di Franco Buffoni
[Oggi si tiene, all’Italian Academy presso la Columbia University di New York, un convegno dedicato all’opera di Emanuel Carnevali (1897-1942), il primo scrittore italiano ad aver avuto un impatto significativo sulla poesia americana moderna. Nato a Firenze nel 1897, emigrato negli Stati Uniti nel 1914 prima a New York e poi a Chicago, Carnevali collaborò con la «Little Review» (nel numero 11 un suo racconto figura fra il XIII capitolo dell’Ulisse e le poesie di Sherwood Anderson), fu vicedirettore di «Poetry» e amico di Harriet Monroe, William Carlos Williams ed Ezra Pound. Questo è il testo della mia relazione].
1. Quest’anno è apparsa per i tipi della Fordham University Press (New York 2014) una imponente (1532 pagine) antologia con testo a fronte intitolata Poets of the Italian Diaspora, a cura di Luigi Bonaffini e Joseph Perricone. L’antologia include oltre settanta poeti italiani residenti in paesi stranieri: europei, australiani e delle due Americhe. Emanuel Carnevali è completamente assente. Perché nato nell’Ottocento e non più vivente, si potrebbe replicare. Niente affatto: l’antologia, nella sezione dedicata ai poeti “argentini”, per esempio, si apre niente meno che con Dino Campana, nato nel 1885.
Perché scrisse inglese, si potrebbe ancora replicare; e questa è una antologia di poeti italiani che – pur acquisendo in molti casi la nazionalità del paese di residenza – hanno continuato a scrivere nella lingua madre. Se questa è la ragione dell’assenza, già possiamo porre in luce il primo dato saliente relativo a Emanuel Carnevali: egli scrisse per lo più in inglese e continuò a scrivere in inglese anche dopo essere rientrato in Italia nel ventennio purgatoriale 1922-42. Ma considerare Emanuel Carnevali indegno di (o privo dei requisiti per) apparire in una corposa antologia di “Poeti italiani della diaspora” continua a sembrarmi un’enorme ingiustizia.
Che sia anomala la figura di Carnevali mi sembra fuori discussione. Ma che nella sua introduzione di dieci pagine per la sezione dedicata agli Stati Uniti (ogni paese “ospite” presenta un prefatore ad hoc), Peter Carravetta trovi il modo di non menzionare mai Emanuel Carnevali, mi sembra un dato di fatto increscioso e piuttosto persecutorio. E che nelle oltre 1500 pagine di un volume con un tale titolo, per di più concepito e pubblicato negli Stati Uniti, il nome di Carnevali non appaia mai, neanche in una nota, la dice lunga sulla capacità degli italiani (o degli italo-americani, in questo caso) di onorare i loro geni.
2. Va tuttavia sottolineata la straordinaria crescita di interesse nei confronti di Carnevali da parte del pubblico italiano nell’ultimo trentennio, dopo la pubblicazione presso Adelphi nel 1978 de Il primo dio, un volume comprendente il romanzo postumo dal titolo omonimo, un folto gruppo di poesie scelte, nonché alcuni racconti e scritti critici, per le cure della sorellastra Maria Pia Carnevali.
Interesse italiano per un poeta italiano tradotto dall’inglese. Un interesse forse più per il personaggio Carnevali – visto come una sorta di Campana o di Rimbaud – più che per l’opera in senso stretto. Con però quel dettaglio – che scrive in inglese – a renderlo ancora più curioso, esotico.
Oggi è molto facile che di Carnevali si impossessi la sottocultura. Molti giovani italiani lo hanno sentito nominare grazie a un autore rock, Mimì Clementi, che nei primi anni novanta lavorava come cameriere in un ristorante bolognese. Una sera un cliente gli porse un libro dicendogli: “Qui si racconta di uno come te”. Era Il primo dio. Clementi, suggestionato, scrisse le parole di una canzone intitolata Primo dio. Il pezzo entrò a far parte dell’album più venduto del gruppo rock Massimo Volume, Lungo i bordi (1995) e diventò uno dei brani più ascoltati dell’underground italiano. Un altro testo di Clementi intitolato Almost a God è stato musicato dal gruppo Movie Star Junkies. Clementi poi cercò di manifestarsi anche come scrittore, con L’ultimo dio (2004). E’ facile, dicevo, che di Carnevali si impossessi la sottocultura. Il gruppo rock Acustimantico nel 2004 incide il brano Em (Emanuel Carnevali va in America). Ma – mi domando – a Carnevali sarebbe dispiaciuto? “Volevo maledire i miei occhi encefalitici, ma non maledissi nulla, perché la mattina era bella e c’era pace nel mio cuore.” (da Castelli sulla terra – Le montagne).
