cropped-deandre5.jpgIl culto per Fabrizio De André nell’Italia contemporanea

di Andrea Cortellessa

[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 28 ottobre 2011].

È appena meno risaputo del fatto che non ci siano più le mezze stagioni. Se c’è un assunto dato per scontato dalla nostra cultura massmediatica è che i poeti non sono più quelli di una volta. Nel senso che la poesia contemporanea (appena meno vituperata della musica, che osi corredarsi dell’infausto aggettivo) non si capisce. Peggio: non vuole farsi capire, è autoreferenziale, è «per specialisti». Altri tempi quelli di Dante, di Leopardi, o anche di Montale. (Come se le tirature dei loro libri, allora, fossero di milioni di copie.) Lo hanno detto anche critici illustri. Per esempio Marco Santagata – il maggior esperto di Petrarca, oltre vincitore del Campiello come romanziere – che in una sua antologia scolastica ha sostenuto che, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, «la migliore poesia italiana […] va ricercata all’interno della produzione musicale» (Il filo rosso, Laterza 2006). O l’ottimo Guido Mazzoni: secondo il quale «la poesia contemporanea è un genere in declino», «ha perduto da tempo ogni legittimazione collettiva», e l’esigenza che per secoli essa ha interpretato è da tempo soddisfatta, piuttosto, dalla canzone (Sulla poesia moderna, il Mulino 2005).

Già, perché se i poeti non sono più quelli di una volta è anche perché, stando così le cose, «poeti» sono da considerarsi piuttosto, ora, quelli che scrivono (ed eseguono) appunto le canzoni. Non solo (come ci ricorda quasi in ogni suo film Nanni Moretti) ad esse si lega la memoria collettiva ma, proprio per questo molto meglio della letteratura «ufficiale», rispecchiano e interpretano la nostra storia (così almeno hanno sostenuto storici come Stefano Pivato (La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, il Mulino 2002) e Giovanni De Luna: il quale insieme a Marco Peroni nel 2004 ha ideato per Ricordi-BMG una collana di libri-cd ad hoc, «Le Voci del Tempo», ciascuno dedicato a un diverso cantautore). Chi lo ha detto con più decisione è stata la vecchia Fernanda Pivano, che a un certo punto finì per decretare che era Fabrizio De André  – papale papale – «il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni» (The Beat Goes On, Mondadori 2004).

Ecco, De André. Anche chi a frasi come le precedenti (che tutte giocano un po’ pour épater) risponde con un sorriso di sufficienza, deve munirsi di pinze parlando di De André. Non solo perché davvero la sua avventura musicale è stata per molti versi unica, pionieristica e in molti sensi coraggiosa; ma perché il culto che gli viene tributato, da piccoli e grandi fan, ha del sanguinario. Anzi, quello per De André è un po’ un unicum perché mentre le passioni sanguinose sono in genere ultraminoritarie, da happy (very) few, la Deandrelatria – nei dodici anni che ci separano dalla sua morte prematura – più che trasversale è stata pervasiva, ubiquitaria. Quasi totalitaria. La bibliografia su di lui è degna di un grande classico della nostra letteratura; gli sono intitolati premi, fondazioni, convegni (nonché strade e piazze). Remixando i suoi testi, uno scrittore di valore come Aldo Nove ha composto un canzoniere in prosa che è fra le sue cose migliori (Lo Scandalo della Bellezza, No Reply 2005; è seguito addirittura un volume a più mani nel quale i giovani narratori italiani – sempre terrorizzati all’idea di non apparire perfettamente «popolari» – hanno fatto a gara a riscriverlo: Deandreide, a cura di Giorgio Vasta, BUR 2006). Sui muri della mostra annisettanta, alla Triennale di Milano nel 2007, erano riportate frasi esemplari che avrebbero dovuto dare il senso di quel decennio: e la scelta del curatore Gianni Canova pescava esclusivamente dal repertorio di De André. Non solo il maggior scrittore italiano del decennio, dunque, ma addirittura l’unico.

Fra le parole tanto amate del Faber i fan sembrano voler ignorare, però, solo quelle con cui il diretto interessato, al riguardo, non pareva dar adito a dubbi. In un’intervista del 1979, ha dato lui – mi pare – la più equilibrata definizione di se stesso: «rifiutavo questa etichetta di poeta che volevano per forza appiccicarmi addosso: cercavo soltanto di gettare un ponte tra la poesia e la canzone, e mi servivo della musica come un pittore si serve della tela». Parole che un poeta di oggi – che De André lo ama molto (producendosi anche in una riscrittura della Canzone del maggio) –, Lello Voce, ha commentato così: «i ponti non sono fatti per confondere le rive, sono fatti per portare gli uomini da una sponda all’altra, lasciando loro la coscienza di essere sull’una, o sull’altra sponda» (in Il suono e l’inchiostro. Cantautori, saggisti, poeti a confronto, a cura del Centro Studi Fabrizio De André, Chiarelettere 2009).

