di Camilla Emmenegger, Francesco Gallino, Daniele Gorgone
[Questo saggio fa parte del volume C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi (Mimesis) a cura di Enrico Donaggio. Ne abbiamo parlato qui].
Una definizione minima
La categoria di servitù volontaria nasce dallo stupore del giovanissimo Étienne de la Boétie (1530-1563) verso la situazione del popolo francese, sottoposto a una tirannia durissima e spietata. Di fronte a questo spettacolo, nel suo Discorso della servitù volontaria, egli si pone la domanda più elementare: come può un uomo solo sottometterne milioni? La risposta schiude un orizzonte problematico osceno: non certo per forza propria, ma contando piuttosto sul sostegno attivo dei sudditi (affamati, derubati, stuprati, mandati a morire in guerra). Quel che a prima vista appare un rapporto di costrizione, si rovescia nel suo contrario: sono i sottomessi a istituire e mantenere in vita il dominio da cui pure vengono terribilmente danneggiati. Con la semplice interruzione degli atti che riproducono quel potere si vedrebbe il tiranno, “come un grande colosso cui sia stata tolta la base, […] precipitare sotto il suo peso e andare in frantumi”.[i] La facilità con cui i servi potrebbero liberarsi (“per avere la libertà basta desiderarla”)[ii] conduce La Boétie a una constatazione paradossale: se gli individui non sono liberi, significa che non vogliono esserlo. Sono loro a causare, volontariamente e attivamente, la propria sofferenza.
È possibile che […] la categoria cinquecentesca di servitù volontaria abbia oggi ancora qualcosa da dire? Aiutando forse – se correttamente applicata – la critica del capitalismo a illuminare alcuni punti altrimenti oscuri dell’attuale sistema economico-sociale? È questa un’ipotesi che, nell’ultimo decennio, ha suscitato interesse crescente, animando in particolare il dibattito francese sul nuovo sistema di produzione e organizzazione del lavoro; un dibattito che, tuttavia, ha rischiato talvolta di non cogliere la sostanza della tesi laboetiana, smarrendone l’acume diagnostico e il potenziale critico. La servitù volontaria non è infatti un fenomeno di cui andare a caccia, né una malattia da debellare. È invece un reagente capace di far emergere contraddizioni altrimenti invisibili; schiudendo forse – in modi inaspettati e tortuosi – nuove prospettive d’emancipazione.
Una definizione ‘pura’ della categoria richiede dunque anzitutto di specificarne i minimi caratteri fondamentali. Il concetto deve mantenere la sua strutturale paradossalità e, nel contempo, sciogliersi dal contesto storico-politico in cui ha preso forma, per diventare un proficuo strumento di analisi del mondo sociale contemporaneo. Sotto questo rispetto, i caratteri che lo connotano in modo proprio sono:
– subalternità: la servitù presuppone la condizione di sottomissione a un potere;
– consapevolezza: la servitù è il risultato di una scelta degli asserviti; non può quindi essere ridotta a un inganno da parte del potere o a un errore di calcolo dei sottomessi;[iii]
– svantaggiosità: libertà e felicità sono inscindibilmente legate (non può esistere un servo felice, anche perché il potere, in quanto arbitrario, è sempre potenzialmente dannoso), e dunque il motivo dell’asservimento non può consistere nei benefici derivanti da esso; per contro, uscire dalla servitù significa smettere di infliggere dolore a se stessi;
– facile astenibilità: se sono i servi stessi a ridursi e mantenersi in schiavitù, per liberarsi è sufficiente smettere di compiere quei gesti che producono e perpetuano l’assoggettamento.
Il dibattito francese su new management e flux tendu
Un tentativo di riattualizzare la categoria di servitù volontaria sta caratterizzando da un decennio a questa parte il dibattito francese in materia di organizzazione del lavoro. Gli autori che animano la discussione – che attraversa la sociologia del lavoro (Jean-Pierre Durand), la filosofia (Michela Marzano, Eric Hamraoui), l’economia (Frédéric Lordon) e la psicodinamica o psicopatologia del lavoro (Cristophe Dejours, Roland Gori) – pongono al centro dei loro interventi il nuovo sistema produttivo capitalistico. A differenza del precedente (fordista-taylorista), questo avrebbe come obiettivo e motore fondamentale del suo funzionamento il consenso e l’adesione attiva dei salariati. Proprio su questo punto molti autori riprendono il concetto di servitù volontaria.