3. Per contro, da parte statunitense, l’interesse dimostrato nei confronti di Carnevali negli anni vivi della sua presenza negli Stati Uniti da parte dei poeti e dei critici a lui contemporanei – da William Carlos Williams a Ezra Pound, da Sherwood Anderson a Robert McAlmond, da Carl Sandburg a Waldo Frank – è ormai storicizzato, e non mi pare che negli ultimi decenni abbia prodotto un altrettanto rinnovato interesse critico americano per la sua scrittura e la sua figura di poeta.
Sostanzialmente, ci troviamo di fronte a un autore italiano di lingua inglese, che ebbe riscontri straordinari in vita dall’élite letteraria americana, e in pratica oggi negli Stati Uniti è marginalizzato; mentre in Italia viene rivalutato, soprattutto come personaggio, un secolo dopo la scrittura dei suoi testi più importanti, grazie alle traduzioni.
Se a tutto questo si aggiunge che il suo stile di scrittura, confrontato con gli autori italiani a lui contemporanei, risulta assolutamente peculiare e degno per noi della massima attenzione critica; e che forse Carnevali acquista maggiore fascino se letto in traduzione italiana rispetto all’originale inglese, ci si rende conto di avere a che fare con un vero e proprio unicum nella storia della letteratura.
4. Certamente la modernità di Carnevali consiste nello stile, nello sguardo attonito, nel trattamento sbalordito di odori rumori sapori colori, e soprattutto nella necessità di scaricare in poesia il suo bisogno di “bontà”: una consistenza da brivido strettamente connessa alla sua straordinaria biografia. Qualcosa di assolutamente novecentesco che pare avere idealmente assimilato The Lecture of Modern Poetry di Hulme e, in certi esiti, addirittura superato il Pound di Ripostes. Mentre il Carnevali poeta tornato italiano è più gozzaniano, forse più corazziniano (“L’Italia riceve benigna / questo rottame – il mio corpo malato, / e questa fioca luce di candela – la mia anima”, da The Return), certamente meno originale.
Il fatto che nel giro di pochi anni Carnevali riesca a imparare l’inglese da autodidatta in modo sintetico e scattante (emblematica la leggenda delle insegne pubblicitarie newyorkesi) e a diventare poeta e scrittore in quella lingua inglese che egli definisce “a dizzy dance and a mad jazz”, ci induce a pensare a Conrad, e per portarci ai nostri tempi a Charles Simic. Ma ancor più stupefacente mi pare la ricezione del suo irsuto stile poetico da parte dei poeti e dei critici americani a lui contemporanei. Questo è il vero miracolo di Carnevali. E dell’America nei suoi confronti.
5. Figlio in Italia di genitori “separati” nel primo decennio del Novecento (e questo è già molto “americano”), non sottovaluterei l’importanza che nella formazione di Carnevali – dopo la traumatica espulsione per omosessualità dal collegio “Marco Foscarini” di Venezia nel 1913 (dove era stato ammesso cum laude e borsa di studio) – ebbe lo scrittore Adolfo Albertazzi (1865-1924), suo insegnate all’Istituto Tecnico “Pier Crescenzi” di Bologna.
Adolfo Albertazzi, allievo e biografo di Carducci e uomo di punta dell’intellighenzia bolognese tra i due secoli, definito da Papini “uno dei pochi prodigi della vivente letteratura italiana”, come narratore potrebbe essere considerato un verista alla Maupassant; ma fu abile anche nella fusione dell’ironia con il lirismo. Tali doti erano tutte presenti nell’insegnante Albertazzi, capace di screziare con note di poesia il suo sguardo lucido e spietato sul reale. E tali doti furono rapidamente assorbite dall’intelligentissimo allievo, e ulteriormente potenziate dalla sua incandescente sfrontatezza. Che in primis – istintivamente – scremò dall’insegnamento del maestro le scorie retoriche del carduccianesmo, valorizzandone però la portata “socialista” e il “libero pensiero”.