L’immagine del ponte è importante non solo per il collegamento, ma anche per il trasporto. In un’altra intervista, dell’84, De André si riconosce un merito: quello appunto di «trasportare nella canzone dei temi che erano bagaglio della letteratura». Ed è proprio di natura tematica la più grande novità che De André – nel momento-chiave in cui si afferma la «canzone d’autore», così chiamata a partire dal 1960 – importa in un mondo, quello della canzone italiana, sino ad allora dominato dagli stereotipi più vieti dell’ammmore romantico e dei buoni sentimenti familistici. Come ha sottolineato Giuseppe Antonelli nella sua recente indagine linguistica sui testi della canzone italiana del secondo Novecento (Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, il Mulino 2010), una canzone come Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, che nomina le «grandi puttane» con cui pare «debbano risolversi» tutte «le avventure in codesto reame» (nulla di nuovo sotto il sole!), è antropologicamente – prima che linguisticamente – un segno assai eloquente dell’anno in cui uscì: il 1968. L’«umanità di scarto» che pullula nella Genova reinventata da De André – alla luce di Baudelaire e di Saba, secondo Gianni Borgna; ma io ci metterei anche Dino Campana – rappresenta in questo senso una vera, importante novità. Come ha mostrato una studiosa che ha lavorato nel suo archivio, Marianna Marrucci, i prelievi di De André dalla letteratura «alta» (ma con un sintomatico penchant per quella che pesca nei registri «bassi», come le ballate di François Villon) erano estesi e corposi, al limite del plagio creativo (per esempio nei confronti di Álvaro Mutis; i testi di Borgia e Marrucci sono in Il suono e l’inchiostro, cit.).

Meno entusiasmante il bilancio in sede linguistica e stilistica (che è, o dovrebbe essere, il campo di squisita pertinenza appunto della poesia). Sino ai testi «classici» di De André, quelli appunto degli anni Settanta, la sua versificazione di rado si discosta dalla metrica tradizionalmente impiegata dalla canzonetta italiana, l’odicina melica codificata nel Seicento da Gabriello Chiabrera (versi brevi, spesso parisillabi, con rime sdrucciole o, più spesso, tronche), perfetta per calzare come un guanto sulle forme musicali ricorsive coi loro ritornelli. Ed è proprio questo semplice problema «tecnico» (e non certo lo snobismo o il «razzismo» che spesso i cantautori e i loro fan rimproverano a chi si ostina a non riconoscere loro dignità letteraria), che impone ai testi delle canzoni improbabili passati remoti e futuri, forestierismi altrimenti gratuiti, esclamazioni monosillabe da melodramma ottocentesco e altre «zeppe» evidenti. Il che impedisce (come ha mostrato Luca Zuliani nel miglior saggio sulla tradizione dei nostri testi per musica, Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani, il Mulino 2009) che i versi delle canzoni italiane possano ambire a un’effettiva autosufficienza poetica. Si tratta di una lingua ancillare, con tutta evidenza modellata sulle esigenze di un’altra metrica: quella musicale. Per questo fra l’altro la grande poesia italiana (che sin dal Cinquecento ha «divorziato» dalle forme musicali, emancipandosene definitivamente con la «canzone libera» di Leopardi), a differenza di quella di altri paesi, è molto difficile da mettere in musica: nel 1941 il Coro di morti di Goffredo Petrassi ha potuto fare eccezione proprio perché in quell’occasione Leopardi, per una volta, aveva fatto il verso alla melica corale d’antan.

De André soffriva molto questa gabbia, ed è stato fra i pochi a denunciarne le ristrettezze: «Scrivere canzoni in italiano è difficile tecnicamente, perché le esigenze della metrica ti rendono necessaria una gran quantità di parole tronche, che in italiano non ci sono, o comunque non abbondano. A questo punto ti vedi costretto, per garantire la qualità estetica del verso, a cambiare addirittura il senso di quello che vuoi dire». E infatti il senso per De André veniva prima di tutto. Lo testimoniano le sue carte: prima stendeva un canovaccio, un «argomento in prosa» (spesso prelevato da un’opera letteraria-fonte), poi componeva la musica, e solo alla fine versificava l’«argomento»: appunto seguendo la musica. Ed è stato proprio nel tentativo di evadere a tutti i costi da queste costrizioni «tecniche» che lo stesso De André ha percorso le sue strade più innovative: usando melodie non ricorsive (ispirandosi a musiche arcaizzanti e a ballate popolari, come nel caso di Marinella o della Guerra di Piero), usando ritornelli senza testo (lasciato agli strumenti, fischiettato o cantato senza parole, come in Bocca di rosa o nella Ballata dell’amore cieco) o usando al posto dell’italiano il dialetto: come nel grande album dell’84 Crêuza de mä che non solo dà l’avvio alla rinascita dialettale della canzone italiana ma è finalmente in sintonia (e in sincronia) con le scelte di parte non esigua della parallela poesia di ricerca.

Oggi il panorama musicale è molto cambiato, e come dicono in molti non ha forse neppure più senso un’espressione come «canzone d’autore». Ma almeno della metrica melica e delle sue assurde rime tronche gli autori migliori possono fare finalmente a meno: e se lo possono fare è anche, se non soprattutto, grazie al lavoro pionieristico di gente come De André. Resta vero, però, che pretendere di «leggere» le canzoni come poesie è un autentico paradosso. Significa infatti privarle di ciò che hanno in più rispetto alla poesia, la musica: costringendole a giocare una partita impossibile. Un altro poeta del nostro tempo, Valerio Magrelli, una volta ha detto che tra i versi che scrive lui e quelli delle canzoni c’è un rapporto simile a quello fra la ginnastica a corpo libero e quella con gli attrezzi. Lamentarsi di quella che appare una diminuita rappresentatività sociale della poesia, e decidere per decreto che dunque la poesia è un’altra – quella delle canzoni, appunto – equivale a rispondere alla crisi di credibilità del ciclismo facendo correre il Tour de France a Valentino Rossi.

