Variazioni belliche di Amelia Rosselli è del 1964. L’analisi di questi cinque libri è condotta adottando il metodo dei campioni; in ogni capitolo, uno per ogni autore, si parte dall’interpretazione e dal commento formale di una singola poesia, cercando di risalire alla postura (o alle posture) che l’io assume all’interno della raccolta e, più in generale, al rapporto che i nostri poeti instaurano con il genere lirico. Accolto il concetto di «spazio letterario», inteso come «l’insieme delle opere che gli autori di una certa epoca giudicano ragionevole scrivere e (…) ritengono all’altezza dei tempi»[1], si può dire che l’intento principale di questo studio è di ricostruire il profilo di una porzione importante dello spazio letterario della poesia italiana tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta.
Nel periodo a cui appartengono le nostre cinque raccolte, lo spazio letterario appare tanto vario ed esteso da coincidere quasi totalmente con la topografia generale della poesia moderna, descritta da Mazzoni in un suo noto saggio[2]. Se, come lascia intendere la produzione di Luzi, uno dei capifila dell’ermetismo, tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta i poeti italiani considerano poco ragionevole scrivere testi apertamente ispirati alle estetiche della “purezza” e simboliste[3], tuttavia ritengono all’altezza dei tempi scrivere componimenti lirici incentrati su un personaggio autobiografico, oppure monologhi pronunciati da figure distinte da sé, oppure veri e propri romanzi in versi. Ecco allora, semplificando molto, il classicismo moderno di Luzi, Sereni e Fortini, l’espressionismo lirico della Rosselli e di Pasolini, il crepuscolarismo di Giudici e del Sanguineti di Purgatorio de l’Inferno, l’uso delle maschere in Raboni e Caproni, il romanzo in versi di Pagliarani o Cesarano, l’antilirismo di Laborintus. Sono, come si capisce, delle tipologie parziali e dai confini mobili, tutt’altro che rigidi.
Le prime due raccolte che si analizzano in questo studio, Nel magma di Luzi e Gli strumenti umani di Sereni, possono essere ricondotte all’area che è stata indicata con la formula classicismo lirico moderno[4]. È un’area a cui vengono ascritti autori anche molto distanti tra loro per ideologia, ma che comunque sono accomunati da un rapporto di continuità dialettica con la tradizione lirica, tanto sul fronte dello stile quanto su quello dei temi. Alle due raccolte di Luzi e Sereni possono essere accostati i componimenti che Fortini scrive negli stessi anni, come i testi poi confluiti in Una volta per sempre o come l’epigramma, Diario linguistico, indirizzato a Pasolini e pubblicato nel 1966 nella raccolta L’ospite ingrato:
Non imiterò che me stesso, Pasolini.
Più morta di un inno sacro
la sublime lingua borghese è la mia lingua.
Non conoscerò che me stesso
ma tutti in me stesso.
In opposizione alle scelte pasoliniane, l’io rivendica per sé la «sublime lingua borghese», dunque uno strumentario linguistico-formale che, pur appartenendo storicamente alle classi dominanti, può comunque essere pensato come promessa di futuro, anticipazione di un’umanità universalmente integra e liberata. È tipica del classicismo moderno la convinzione, dichiarata esplicitamente in questo componimento, che l’esperienza empirica del poeta abbia un valore di portata generale. Conoscendo se stesso, l’autore può ambire a conoscere gli altri uomini («tutti»). Reiterare un gesto tipico della lirica, come mettere al centro il proprio io, può essere ancora la chiave per fare una poesia che contiene verità che riguardano la vita di molti.
Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Sereni, Luzi e Fortini «continuano a prendere sul serio la propria esperienza, a considerarla universalmente esemplare»[5]. Se i fondamenti che garantiscono dignità e rappresentatività alle vicende personali di questi tre poeti variano da autore a autore, tuttavia la loro parabola poetica sembra tradire, nonostante tutto, una comune continuità con l’Erlebnislyrik tradizionale e la lirica romantica.
La rilevanza accordata dai classicisti moderni alla propria esperienza e ai contenuti autobiografici sollecita alcune considerazioni di natura teorica sulla poesia lirica. Ora, di fronte alla poesia lirica il lettore è spinto quasi istintivamente a identificare la voce e il personaggio che dice io nei singoli testi con il nome riportato in calce al libro che li contiene; e d’altronde i poeti lirici non sono soliti fare molto per dissuaderlo. In generale dunque, se chi legge un racconto o un romanzo in prima persona, per una distinzione narratologica di solito condivisa, non è portato necessariamente ad attribuire alle vicende che ha di fronte un valore autobiografico, così non avviene in poesia. Questi atteggiamenti comuni tra i lettori possono essere considerati alla luce di alcune riflessioni sui generi letterari, legate a tradizioni culturali e momenti storici ben distinti.