Eravamo nell’Italia laica dei Mosca e dei Pareto, alias nell’unico periodo di laicità che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia, e a cui la I Guerra Mondiale e il conseguente fascismo posero drastica fine. Tra maestro e allievo si instaurò un legame fondamentale e burrascoso, con Albertazzi che aveva ben intuito le immense potenzialità di Manolo, e Manolo che respingeva programmaticamente qualunque tentativo del maestro di disciplinarne la asistematicità come metodo di apprendimento.
6. Il risultato fu che il diciassettenne che nel 1914 (l’anno in cui nascono Mario Luzi e Dylan Thomas) parte da Genova per l’America non sia affatto uno sprovveduto, né letterariamente né umanamente: Isolda è “un poema di grazia e bellezza. […] Aprì il mio cuore e con le sue belle mani vi gettò dentro una manciata d’amore”, si legge nel Primo dio; e ancora: “Il compagno Giovanni è un amore vero, fervido, appassionato, stupendo […]. Quando lo tenevo per mano ero felice”. Una frase, quest’ultima che mi ha riportato alla mente un passo dei Diari di Tolstoj: “Per me il segno principale dell’amore è la paura di offendere o di non piacere all’oggetto amato, semplicemente la paura. Sentivo una vampa di calore quando lui entrava nella stanza. Sebbene inconsciamente, io di null’altro mi preoccupavo che di piacergli. Non sono mai stato innamorato di donne. Ho sempre amato uomini che erano freddi verso di me o al massimo mi apprezzavano. Non dimenticherò mai, ad esempio, le notti quando io e Djakov uscivamo da Pirogovo e avevo voglia di abbracciarlo e di piangere”.
Manolo era affascinante e sensuale. Aveva anche immense potenzialità letterarie, in parte persino già dimostrate. Il fatto miracoloso è che nel giro di qualche anno seppe trapiantarle in un’altra lingua e a farsi rispettare per il suo stile e per il suo genio in un’altra cultura.
Come gli riuscì miracolo? Grazie alla sua formazione, alla sua intelligenza per le lettere e al suo coraggio, certamente. Ma anche grazie al momento particolare in cui “l’altra cultura” venne a trovarsi nel 1914 e negli anni immediatamente successivi.
Come scriverà poi proprio Luzi in Vicissitudine e forma, poesia avviene per sintesi tra due ordini di percezione o “universi di discorso”, quando si trovano a coincidere da un lato “uno stato emotivo e una capacità artistica” e dall’altro un particolare momento (“quello e non un altro”) dell’essere universale. Definiti lo stato emotivo e la capacità artistica in cui si trovava Emanuel Carnevali nel 1914, ricordiamo che la prima antologia Des Imagistes curata da Pound uscì proprio nel 1914, e che le tre antologie successive – Some Imagist Poets – curate da Amy Lowell e J. G. Fletcher apparvero nei tre anni successivi; e che l’asse New York-Chicago su cui si mosse Carnevali era proprio quello giusto (fatte le debite proporzioni, era come trovarsi sull’asse Firenze-Pistoia in epoca ermetica). E che le aspre (per usare un eufemismo) critiche riservate da Pound alla Lowell quando uscirono le antologie “successive” non fecero che condire quella situazione di ulteriore interesse polemico.
Pur vivendo ai margini della società, il lavapiatti-garzone di drogheria-cameriere-pulitore di pavimenti Emanuel Carnevali (che però ha studiato latino e francese e ha ben incamerato le forme metriche della tradizione italiana) impara soffrendo l’inglese e se ne innamora: funziona così bene quella lingua bastarda nella poesia che lui ha in mente. E Manolo comincia a scriverne sempre di più. Tanto i soldi per comprare buste e francobolli se li procura spalando la neve. Così quei versi – recapitati sui tavoli delle redazioni di tutte le riviste letterarie che Manolo trova in libreria (e qui ritorna il luziano “particolare momento dell’essere universale”, che permette a una rivista di poesia di raggiungere i banchi delle librerie e magari di essere diretta da Ezra Pound) – vengono davvero letti. Ed egli entra in contatto e diventa amico di Max Eastman e Robert McAlmon. E frequenta William Carlos Williams (che poi lo menziona nella sua Autobiography del 1951) e Sherwood Anderson, che poi gli dedica il racconto Italian Poet in America (1941). (Sarà proprio Sherwood Anderson a raccontare quando e come Manolo perse il contatto con la realtà: era una notte di neve nel gelo di Chicago, Manolo lo va a trovare – dopo mesi che non si incontravano – con addosso solo la camicia, e gli chiede se vuole uscire a camminare con lui. Anderson rifiuta e Manolo se ne va da solo nella neve e nel gelo.)