[già apparso, con altro titolo, su «Alfabeta2»].

20 thoughts on “Il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni?

  1. Poiché Cortellessa cita il brano di un saggio che ho scritto, vorrei precisare la mia posizione ed evitare alcuni equivoci. Per me il declino della poesia contemporanea è sociale, non estetico. Oggi i poeti hanno una visibilità pubblica molto bassa, mentre la musica pop e rock – cioè la forma estetica che svolge le funzioni della poesia contemporanea nell’ambito della comunicazione di massa – ha una visibilità pubblica altissima e un mandato sociale plebiscitario. Tutto qui.

    Se invece vogliamo riflettere sul valore della poesia in quanto forma d’arte, io credo che la poesia italiana dei nostri tempi non sia né peggiore né migliore di quella che è stata scritta nel corso del XX secolo. Non vedo alcun declino estetico. In questo senso, la mia posizione è molto diversa dalla posizione di Santagata. Del resto non sono solo un critico. Se non attribuissi alla poesia contemporanea un contenuto di verità, sarei rimasto, pubblicamente, solo un critico.

  2. date a De André quello che è di De André e a Montale quello che è di Montale: penso che l’unico modo “per non confondere le due rive” sia appunto quello di distinguere la parola scritta da quella della canzone d’autore: due forme diverse di poesia (ma cosa significa ‘poesia’ di preciso?), forse.

  3. Penso che il culto dedicato a De André nasca anche dall’unicità della sua figura. Ricordo bene quando uscirono le sue prime canzoni, l’impatto dirompente che ebbero su noi adolescenti, abituati o all’imitazione domestica e rokkettara dei cantanti americani (quando non ai loro testi tradotti e cantanti in italiano) da Presely e Paul Anka, in poi, (i Beatles e gli Stones vennero dopo) o alla Cinquetti e a Bobby Solo. De André era qualcosa che da noi non si era mai sentito. Con una musica da trovatore, narrava storie in cui ci identificavamo, che parlavano di poveri morti in battaglia, di puttane, di benpensanti incapaci di vedere la bellezza dei sentimenti veri. Fu il primo anticonformista della nostra adolescenza. Il primo vero rivoluzionario che conoscevamo. E lo faceva con i versi delle sue canzoni (o con quelli presi da Villon e Brassens).
    Poi scoprimmo che la sua musica e le sue parole avevano appunto un grande ispiratore, George Brassens, poeta, anarchico, compositore e interprete unico e affascinante. Fumatore accanito e bevitore epico, un poète maudit come ci immaginavamo Angiolieri, Villon, Baudelaire e Rimbaud.
    Una figura che ci ricordava i trovatori provenzali – in Provenza infatti era nato – e in De André vedemmo uno di quei trovatori tornato fra noi.
    Questo era per noi allora adolescenti Fabrizio. Uno che, ben prima del ’68, ci metteva sotto il naso l’ipocrisia di una società ottusa e bacchettona, ma lo faceva da poeta.
    Tornava cioè alle origini della poesia, quando poesia e musica non erano separate. Perché questa è la genesi della poesia. La fonte è quella.
    Poi ci sono stati i cantautori, ma per quanto molti di loro siano stati grandi, nessuno è riuscito a seguire poi fino in fondo e con coerenza la strada che De André aveva iniziato e percorso.
    E’ rimasto un trovatore tutta la vita. Ed è questo forse che lo fa considerare un poeta. Per molti versi lo è.
    Ma non si può certo dire che sia “il maggiore poeta italiano degli ultimi cento anni”. Questo no. E’ una figura difficilmente classificabile. Almeno in Italia, dove, a differenza della Francia, questa tipologia di artista non è frequente.
    Lasciamo perdere la Pivano, che forse sarebbe meglio deporre finalmente dagli altari sui quali è stata incomprensibilmente posta. Non è che la Fernanda se ne intendesse poi così tanto di lingua poetica, come molti sanno ma non osano dire.

    Non concordo invece sull’affermazione. “pretendere di «leggere» le canzoni come poesie è un autentico paradosso. Significa infatti privarle di ciò che hanno in più rispetto alla poesia, la musica: costringendole a giocare una partita impossibile.”
    Se per “canzoni” intendiamo i testi musicali che accompagnano la musica, certo, è così. Ma se questa è una dichiarazione in assoluto, allora no.
    Le origini della musica sono proprio nella recitazione dei versi – dall’epica in poi – e per secoli la poesia è stata inscindibile dalla musica, dato che veniva recitata “cantandola”.
    Ciò che appunto distingue la poesia dalla prosa è quella “musica” interna (non necessariamente armonica, spesso oggi spezzata e persino atonale) che è forma e contenuto. E’ la forma e la cosa. I suoni usati come note musicali, anche fosse per arrivare alla dodecafonia.
    Al punto che Dante Gabriele Rossetti poteva dire che, nel leggere Dante, era persino preferibile non conoscere l’italiano, per percepire la potenza dei suoni e Poe teorizzava nei suoi saggi che la poesia E’ musica, che v’è una fusione inscindibile di forma e significato.
    De André è un poeta sui generis. Perché volerlo a tutti i costi incastrare appioppandogli un’etichetta, infilandolo in una casella, proprio lui che ha vissuto rifiutandole tutte?