[…]
Se [però] si raffronta l’utilizzo della categoria presente in questi studi con la definizione pura e minima proposta nelle pagine d’apertura, emerge una caratteristica specifica e poco compatibile con il nostro modello. Per tutti questi autori, infatti, il sostegno deriva sempre da una costrizione sistemica o da un armamentario ideologico in grado di ‘produrre l’adesione volontaria’. L’equivoco è particolarmente evidente nel caso di Marzano: parlare di ‘servitù volontaria per manipolazione’[iv] significa certamente evocare La Boétie. Ma per descrivere un fenomeno confinabile invece nel classico ambito degli arcana dominii: la servitù, ‘apparentemente volontaria’, è in realtà ‘estorta’ grazie a un miglioramento qualitativo dei dispositivi sistemici (mancano, volendo semplificare, due dei quattro caratteri sopra individuati: consapevolezza e facile astenibilità). Impiegata in questo modo la categoria perde di senso; inoltre, viene meno la possibilità di utilizzarla in vista di una proposta emancipativa: se i lavoratori sono costretti o indotti ad aderire, non possono liberarsi semplicemente volendolo.
Più che una nuova forma di servitù volontaria, questi autori identificano dunque un funzionale strumento attraverso cui il capitalismo ottiene maggiore efficienza e stabilità: i servi forgiano entusiasticamente le proprie catene, ma è il sistema che, in ultima analisi, li induce a farlo.
Una proposta di applicazione
La proposta, che si sta qui avanzando, di un utilizzo minimo della categoria di servitù volontaria per analizzare il capitalismo contemporaneo deve ora passare dalla critica alla parte propositiva. Occorre anzitutto rispondere a una possibile obiezione: così rigidamente ristretta entro criteri definiti – subalternità, consapevolezza, svantaggiosità, facile astenibilità – la categoria risulta ancora suscettibile di un’applicazione pratica? O non si è invece finito per costruire uno strumento analiticamente inappuntabile, ma empiricamente inservibile?
La domanda si lega a un problema di fondo. Il cuore del ragionamento laboetiano – senza il sostegno attivo e autolesionistico del popolo, il potere del tiranno cadrebbe istantaneamente – funziona, in questa forma radicale e quasi magica, solo se si prende in esame una società nel suo insieme. Non vale però se applicato ad ambiti più circoscritti: nella gran parte delle circostanze concrete, infatti, elementi di assoggettamento sistemico, di costrizione e oppressione sono presenti e gravano sensibilmente sui sottomessi.
Quale utilità può dunque avere, in simili situazioni, la categoria di servitù volontaria? A nostro avviso, quella di una sorta di ‘setaccio’: di strumento metodologico e critico per filtrare, separare e rimuovere nel comportamento degli attori sociali gli atti autolesionistici cui non sono esteriormente costretti e dalla cui cessazione trarrebbero soltanto benefici. Eliminata così la quota di servitù volontaria presente nei loro gesti, nel setaccio dovrebbe restare soltanto la pura oppressione sistemica di cui sono vittima: la quale risulterà, a seconda delle situazioni, più o meno immodificabile.