7. Manolo traduce anche e collabora a “Others”, riuscendo però a fare chiudere i battenti alla rivista, dopo un’infuocata riunione di redazione in cui ha modo di esprimersi al meglio, accusando i “colleghi” di non essere altro che stantii topi di biblioteca. Ormai l’avanguardia americana ha imparato a conoscere – e si trova nel momento storico giusto per apprezzare e persino per sovrastimare – il nuovo stridente che lo stile selvaggio di Manolo le apporta. Ha anche trovato il modo di definirlo: “the black poet”, per via del suo carattere anarchico e ribelle. Lui, che prediligeva il bianco.
Abbandonata New York (per la precisione Manhattan East Side) e abbandonata Emilia Valenza (la ragazza di origini piemontesi che nel 1917 divenne Mrs Carnevali), tra i macelli congelanti di Chicago, Manolo conduce di nuovo vita grama. Dopo il periodo bianco (l’infanzia) e il periodo rosa (l’adolescenza), quando si aprì per lui il periodo nero (corrispondente agli otto anni americani) iniziò anche l’ossessione per il bianco. Fino a pretendere di lavarsi col latte. Fino a dichiarare che nessuno mai sarebbe stato in grado di farlo arrossire. Fino al famoso ceffone della moglie che rese scarlatto il suo viso.
Ma ci furono anche sprazzi di luce nella sua vita. Per esempio nel 1918: mentre i coetanei in Italia si fanno massacrare sul Carso, Emanuel Carnevali vince il premio riservato a un giovane poeta dalla rivista “Poetry”, con conseguente pubblicazione delle sue poesie nella prestigiosa sede e forte innamoramento per lui da parte della direttrice Harriet Monroe. Al punto che per qualche mese Harriet lo vuole accanto a sé a Chicago come associate editor del periodico. (Va ricordato che Harriet fece anche visita a Manolo malato in Italia, in occasione di un viaggio in Europa).
Quello stesso anno Carnevali viene anche assunto come segretario da Joel Elias Spingarn (1875-1939), accademico e critico letterario, amante della cultura italiana e amico di Benedetto Croce. Spingarn è abbonato alle riviste italiane “La Voce” e a “La Critica”. In poche settimane Manolo divora quelle riviste e decide di entrare in contatto epistolare (ha ventuno anni, non dimentichiamolo) con Palazzeschi e Prezzolini, Slataper e Soffici, Papini (e qui riemerge l’influenza di Albertazzi). Su sollecitazione di Spingarn comincia anche a tradurre Croce in inglese. Ma non dura. Manolo, che non aveva sopportato né le briglie del padre funzionario di prefettura né quelle del professor Albertazzi, non era certo venuto in America per farsi imbrigliare da un ricco professore e da un’effervescente poetessa: troppo soffocamento, troppe conversazioni inconcludenti su comode poltrone, troppi tea&cake. Troppo, per dirla con le parole del suo primo titolo, Splendid Commonplace. (Comunque le lettere agli intellettuali italiani in quei mesi le scrisse davvero e continuerà a scriverne anche dopo il rientro in Italia, tanto che – sotto l’azzeccato titolo Voglio disturbare l’America – sono state in parte pubblicate da Gabriel Cacho Millet nel 1980).
Le sue altre frequentazioni restano quelle di sempre – ragazzi di strada e prostitute – anche se è ormai entrato nel giro letterario giusto e le efferate sintesi in lingua inglese dei suoi torpori e dei suoi sgomenti affascinano i poeti provvisti di pedigree al punto da farlo partecipare a pieno titolo al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana.