  4. Penso che Fabrizio de Andrè non abbia eguali. Penso non sia un poeta. Lui non credeva d’esserlo. E’ stato il nostro più grande cantautore, musicista e ricercatore musicale, esploratore e molto altro. A differenza della poesia lui aveva gli strumenti e il talento per comporre musica. Album come “Le Nuvole” “Creuza de mà” “Anime Salve” sono straordinari, di valore artistico assoluto. La canzone – testo, musica, arrangiamento e performance dal vivo – è una cosa; la poesia è un’altra. Cose diverse e De Andrè lo sapeva bene.

  5. Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa. (Fabrizio De André)

  6. Ma De André era solo De André? Quante canzoni, quante musiche, quanti accordi, anche dei suoi brani più famosi, sono stati in realtà scritti o in collaborazione con altri o interamente da altri? E quante delle sue canzoni riprendono, anche senza dichiararlo, brani di altri? La “Canzone di Marinella”, tanto per dirne una, cita spudoratamente la colonna sonora di un film … Già solo questo fatto basterebbe per smentire l’idea di De André come “il più grande poeta” … La Pivano già citata, per altro, quando dice quella frase cita a testimonianza due canzoni interamente scritte da Massimo Bubola; allora Bubola è il più grande poeta italiano? De André è stato un musicista, non un poeta. Che senso ha separare i testi delle sue canzoni dalla sua voce? O forse ha senso se si pensa alla canzone o alla poesia come fatte di solo contenuto …

    Un unico appunto allo scritto di Cortellessa (che per il resto m’ha convinto), ed è riferito al pezzo dove afferma che “è proprio di natura tematica la più grande novità che De André”. Al di là del fatto che la canzone citata (“Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”) non è di De André, bensì di Paolo Villaggio, quella novità era già operante: De André percorre una strada che era stata già tracciata da Giovanna Marini, da Ivan Della Mea, etc..

    […] È strano, è una specie di vendetta della storia, ma quando nel 1960 alcuni addetti dell’industria discografica (Ennio Melis, Vincenzo Micocci) alla Rca Italiana inventarono il termine “cantautore”, probabilmente quello che volevano era il contrario di ciò che avvenne: cercavano di sottrarre quella figura relativamente nuova per la nostra discografia alle connotazioni intellettuali (“di sinistra”) implicite nei personaggi che allora si affacciavano sulla scena internazionale: poeti anarcoidi come Brassens, cultori di eleganza anticonformista come Jobim e De Moraes […]. Ma le parole e i significati sfuggono al controllo, e nel giro di pochi mesi quell’invenzione divenne il nome con cui identificare altri anarcoidi, esteti, intellettuali, che forse come chansonniers sarebbero rimasti nell’ombra: cantautori – appunto – come Paoli, Tenco, Endrigo, Gaber, e più tardi De André, Guccini e così via. Quindi l’idea di Melis e Micocci funzionò, sebbene forse in modo imprevisto. Non del tutto: sotto altri aspetti, dobbiamo a quel termine, e all’uso che se ne fece soprattutto nei primi anni, la relativa emarginazione degli autori e cantanti di canzoni soprattutto politiche come Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli, Fausto Amodei, che non avevano rapporti con l’industria discografica (neppure nel modo dialettico di Tenco o di De André) e per i quali sembrava inappropriato e che sempre rifiutarono. […] Ma chi sa spiegare in cosa è diverso il lavoro di Bertelli o della Marini quando scrivono e cantano una propria canzone? Ecco, quindi, a cosa è servito – beninteso, senza che ce ne fosse l’intenzione esplicita – dare quel nome ai cantautori: a creare un mondo diverso, contrapponibile al commercialismo della “musica leggera” ma al tempo stesso radicato nell’industria, differente (e qualche volta anche contrapponibile) rispetto alla canzone impegnata, di protesta, legata per vocazione alle tradizioni popolari. “Cantautore”, insomma, è un termine ideologico: sotto l’apparenza tecnica nasconde – nel suo piccolo – una visione del mondo. […]

    Franco Fabbri, L’ascolto tabù, Il Saggiatore

  7. Mi colloco naturalmente tra i cretini, anche se poco dopo i diciotto anni ho smesso di scrivere poesie. In quanto cretino non posso fare a meno di dire che il più grande poeta degli ultimi centocinquanta anni è senza meno Sandro Bondi. Invece De André penso di no, penso sia stato piuttosto un bell’essere umano, lontanissimo dalla disumanità che si richiede a un poeta che si rispetti. Certi testimoni dicono anche che fu un grande plagiaro (secondo me un’enorme qualità).

    Il fatto che il pubblico cerchi di ricondurre la poesia al sentiero conosciuto, cioè al livello mediano della comprensione, è ancora un fatto umanissimo (e quindi, quanto mai impoetico). In questo senso non si sfugge: il popolo elegge poeti gente come Alda Merini o come Vasco Rossi (anche più di de André), perché corrispondono all’immagine che si sono fatti dei poeti andando più o meno tempo a scuola, gente matta e ribelle. Invece se ne frega, sempre il popolo, della poesia accademica o avanguardistica, sapendola roba che riguarda solo le élites intellettuali. Io, da cretino, penso che poco abbia fatto la poesia per ribellarsi all’uniformità della lingua alla quale il potere, attraverso tv e scuola, ha condotto gli italiani. Quel poco che fa lo fa o lo ha fatto insistendo sull’uso del dialetto, degli unici suoni che ci riconducono tutti a qualcosa di reale. Però. rimanendo nell’ambito musicale, penso più al dialetto di Matteo Salvatore che a quello di De André (o di Franco Loi)…

    L’ultimo vero poeta degli ultimi cento anni riconosciuto dal popolo, e in possesso di mandato popolare, è stato Vittorio De Sica. Poi più nulla. Tutta poesia organica e indirettamente al servizio delle élites borghesi al comando della società. Cantautori compresi. Pasolini compreso.