Un esempio di applicazione di questo metodo è offerto dal testo di Dejours L’ingranaggio siamo noi[v]. Tra gli spunti più interessanti, vi è infatti una descrizione del fenomeno dello ‘zelo’. L’organizzazione del lavoro non si fonda quasi mai sulla mera esecuzione di ordini e prescrizioni: se i lavoratori si limitassero a osservare scrupolosamente le direttive ricevute, la produzione collasserebbe all’istante. Ciò che mantiene in vita il sistema – fonte di estrema dolorosità per tutte le figure coinvolte – è invece la “mobilitazione delle intelligenze”[vi] degli stessi lavoratori; i quali, contravvenendo spontaneamente ai regolamenti, elaborano stratagemmi che consentono all’apparato di perpetuarsi. L’abolizione di un dispositivo aberrante, della cui dolorosità tutti sono consapevoli, non richiederebbe dunque un gesto di disobbedienza, forse troppo eclatante e oneroso. Per sabotare l’organizzazione che li danneggia basterebbe invece limitarsi a obbedire agli ordini ricevuti; cioè, in termini laboetiani, astenersi dal compiere azioni a cui non si è costretti e che risultano lesive per i soggetti che le intraprendono. Un simile gesto (lo ‘sciopero dello zelo’, una forma di sciopero bianco) non basterebbe a liberare quei salariati da tutti gli aspetti dolorosi o oppressivi della loro attività. Ma metterebbe in imbarazzo i reali beneficiari del loro lavoro: per mantenere in vita quella forma di organizzazione, al netto della quota di servitù volontaria che la sorregge, dovrebbero infatti ricorrere a un aumento della coercizione diretta; spostando così la lotta su un piano molto più palese e, per questa ragione, più difficile da gestire sulla lunga durata.
Cosa succederebbe se si applicasse il metodo del setaccio alla situazione lavorativa dei giovani laureati italiani? All’esperienza di chi ha trovato lavori ben pagati e adeguati al proprio percorso di studi, come a quella di chi vive tra disoccupazione, precariato e tirocini infiniti.
Per il primo aspetto prendiamo un caso esemplare. Quello di Lorenzo, 27 anni, un ingegnere nucleare che lavora in Veneto presso una multinazionale di consulenza finanziaria, dopo aver rifiutato varie offerte (tra cui un dottorato di prestigio in Germania). Il contratto prevede un orario di 8 ore; la giornata lavorativa, però, non è quasi mai inferiore alle 11 ore; nei periodi di chiusura dei progetti supera le 20, anche per più giorni consecutivi.[vii] Gli straordinari non vengono pagati, e lo stipendio – di per sé ottimo – se calcolato a tariffa oraria non oltrepassa in realtà i 10 €. I vertici a livello europeo della multinazionale sono (ufficialmente) contrari a questi ritmi: Lorenzo e i suoi colleghi hanno la possibilità reale (della quale tuttavia non usufruiscono mai) di appellarsi alla sezione risorse umane della sede centrale.
Come spinta motivazionale Lorenzo ha la prospettiva di una brillante carriera, oltre che ragioni etiche sorprendentemente valide;[viii] nel contempo, però, la dolorosità del ritmo di lavoro è palesemente percepita, raggiungendo nei picchi di attività (con sonno ridotto a meno di un’ora per notte) livelli di conclamata insopportabilità. Da un lato, dunque, Lorenzo ha ottime motivazioni (economiche e di riconoscimento) per accettare l’organizzazione del lavoro cui è sottoposto; sarebbe ingenuo domandarsi perché non esiga il rispetto delle 8 ore contrattuali. Nel contempo, però, lui e i suoi colleghi si trovano in una relativa posizione di forza verso l’azienda: molto competenti, con un contratto favorevole e altre offerte di lavoro ricevute. Setacciando questa situazione con il filtro della versione minima di servitù volontaria da noi proposta, ciò che scivola via sono proprio quei picchi di dolorosità chiaramente percepita: l’onere di una sospensione collettiva dei gesti che la producono (esigendo per esempio un numero minimo di ore di sonno) sembra davvero irrisorio.
L’altra faccia della medaglia è costituita da giovani neolaureati che svolgono stage, praticantati, tirocini o altre forme di lavoro gratuito o del tutto sottopagato. Una situazione inedita, almeno quantitativamente, soltanto pochi anni fa.[ix] Un esercito di almeno mezzo milione di persone ogni anno[x] che, talvolta con la speranza di una futura assunzione,[xi] accetta volontariamente condizioni non così dissimili dalla schiavitù. Gli ambiti professionali sono molteplici, e comprendono posizioni altamente specializzate (medici), pubbliche (Inps), e altre in cui il lavoro gratuito è proibito dal codice deontologico (avvocati), o in cui l’ipotesi di venire ripagati in termini di migliore apprendimento del mestiere è poco plausibile (colf, cassieri, commessi, spazzini). È innegabile che elementi socio-economici, politici, legislativi e psicologici incentivino i giovani precari ad accettare condizioni di lavoro grottesche. E tuttavia sembrerebbe davvero poco onerosa almeno la più banale forma di emancipazione: il rifiuto di lavorare gratis. Astenersi dall’impiegare le proprie energie al servizio di uno sfruttamento plateale, dal quale peraltro non si ricava nulla, sarebbe un mero sottrarsi all’autolesionismo; un gesto che, però, ridisegnerebbe almeno in parte il mercato del lavoro italiano.[xii]
Perché serviamo? Sottomissione, complicità, diniego
Una seconda domanda riguarda la plausibilità della servitù volontaria nella forma pura delineata nelle pagine precedenti. La si potrebbe formulare in questi termini: cosa può spingere una persona, o addirittura una collettività, a un atteggiamento tanto autolesionistico? Senza una risposta accettabile a un simile quesito, qualsiasi tentativo di applicazione pratica della categoria di servitù volontaria resta puramente velleitario.