8. Tra i corrispondenti italiani, Carnevali chiude il cerchio con Carlo Linati. Uso questa espressione perché Linati è – diremmo noi oggi – un anglista, anche se il termine allora non si usava, e il grande anglologo Mario Praz ancora non aveva vinto la cattedra di italiano a Manchester e quella di inglese a Roma-Sapienza. Carlo Linati, oggi misconosciuto quanto e forse più di Carnevali, fu un pioniere delle grandi traduzioni dall’inglese: per esempio seppe volgere magistralmente in italiano Stephen Hero, il romanzo giovanile incompiuto di Joyce, che poi sarebbe sfociato nel Portrait of the Artist as a Young Man. E fu proprio Carlo Linati il primo critico a tutto tondo di Emanuel Carnevali. Nel 1934 appare infatti a sua firma su “Nuova Antologia” un acuto saggio sul poeta “americano”, accompagnato da alcune accurate traduzioni in italiano delle poesie. “Poche cose m’incuriosiscono e mi piacciono di più nell’arte del Carnevali” – afferma Linati – “quanto questo sentir battere nell’onda della sua prosa inglese il polso della nostra razza, il ritmo inconfondibile del nostro sentimento”. Prescindendo dal lessico d’epoca cui Linati ricorre, crediamo che la sua intuizione critica sia davvero geniale, in particolare laddove definisce una “trapiantazione spirituale” quella messa in atto da Carnevali.
9. Nel 1925 appare a Parigi il primo libro di Carnevali, A Hurried Man: l’unico che Manolo riuscì a vedere in vita (fatto salvo uno stralcio del Primo dio nel 1932). L’ambiente era quello degli americani a Parigi, e il curatore Robert McAlmon – che insieme a quella di Carnevali curò l’uscita “francese” di Hemingway – volle che A Hurried Man fosse una sorta di zibaldone, comprensivo di recensioni e saggi, oltre che di racconti e poesie. Una summa, dunque, della scrittura di Carnevali, dovuta all’ammirazione e alla stima degli uomini dell’”altra” cultura, uscita quando ormai si sapeva che la sua salute – a ventotto anni – era definitivamente compromessa. A quasi un secolo di distanza possiamo affermare che A Hurried Man fa il paio, quanto al suo essere summa, con Il primo dio uscito in Italia nel 1978.
Se consideriamo astrattamente i dati (Robert McAlmon e la presentazione con Hemingway per la prima uscita in inglese a Parigi; Adelphi per la prima uscita italiana) non possiamo negare che di meglio nessuno scrittore potrebbe desiderare per il proprio esordio. Purtroppo in mezzo ci sono cinquant’anni di oblio, con la Seconda guerra mondiale a fare da perno, e Carnevali che muore mentre i soldati italiani si congelano in Russia e Pound viene chiuso in gabbia a Pisa. Carnevali l’anarchico che, scempiato dalla sifilide e dall’encefalite letargica, dopo gli otto anni americani, per ironia del destino, riesce a fare coincidere il suo ritorno in Italia con l’avvento del fascismo: “O Italy, O great boot, / don’t kick me out again!”. E il tanto vilipeso padre, uomo d’ordine, emblematicamente lo attende al porto di Genova. Ma Carnevali riuscirà anche a fare quasi coincidere la sua beffarda morte (il famigerato pezzo di pane) con la caduta del fascismo.
10. E’ in una lettera a Harriet Monroe che Carnevali sostiene “I want to become an American Poet”: “Non mi piace Carducci, ancor meno D’Annunzio. Degli autori americani ho letto piuttosto bene Poe, Whitman, Twain, Harte, London, Oppenheim e Waldo Frank. Credo nel verso libero. Mi sforzo di non essere un imitatore”. Difatti, più che altro, sarà imitato. Nessuno, per esempio, mi toglierà mai dalla testa il dubbio che Dylan Thomas lo conoscesse: “Il sole che fra le due tende abbassate/ entra nella mia stanza con l’allegra furia/ di un pugnale vittorioso brandito da un avventuroso fanciullo…” (Drôlatique-sérieux).
In realtà non è arduo riscontrare nella poesia di Carnevali l’origine italiana di molte espressioni inesistenti in inglese: parole ed espressioni italiane che in inglese finiscono con l’apparire come “stressate”, spinte troppo su o troppo giù nell’ideale pentagramma della lingua (non solo poetica). Ma che, proprio per questo motivo, colpivano profondamente imagisti e modernisti vólti in primis al rinnovamento del dettato poetico tradizionale. Trasformando questa caratteristica “sfasatura” della scrittura carnevaliana in uno dei punti di forza della sua poesia. Ce ne rendiamo conto forse maggiormente noi oggi, in particolare quando ritraduciamo quei versi in italiano. Il risultato finale è che sembrano poesie scritte originariamente in italiano, ma come provenienti da un altro pianeta: “Vengo dall’America, la terra che raccoglie /i ribelli, gli infelici, i miserabili; /la terra delle imprese puerili e magnifiche: /gli ingenui grattacieli – candele votive /sulla punta della supina Manhattan. / Ricordo Manhattan Island coronata di moli. /Vengo dall’America, dove tutto /è più alto, ma meno maestoso; /dove non c’è vino”.