  8. Credo che il punto di vista più completo sia stato espresso da Mazzoni e Diano, fra questi commenti. E’ vero che oggi la poesia ha una visibilità pubblica certamente minore rispetto ai testi in musica, come è vero che la poesia stessa nasce strettamente collegata alla ritmica. Le discriminanti per dirimere tali questioni (cosa è o non è arte) sono come sempre il gusto, la forma (quindi la tecnica) e, non ultimo in ordine di importanza, il contenuto: usando questi tre parametri, si può personalmente decidere – di volta in volta – se siamo di fronte a un’opera d’arte o a una “crosta”. Andrebbe anche specificato che la poesia cosiddetta lirica ha un suo valore anche oggi, diversamente da chi auspica in via esclusiva una poesia social – civile che viene invocata da più parti come l’unica in grado di risollevare le sorti poetiche nostrane. Questa presunta crisi, però, credo sia un’invenzione della critica (che dal XIX secolo pretende ciclicamente di stabilire un canone, e nel pretenderlo ci annoia con categorie e etichette), la quale si ostina a non tenere conto di quanto la fruizione e i canali dell’arte siano profondamente cambiati, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo e ancora più nel primo decennio del XXI. Di pari passo con tali cambiamenti, va anche il concetto di arte e le forme della sua espressione.
    In ogni caso, io mi chiedo sempre – di fronte a certi quesiti, accompagnati da enunciazioni (sia in negativo che in positivo) – quale sia la loro necessità. In parole povere, dove mai risiede l’importanza di stabilire come in questo caso se un artista (riconosciuto tale nel suo campo dai più, portatore di un messaggio universale e collegato alla memoria storica di noi tutti, applicatore di una tecnica consolidata, realizzatore di prodotti gradevoli secondo l’estetica generale) sia stato poeta o cantautore o entrambe le cose; e se la poesia è o non è poesia a seconda che si applichi una metrica da ballata, da madrigale, da sonetto, da canzonetta, ecc.

  9. La questione non è se inserire o meno De André tra i Grandi Poeti, credo: sarebbe come chiedersi se il mostro bicefalo Mozart-Da Ponte è un grande drammaturgo (con tutti gli scarti di grandezza del caso). O se Pina Bausch sia stata una grande attrice teatrale. Il problema è riconoscere l’importanza sociale, e di conseguenza la rilevanza estetica, di quello che è a tutti gli effetti nuovo genere artistico – ibrido quanto si vuole, e all’incrocio di più tradizioni anche antichissime sotterranee o rimosse – che si avvale in modo inedito di testo, musica, interpretazione. E’ un genere che presenta una varietà di soluzioni e di ricerche altissima e a tratti indefinibile – come il cinema, è nato in un’epoca di “decadenza”, di esaurimento e di massificazione dell’estetico, è dunque un genere già per molti versi “maturo”, e con un’impressionante varietà di forme a sua disposizione su ogni versante, testuale musicale teatrale. La canzone d’autore italiana è un filone preciso, con una sua storia e tradizione, le sue parentele con altre tradizioni nazionali ecc., di cui De André è solo una delle punte più popolari. Non si tratta di poeti, ma per l’appunto di cantautori, che vanno giudicati per ciò che scrivono, per come lo mettono in musica, per come lo interpretano. Isolare uno solo di questi tre elementi è travisare l’interpretazione. Azione legittima, certo, ma ai fini di indagini circoscritte e mirate – una comparazione tra la ricerca musicale della canzonetta, della musica cantautoriale e della musica underground italiana, per dire. Tutto questo per dire che sarebbe ora di cominciare a studiare, con tutta la serietà e con tutti i distinguo di strumenti e giudizio del caso, la storia di questa tradizione. Magari un discorso critico documentato e militante non si limiterebbe a ribadire l’ovvio – la grandezza di un De André – ma saprebbe invitare al meglio che spesso di questa tradizione s’ignora: il primo Dalla (di un oltranzismo musicale e testuale impareggiabile, merito anche di Roversi), un buon De Gregori, un immarcescibile Vecchioni, Gino Paoli e Paolo Conte, un vivacissimo Jannacci, un defilato ma talentuosissimo Fossati, eminenza grigia della canzone italiana. E in questo excursus, si potrebbero addirittura riportare alla luce delle altissime glorie dimenticate – la recitazione tragicomica e straniata di un Piero Ciampi, ad esempio, che chiede al suo merlo di scrivergli una canzone – o dare valore ad artisti recenti passati quasi del tutto inosservati – e mi riferisco al ben noto caso di Flavio Giurato. Se guardo al complesso del panorama musicale cantautoriale, insomma, mi sembra veramente ininfluente la querelle su De André – “dove collocarlo? è più nobile di un cantautore ma meno di un poeta? Come un poeta più di un cantautore? Più di un poeta più di un cantautore?”. La sua collocazione ce l’ha, e in una tradizione fortissima – che non è quella della poesia novecentesca italiana – di cui è solo un illustre esponente. Poi, se si vuole, si può pure parlare dei rapporti di successione e dipendenza tra cantautorato e poesia, così come si è parlato – e si parla – di quelli tra poema cavalleresco e romanzo. Ma prima, credo che occorra riempire il vuoto storico-critico che attornia l’isola De André, fare una cartografia dell’intero arcipelago, studiarne il clima e le correnti marine.