Senza pretendere di scoprire o fornire spiegazioni definitive di questo enigma sociale posto al cuore del capitalismo contemporaneo, ci confronteremo ora con delle analisi, empiriche e speculative, che hanno dimostrato in modo convincente l’esistenza di qualcosa di simile alla servitù volontaria pura.
Le teorie a cui faremo riferimento pongono tutte al centro il rifiuto di prendere coscienza di qualcosa di cui pure si è in parte consapevoli. Questo tema è alla base della categoria di ‘diniego’, analizzata tra gli altri da Stanley Cohen. Oggetto del suo studio è la paradossale condizione di chi, contemporaneamente, ‘sa e non sa’; quei casi in cui cioè, posti di fronte a “informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale”,[xiii] reagiamo (come singoli e come collettività) negandole a noi stessi, in toto o nelle loro implicazioni negative. Si tratta di un processo almeno in parte cosciente: contrariamente alla rimozione – processo di difesa essenzialmente inconscio – il diniego è infatti caratterizzato dalla paradossale coesistenza di consapevolezza e negazione.
Un fenomeno simile al diniego, ma di carattere espressamente socio-politico, è oggetto della System Justification Theory (SJT). Al centro della sua analisi vi sono “i processi tramite i quali le strutture [arrangements] sociali vengono legittimate, anche a spese degli interessi personali e di gruppo”.[xiv] “La gerarchia” – sottolineano i ricercatori – “è mantenuta […] anche dalla complicità di membri di gruppi subordinati, molti dei quali perpetuano la diseguaglianza tramite meccanismi di outgroup favoritism”.[xv] Questo atteggiamento non è frutto di coercizione, né di mero adeguamento di fronte a un sistema immutabile (c’è dunque almeno una quota di astenibilità), ed è svantaggioso sia sul piano economico che su quello psichico: l’interiorizzazione dell’ideologia (specialmente di quella “particolarmente efficace […] nei sistemi democratici post-totalitari di libero mercato: la meritocrazia”)[xvi] richiede infatti che i soggetti si concepiscano come responsabili della propria condizione svantaggiata. Il che genera a sua volta bassa stima di sé, nevrosi, depressione.
Come spiegarlo, dunque? I teorici della SJT deducono che esso “faccia sentire meglio le persone in altri modi”;[xvii] e conferiscono così al desiderio di ‘avere un’immagine positiva’ del mondo in cui si vive (di ‘tifare per la squadra che vince’) lo statuto di un vero e proprio bisogno umano. Un bisogno che, spesso, sopravanza le esigenze di riconoscimento individuale e di gruppo (ego e group favoritism): in questi casi sono proprio gli ‘sconfitti’ a rallegrarsi della legittima vittoria delle classi avvantaggiate.
Le riflessioni dei teorici della SJT consentono di porre direttamente in connessione il tema del diniego e la categoria laboetiana. Il diniego può cioè spiegare perché la servitù volontaria sia instaurata e costantemente replicata dai sottomessi. Secondo questa lettura, noi difendiamo e perpetriamo il sistema di potere in cui viviamo, benché ci provochi dolore, per non dover prendere coscienza della sua ingiustizia. Se non riconosciamo che il sistema è ingiusto (razionalizzando anche il nostro dolore, come congruo o inevitabile: there is no alternative) non tentiamo di migliorarlo; ma anzi, ci impegniamo ancor di più nella sua difesa, per meglio tutelare il nostro diniego.