Con il suo solito gusto tranchant, in una rara intervista concessa molti anni dopo in Italia, Carnevali dichiara: “In italiano non so scrivere. La lingua è una creatura, sangue nervi muscoli: bisogna conoscerla”. E ancora: “L’inglese ha assunto per me l’aspetto di un dialetto italiano”.
11. Il Carnevali-pensiero allo stato puro, disgiunto dallo stile disperato e disperatamente novecentesco, appartiene invece a un uomo dell’Ottocento, che parla a se stesso e ai suoi ipotetici lettori di coscienze e aggregazioni sociali che non hanno dubbi sull’esistenza di dio. Mentre egli di dubbi ne aveva: a New York parlava di teologia con la figlia di un pastore presbiteriano, le diceva che amava Cristo, ma che “Cristo è la negazione di qualsiasi setta cristiana, di tutte le religioni cristiane. Cristo avrebbe potuto farsi chiamare dio, ma aveva preferito esser chiamato uomo, sapendo per istinto che la parola ‘uomo’ è più estesa e più grande della parola ‘dio’”. E nel Primo dio leggiamo: “Cristo non ha mai cessato di essere immenso, per me, e penso che il Vangelo sia il libro più bello che sia mai stato scritto; tutto l’armamentario della divinità non ha fatto altro che danneggiare quell’uomo splendente che fu Cristo. La religione ha sempre torto, Cristo ha sempre ragione”.
In un altro passaggio del Primo dio, Carnevali è ancora più esplicito: “Non ho mai creduto in Dio, nemmeno da bambino, e quando pronuncio la parola “Dio”, si tratta solamente di un simbolo sentimentale. In un modo o nell’altro Dio non ha trovato posto nel mio spirito”. Come scrive a Carlo Linati nel 1934: “Soffro molto e siccome non credo in Dio mi manca anche il conforto che non lo nego – la religione mi potrebbe forse dare… Siamo esseri troppo piccini per avere una religione – uno sguardo al cielo ci fa pensare che siamo cenere e peggio”. D’altro canto, lo si sa, come il fisico si indebolisce, ritornano ingigantiti i fantasmi dell’infanzia, e se tra questi fantasmi ci sono mitologie “divine”, queste mitologie insistentemente riappaiono negli incubi e nelle farneticazioni. E dunque anche in poesia.
[Immagine: Chicago negli anni Venti].
Che piacere! Ho il volume Adelphi (seconda edizione 1994) “Il primo dio” di Emanuel Carnevali, in casa mia molto amato, e ora questo bellissimo pezzo di Franco Buffoni, questo ricordo, sono emozionata, grazie!
Emanuel Carnevali, ovvero uno di quei rari casi in cui la musica (Massimo Volume, Emidio Clementi) ne poté più di qualsiasi altra operazione per la “riscoperta” di un autore (con la differenza che le riscoperte della musica sono forse più autentiche e disinteressate di quelle della critica). Credo che questa relazione qui pubblicata diventerà molto utile, un bel punto di partenza per chi si occuperà di Carnevali in futuro.
Grazie, caro Franco, per questa tua splendida relazione su Emanuel Carnevali… i pochi suoi versi da te qui riportati sono già sufficienti ad accendere l’animo… e “sentire” l’inglese come un dialetto italico dà la misura del genio!
Grazie per questi interventi. Se qualcuno desidera ascoltare la relazione in inglese: http://www.francobuffoni.com/video_buffoni_s_speech_on_carnevali.aspx
Forse a qualcuno interesserà sapere che le EDIZIONI “VIA DEL VENTO” di Pistoia hanno pubblicato, di Emanuel Carnevali, i volumetti:
“Il bianco inizio” (prose), trad. e cura di Francesco Cappellini, 2010
“Corteo di personaggi a Villa Rubazziana (prosa inedita in Italia), trad. e cura di Francesco Cappellini, 2012
“Ai poeti e altre poesie”, cura e trad. di Elio Grasso, 2012
scoperto anni addietro grazie a un pezzo di Massimo Volume, dietro il pezzo e la citazione di lui perso nelle cucine americane ho trovato un Poeta Enorme