  10. Io, che non seguo granché la produzione poetica contemporanea e neppure m’interesso alla musica leggera, trovo che sia una grande sciocchezza pensare che un cantautore possa essere il più grande poeta degli ultimi cento anni, o che la canzone, anche di qualità, sia la stessa cosa della poesia. Una brutta, bruttissima poesia è comunque su un altro piano rispetto alla più bella composizione di parole e musica. La prova? Alla bruttissima poesia potete comunque sfuggire, non leggendola o non recandovi agli incontri pubblici con i poeti. La canzone invece è nell’aria: vi capita di sentirla nonostante tutto, e turarsi le orecchie non sempre è possibile.

  11. Credo che De André sia stato un grande cantante, la sua fortuna, continuo a credere, l’ha fatta la sua voce più che le sue parole, le sue canzoni; oltre al suo spirito emanante ed ammaliatore. Direi che aveva, come si dice, un mood letterariamente funzionante, che per la maggiore gli apparteneva senza troppo dover posare.
    Anche a ricerca musicale, bisogna andare a fondo. A parte i primissimi album che sono ad ogni modo bellissimi, le sue musiche dopo furono scritte quasi sempre da altri collaboratori, tra cui Massimo Bubola, Mauro Pagani (che ha praticamente fatto tutto il lavoro “sporco” in Creuza de ma e inventato quelle melodie), Ivano Fossati i più famosi. Ma ce ne sono stati tantissimi, com’è giusto che sia.
    L’uso del dialetto antico di Genova in Creuza de ma, o in canzoni posteriori, ha valenze di tipo esclusivamente estetiche, a mio avviso, in cui la lingua non sovverte o libera dando quello spaventoso senso del vero che va di traverso al Sistema Sistemato, anzi rimanda ad un universo distaccato di storia e contenuti; torna indietro, in un mondo di nostalgia marinaresca, di puro lirismo…

    De André calzò pienamente quella scarpa sformata, quella inevitabile esigenza che da liceale ebbi, e che moltissimi ebbero ed hanno, di poesia che non provenga dalla scuola, e che spesso viene frettolosamente confusa con la “giusta” controcultura, finché non ci si rende conto che la controcultura non esiste e tutto è cultura, o se non si vogliono chiamare allo stesso modo, servono comunque la stessa causa. ma De andré resta, a prescindere da tutti i discorsi, una grande individualità, sia che lo si voglia chiamar poeta, sminuendo un po’ il genere della canzone, sia che lo si voglia chiamare diversamente, e magari, senza sminuire il genere della canzone, considerarlo un grande cantante.

    PS: uso volutamente il termine cantante perché non amo la decapitazione che solitamente, usando Cantautore come discriminante gerarchico di settore e canone, si compie contro la canzone.

  12. Credo che l’intento di Andrea Cortellessa sia rispedire al mittente l’equiparazione fra poesia e canzone, sulla base di un argomento tecnico. La canzone non è poesia: a distinguerle nettamente sono l’aspetto metrico, linguistico e musicale. L’aspetto decisivo è quello musicale: “Resta vero, però, che pretendere di «leggere» le canzoni come poesie è un autentico paradosso. Significa infatti privarle di ciò che hanno in più rispetto alla poesia, la musica: costringendole a giocare una partita impossibile”.

    Non si può non essere d’accordo. I critici letterari o i critici musicali sbagliano, quando tentano di far convergere non solo due forme d’arte così diverse, ma anche due esperienze estetiche così diverse. Aggiungerei infatti a quello musicale, anche un altro tratto distintivo che separa la poesia dalla canzone. È quello che vorrei chiamare l’aspetto “drammatico” della musica rock e pop. Intanto banalmente la poesia moderna si legge (in silenzio o ad alta voce), mentre la canzone si ascolta: è fisicamente la voce di un altro che si ascolta, anche se è registrata. Se qualcun altro legge una poesia di Montale, resta una poesia di Montale; se qualcun altro canta De André, non è la stessa cosa (è una cover). Certo, esistono performance di poesia e spesso sono eventi straordinari. Chiunque abbia assistito a un concerto live, sa però che assistere a una performance di poesia è un’esperienza molto diversa da partecipare allo spettacolo sonoro, visivo e coreografico di un concerto rock o pop. Oltre alla musica e alla danza, la differenza la fa il significato che attribuiamo alla voce e al corpo del performer, alla sua presenza fisica ed emotiva:

    http://www.youtube.com/watch?v=Gi3cOw5iJ10

    http://www.youtube.com/watch?v=9Q7Vr3yQYWQ

    Paragonata alla canzone pop e rock, la poesia resta un’arte della parola; un’arte mentale, pensata a praticata per la lettura solitaria in silenzio: anche quando la si recita ad alta voce in una performance pubblica, gli ascoltatori sono attenti ai suoni e ai significati delle parole, anche se incarnati nella presenza del performer, che interpreta un testo comunque pensato per la lettura. So di semplificare le cose e so che ci sono molti casi intermedi; ma resto convinto che oltre alla differenza musicale, anche quella drammatica resti decisiva.