Com’è noto, infatti, appartiene alle poetiche romantiche l’idea secondo cui la lirica, rifuggendo la mimesis e l’imitazione, si configura come il genere dell’espressione sincera dello stato d’animo del poeta, e dunque di sentimenti veri e non fittizi[6]. Quanto Leopardi scrive nello Zibaldone sembra rientrare, senza alcuna forzatura, all’interno di questa visione:
Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico[7].
Al di là di evidenti discontinuità e aggiornamenti, l’antitesi lirica-mimesis trova una collocazione in alcuni importanti studi teorici novecenteschi, come Die Logik der Dichtung di Kate Hamburger oppure Finzione e dizione di Gérard Genette. Ora, è interessante sottolineare che, sebbene ammettano esplicitamente l’esistenza di generi misti, forme intermedie tra le due, in sostanza Hamburger e Genette pensano la fiction e la lirica secondo una contrapposizione polare[8]. È una posizione che ha avuto molta fortuna nella seconda metà del Novecento, influenzando non poco lo sviluppo della teoria dei generi letterari e forse determinando anche le disattenzioni della narratologia nei confronti della poesia lirica[9].
Per affrontare la questione del rapporto che lega la lirica alla fiction, però può essere utile spostare momentaneamente il fuoco su due scritti di Vittorio Sereni dei primi anni Sessanta, Il silenzio creativo e Ciechi e sordi. In queste pagine, infatti, Sereni parla esplicitamente della relazione, nei testi poetici, «tra esperienza e invenzione». Qui, l’invenzione, o se vogliamo la fiction, non è affatto presentata come qualcosa di nocivo per una poesia incentrata su «sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi» del poeta[10]. Anzi, essa è
decisiva rispetto alle velleità, ai moti dell’anima, alle idee stesse. Cade come di sbieco su tutto ciò, non combacia mai perfettamente con uno qualunque di questi elementi; e magari ne radicalizza qualcuno, ne allenta o ne attenua altri che in altri casi erano stati addirittura determinanti[11].
Con la sua potenziale duttilità («l’angolo utile»), l’invenzione agisce sui materiali autobiografici, dà più forza all’esperienza dell’io, permettendo alla poesia di «aderire meglio a quanto ha di vario il moto dell’esistenza»[12]. Ciò che più colpisce di queste pagine, dall’evidente valore di dichiarazione di poetica, è il sostrato teorico su cui poggiano: Sereni, infatti, dà per assodato che la presenza della finzione nei componimenti poetici non coincida necessariamente con un’uscita dalla lirica.
Die Logik der Dichtung di Hamburger e Finzione e dizione di Genette offrono ancora oggi un contributo imprescindibile nella definizione dei generi letterari. Forse, però, proprio sviluppando gli spunti offerti dalle pagine di Sereni si può provare a sostenere una proposta teorica meno rigida di quelle di Hamburger e di Genette: una proposta che riconosca sempre alla poesia lirica un tasso di finzionalità, anche se minimo e nella maggior parte dei casi ben nascosto dai testi. È un’ipotesi che, non contrapponendo più a priori la poesia lirica e autobiografica alla fiction, ha il vantaggio di continuare a pensare il personaggio che dice io nei componimenti, sì, come l’analogo testuale dell’autore, di cui conserva la storia personale, la sfera emotiva, l’esperienza, ma anche, in una certa misura, come il frutto di una costruzione.
A conti fatti, il caso della lirica palesa che, nei testi letterari che leggiamo abitualmente, la dominanza di una di queste due sfere, tra fiction e non-fiction, non esclude la presenza dell’altra. Per quanto comodo, lo schema binario che divide il campo letterario in due super-generi contrapposti tra loro è più traballante di quanto non si pensi solitamente.
A ben vedere, come finisce per ammettere lo stesso Genette in Finzione e dizione, le forme pure di fiction e non-fiction, «indenni da qualunque contaminazione», non esistono se non nella «provetta dello studioso di poetica»[13]. Se vista da vicino, un’inquadratura dei generi per via negativa, basata sulla netta opposizione all’egemonico super-genere della fiction, non regge perché svilisce la varietà e le peculiarità delle forme letterarie. Rinchiusa in una grande gabbia comune, la lirica sguscia via agilmente, da un lato esibendo la distanza tra il proprio linguaggio, così ritualizzato e innaturale, e le scritture che le vengono accostate, dall’altro ricordando che i generi letterari e la finzione possono vantare anche parentele nascoste.
Note
[1] G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 9.
[2] Ivi, pp. 173-203.
[3] Anche la poesia che Zanzotto scrive in questi anni, per quanto ancora vincolata a presupposti simbolisti, in superficie lascia subito trasparire la volontà dell’autore di «affrancarsi dall’ermetismo», cfr. S. Dal Bianco, Confessioni di un curatore, «L’immaginazione», XVIII, 175 (2001), p. 12.
[4] G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., pp. 187-189; Id. Forma e solitudine, Milano, Marcos y Marcos, 2002; G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, Lucca, Pacini Fazzi, 2002. Gli studi critici più approfonditi sul classicismo moderno di Montale rimangono a tutt’oggi A. Casadei, Prospettive montaliane. Dagli «Ossi» alle ultime raccolte, Pisa, Giardini, 1992, R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 169-173 e soprattutto il fondamentale T. de Rogatis, Montale e il classicismo moderno, Pisa-Roma , Iepi, 2002.
[5] G. Simonetti, Dopo Montale…, cit., p. 389.
[6] G. Bernardelli, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo letterario, Milano, Vita e Pensiero, 2002, p. 78.
[7] G. Leopardi, Zibaldone, Milano, Mondadori, 1997, vol. II, pp. 2926-2927.
[8] R. de Rooy, Il narrativo nella poesia moderna. Proposte teoriche & esercizi di lettura, Firenze, Cesati, 1997, pp. 45-47.
[9] Ivi, p. 46.
[10] V. Sereni, La tentazione della prosa, Milano, Mondadori, 1998, p. 69. Aiuta a inquadrare cosa Sereni intendesse per invenzione un passo del Silenzio creativo, spesso citato dalla critica: «Un poeta invidierà sempre a un narratore, sia questi o no di stampo tradizionale, quella specie di sortilegio evocativo con cui l’altro dà corpo, illusorio fin che si vuole, a figure, situazioni vicende, ben oltre la voce, l’accento, la formulazione lirica immediata» (Ibidem).
[11] Ivi, p. 70.
[12] Ibidem.
[13] G. Genette, Finzione e dizione, Parma, Pratiche, 1994, p.75.
[Immagine: Christian Boltanski, Christian Boltanski à 5 ans 3 mois de distance (gm)].
@damianofrasca
Concordo con Frasca nella necessità di riconoscere “alla poesia lirica un tasso di finzionalità, anche se minimo e nella maggior parte dei casi ben nascosto dai testi”, e credo che questo sia assolutamente ovvio, a meno che non si voglia rimanere aggrappati all’idea romantica della poesia come “spontaneous overflow of powerful feelings” (idea che resta quella dominante se, togliendoci i panni di addetti ai lavori, consideriamo il senso comune). Che poi il termine “lirica” sia arrivato a identificarsi con quello di “poesia” lo sappiamo da tempo. Certamente, sotto questo punto di vista, la “lirica” di Fortini non è la “lirica” di Luzi: questione di postura dell’io, per l’appunto. Quello che però vorrei chiedere a Frasca è: ridisegnati i confini del rapporto tra fi(n)zionalità e lirica, non crede che lo stesso si debba fare anche per il legame tra lirica e mimesis (in senso auerbachiano)? E, quindi, tra lirica, fizionalità e mimesis?
Ringrazio Andrea Lombardi per l’attenzione con cui ha letto il post.
Sì, nel saggio a me interessa ribadire il superamento della contrapposizione polare lirica-fiction per diverse ragioni. Una, ad esempio, è che se si ammette sempre questa presenza di un tasso di finzionalità si possono poi considerare interne allo spazio letterario della lirica anche posture crepuscolari come quella dell’io di Giudici nella Vita in versi o di Sanguineti in Purgatorio de l’Inferno. Non a caso per Giudici Raboni parla di un io «metà confessato e metà inventato» e Sanguineti parla per sé di un «finto autobiografismo» (ed è una ‘proporzione’ in cui possiamo scambiare di posto i ‘conseguenti’).
Mi sembra un passaggio importante anche perché permette di superare quelle letture critiche che continuano ad attribuire al secondo Sanguineti l’etichetta di poeta antilirico (per me invece l’unica raccolta antilirica di questo poeta rimane Laborintus).
Per rispondere alla domanda di Andrea Lombardi se «ridisegnati i confini del rapporto tra fi(n)zionalità e lirica», io non creda che «lo stesso si debba fare anche per il legame tra lirica e mimesis (in senso auerbachiano)?», non posso che rispondere ‘sì’ e che mi sembra un lavoro molto utile. In diverse pagine del mio saggio, più o meno apertamente, cerco di affrontare i testi pure con questa intenzione, con ricadute proprio sulla mappa della lirica che provo a descrivere.