    Mi rimane però un dubbio. Ho l’impressione che chi sostiene che la musica pop e rock siano “poesia”, non intenda equipararle su un piano tecnico, ma su quello estetico e sociale: e il punto è che i confini fra questi due piani sono attraversabili e in più sono ridisegnati continuamente (per riprendere uno spunto dal commento di Guido Mazzoni). E non è sul piano tecnico, ma sulla permeabilità e instabilità dei confini fra sociale ed estetico che i cultural studies giocano la loro partita. Leggo da un recente “Call for Papers” intitolato appunto “Italian Pop Music as Poetry” (Indiana University Bloomington – March 31, 2012):

    “The twentieth century and the advent of modern mass media have had a profound impact on the way poetry is published and received. A particularly notable example of this change is the musical text. In the 1970s, for example, singer-songwriters like Fabrizio De André, Lucio Dalla or Lucio Battisti changed not only the way Italians saw music, but also the way they saw poetry. Today, such singers have had a lasting impact on Italian music and popular culture. Some, like De André, have even been anthologized alongside more traditional twentieth-century poets. Pop music and lyrics reach a wider audience than perhaps any other poetic texts, and deserve serious scholarly attention not only for their aesthetic value, but also for their cultural influence. We welcome papers that address Italian pop music seen as poetry, or that address the relationship between music and lyrics, or its relationship with literature, cinema or visual arts or its use in language pedagogy.”

    Per riprendere una riflessione di Claudio Giunta, affidata prima a un libro poi a un post pubblicato su questo blog, la questione rilevante mi sembra quella pedagogica e istituzionale. La si può esprimere con alcune domande. La prima: all’università bisogna iniziare a insegnare e fare ricerca sulla canzone contemporanea, nel modo in cui si insegna e si studia la poesia, cioè non dal punto di vista sociologico o culturale (come accade in Italia nei dipartimenti di scienze della comunicazione, per intenderci), ma assumendo un punto di vista estetico e storico e con un intento pedagogico? Seconda domanda: la canzone deve entrare nei programmi scolastici della scuola secondaria? Terza domanda, la più importante: qualunque sia la risposta data alle prime due domande, quali sono le motivazioni? Ovvero che cosa distingue l’esperienza della lettura del testo letterario da quella dell’ascolto di una canzone?

    Nessuna distinzione tecnica fra poesia e canzone può metterci al riparo da queste domande e il rapporto fra valore sociologico (o storico) e valore estetico è instabile. Credo che continuare ad evitare queste domande sia diventano sempre più difficile. È per questo che un articolo come questo di Cortellessa è importante: perché pone una questione decisiva.

  13. @ Alessio Baldini:
    mi sembra che il problema sia posto in modo chiarissimo, ed era ciò che intendevo con frettolosità e approssimazione nel mio intervento quando parlavo di tre piani che convergono (testuale, musicale, drammatico). Aggiungerei solo un’osservazione: in Italia, patria del melodramma, la cultura musicale nelle scuole primarie e secondarie è stata rimossa. Non so spiegarmi il perché, ma il nostro è il paese in cui la musica, tutt’al più – a partire dalla musica classica – è una disciplina che si coltiva in solitudine, di cui non si ritiene necessario insegnare né la grammatica né la storia. Anche da qui deriva, credo, l’attitudine tutta italiana di richiamarsi a un genere artistico considerato tradizionalmente superiore – la Poesia – e di limitarsi a competenze esclusivamente letterarie per valutare l’eccellenza o meno di una canzone.

  14. @ .d.p.

    Sono d’accordo con molte cose che lei scrive sui suoi commenti. In particolare sulla situazione disastrosa dell’educazione musicale in Italia.

    Vorrei solo precisare due punti. Penso che il valore sociale di un’opera o di una forma d’arte non ne determini meccanicamente il valore estetico. Credo piuttosto che i confini siano mobili e non impermeabili.

    Il secondo punto è questo. Nel commento ho cercato di mantenere un atteggiamento neutrale: descrivere quelli che mi sembravano alcuni tratti del fenomeno di cui si discute, senza esprimere una mia personale opinione. Mi è chiara solo una cosa: che dal secondo dopoguerra è in corso un cambiamento culturale profondo (che non è né rettilineo, né omogeneo) e vorrei cercare di capire cosa sta succedendo alla nostra forma di vita. Non cercavo di prendere parte pro o contro qualcosa; non perché questo non sia importante (anzi credo sia inevitabile; comunque sia, in qualche modo si decide di queste cose), ma perché non era nelle mie intenzioni.

  15. Articolo puntuale e realista, anche se molti dei testi musicali attuali non brillano per lo stile, né per la cura nella scelta delle parole; la tendenza è quella di comprimere il vocabolario e non emerge la devozione alla parola.
    Grande sito!
    Andrea

  16. Dire che la poesia “ha perduto ogni legittimazione collettiva ” (cito dall’articolo di Cortellessa), o parlare del suo “declino sociale” (Mazzoni stesso nel primo commento qui in alto) pone, a mio parere, degli interrogativi. “Perdita” e “declino” già insospettiscono, ma “collettiva” e “sociale” chiedono almeno una riflessione. In generale Mazzoni convince ed è difficile smontare la sua tesi. Mi pare che nemmeno Cortellessa ci riesca. I cantautori (si parla qui di De André) sono per tanti gli autentici poeti dei nostri tempi, perché soddisfano meglio l’esigenza di poesia della gente. È veramente arduo stabilire cosa sia l’esigenza di poesia, il dato certo è che il “consenso popolare” è dalla parte di quelli che i versi li scrivono e li cantano: non c’è dubbio. Cortellessa, ragionevolmente, afferma: “Peggio: non vuole farsi capire, è autoreferenziale, è «per specialisti». Altri tempi quelli di Dante, di Leopardi, o anche di Montale. (Come se le tirature dei loro libri, allora, fossero di milioni di copie.)”. Ergo: la poesia è sempre stata per specialisti, è la Storia. Il problema, tuttavia, è forse un altro: gli editori di Dante, di Leopardi e addirittura di Montale non avrebbero mai sfornato milioni di copie, neanche volendo, perché sicuramente non avrebbero potuto venderle ai milioni di analfabeti di cui è stata composta la società italiana nel tempo. Molto probabilmente non molti italiani del 1951 (censimento Istat) avranno avuto le competenze linguistiche necessarie per leggere la Bufera, dato che l’80% della popolazione possedeva a stento la quinta elementare ed era ancora in discreta parte solo dialettofona. Tornando al dubbio iniziale: cosa poteva significare, all’epoca, “collettivo”? e cosa significa oggi? Sicuramente molte cose sono cambiate: la scuola di massa ha centrato diversi obiettivi, coadiuvata dalla radio e dalla televisione. Non mettendo ulteriore carne a cuocere, e quindi prescindendo da cosa si sarebbe potuto ottenere con una scuola (e dei mass-media) di qualità (quanto sarebbe affascinante la questione…), è chiaro che un liceale di oggi, un laureato in Architettura, in Medicina o addirittura in Lettere, se sente un’esigenza di poesia, va da De André e non da Valerio Magrelli o da Gabriele Frasca (due per antonomasia). Nessuno, d’altronde, ha voglia di negare la grandezza dell’autore di Bocca di rosa e del Testamento di Tito, neanche un critico raffinato come Cortellessa, il quale, però, sente l’esigenza di definirlo cantautore, adducendo coerenti motivazioni tecniche, mentre l’opinione pubblica vorrebbe (e lo fa tranquillamente) innalzarlo al rango di poeta. Per Cortellessa, che può ben rappresentare (suo malgrado o meno) una certa enclave culturale, i poeti restano Magrelli e Frasca. Mi viene da pensare a certe questioni poste da Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Immersi in una “collettività” linguisticamente e culturalmente ben più matura ed allargata rispetto ai tempi di Montale e di Leopardi, i poeti-poeti per chi scrivono? è sbagliato dire che spesso compongono versi per una “clientela di specialisti” (di cui già parlò proprio Montale)? Il problema è sicuramente sociale, riguarda le società di massa, che hanno anche altro da fare e non possono oggettivamente ambire a possedere una cultura letteraria tale che gli permetta di leggere Magrelli e Frasca (casomai fosse quello il prerequisito necessario), ma al contempo sentono un bisogno di poesia: niente di più comodo che affidarsi (perché di questo si tratta) ad una grande canzone d’autore, ben scritta, ben cantata, ricca di poesia. Forse se qualche poeta si ispirasse veramente a Dante (che osò equiparare al latino il volgare…) o a Leopardi, che ha scritto l’Infinito, uno dei testi più comunicativi (proprio perché “letterale”: una sola metafora) della nostra tradizione, le cose potrebbero anche andare diversamente. La Pivano afferma che “De André è il più grande poeta del ‘900”? Scartando la possibilità che non sappia riconoscere la differenza tecnica tra poesia e canzone, vuol dire che, come fanno in tanti, ha equiparato i generi (e poi ha scelto il suo autore preferito). Come se poesia scritta e poesia cantata fossero due possibilità della grande madre Poesia. O come, per spingersi ancora oltre, se la grande madre fosse proprio la poesia cantata, e fosse tornata com’era ai tempi dei Greci. De André, in fondo, non è un poeta soltanto per quell’enclave di cui sopra: per tutti gli altri sì. Credo che per molti (me compreso) la questione possa essere affrontata in altro modo, avvertendo i limiti delle definizioni categoriche e, non avendo nessuna simpatia per le classifiche, sentendo il bisogno sia di De André che di Montale . Penso che definire De André cantautore resti comunque comodo (è come definire trovatore Arnaut Daniel), ma non mi scandalizzo se lo sento chiamare poeta. L’operazione di Cortellessa ha senso da un punto di vista specialistico, accademico. Al di fuori delle università perde tutta la sua forza. Il limite, a mio parere, sta nel difendere i poeti con la Poesia, come se Cortellessa sapesse che da soli, tolta la prestigiosa protezione del genere, molti degli attuali non ce la farebbero a reggere il confronto. Casomai il confronto dovesse per forza esserci, pur non musicata e non cantata, non credo che Città vecchia di Saba possa temere il paragone con La città vecchia di De André (cantata e arrangiata da chi vi pare). De André stesso, da par suo, disse una volta che la qualità di un’opera non può dipendere dal genere, ma dall’altezza dell’autore . La questione dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica resta – a mio parere – capitale: possiamo riascoltare De André quando vogliamo: in auto, a casa, mentre facciamo jogging, e così facendo i versi si imprimono quasi automaticamente nella memoria, soprattutto se ci piacciono. Per la poesia scritta, invece, pare che la tecnologia non sia riuscita a fare granché. Anche gli audiolibri, le letture in radio o in Rete, non possono avere, per ovvi motivi, lo stesso quotidiano impatto che hanno le canzoni. C’è tra i commenti chi lo dice chiaramente (Rino Genovese): nel bene o nel male, la canzone è nell’aria, è difficile sottrarsi.

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