Ma perché questa verità in apparenza banale – l’ingiustizia del sistema – dovrebbe essere così inaccettabile? Un suggerimento non molto confortante ci viene da Dejours: per via della nostra connivenza con il sistema. Ritenere inevitabile, naturale o neutrale, la sofferenza sociale altro non è se non un meccanismo di “difesa contro la dolorosa consapevolezza della propria complicità, della propria collaborazione nella crescita dell’ingiustizia sociale”.[xviii]
È così possibile aggiungere un tassello alla tesi della servitù volontaria per diniego. Prendere coscienza dell’ingiustizia del sistema, e dunque lottare per abolirla, implicherebbe che noi ammettessimo di essere complici di un potere iniquo: e dunque – in uno scenario in cui il ruolo di vittima sfuma inquietantemente in quello di carnefice – coartefici del dolore da esso inflitto tanto agli altri quanto a noi stessi. Piuttosto che riconoscerci tali (come elettori, lavoratori, consumatori), preferiamo continuare a difendere quel sistema come giusto, e quel male come accidentale o inevitabile.
La servitù volontaria assume perciò i tratti di un circolo vizioso. Smettere di supportare il sistema (di essere servi volontari) richiederebbe di riconoscerlo come ingiusto; ma questo riconoscimento implicherebbe il dire a noi stessi che abbiamo speso tutta la vita a causare, a noi e agli altri, del male. Non siamo disposti ad ammetterlo, e dunque preferiamo continuare a servire.
Conclusione
L’analisi sin qui condotta si attesta essenzialmente su un livello diagnostico: è ora necessario soffermarsi rapidamente sulle possibili prognosi. Si tratta, cioè, di chiedersi se e come l’ipotesi della servitù volontaria, oltre a illuminare alcuni aspetti altrimenti poco visibili del capitalismo contemporaneo, schiuda anche nuove percorribili vie emancipative.
Ciò, però, è tutt’altro che scontato: è evidente infatti come alla servitù volontaria sia intimamente connesso un certo pessimismo. Ammettere che i soggetti, pur potendo, non si liberano, significa constatare che non vogliono farlo, o che – nella migliore delle ipotesi – hanno valide ragioni per non farlo: ma se è così, su quali basi dovremmo attenderci una loro uscita dall’attuale sistema economico? In realtà, proprio da quella constatazione può prendere le mosse una duplice exit strategy.
In primo luogo, l’analisi dei concreti contesti di lavoro setacciati tramite i ‘quattro caratteri’ (ma il medesimo discorso andrebbe posto sui piani del consumo, della diseguaglianza economica, degli investimenti finanziari) permette di tracciare, nella superficie apparentemente monolitica dello status quo, piccole e ben delineate sfere di un’emancipazione possibile. Ogni volta, cioè, in cui la mera astensione da atti auto-assoggettanti risulterà per i soggetti coinvolti allo stesso tempo possibile e benefica, si aprirà loro la possibilità concreta di migliorare immediatamente la propria condizione, riducendo la sofferenza che causano a se stessi: dormire un numero accettabile di ore, ottenere un compenso per il proprio lavoro, ridurre il rischio che i propri cari siano sfrattati. Un gesto che, al contempo, sottrae al sistema nel suo complesso una quota (per quanto piccola) di sostegno: contribuendo così a rendere più visibili – e quindi, forse, più direttamente attaccabili – cooptazione, coercizione, manipolazione.
Inoltre, proprio l’analisi delle spinte – soggettive e collettive alla sottomissione svantaggiosa può indicare le direzioni da intraprendere per favorire l’uscita da una condizione di autosfruttamento e sofferenza. Sotto questo aspetto il meccanismo del diniego, esaminato in precedenza, non è certo l’unica ipotesi valida (e del resto nulla esclude che all’origine della sottomissione volontaria vi siano di volta in volta dinamiche differenti); ma è un’ipotesi che ha il pregio di non essere paralizzante a fini emancipativi. Essa suggerisce, in particolare, l’esigenza di rendere più tollerabile, ai ‘carnefici di se stessi’, lo sguardo sulla propria condizione: ciò permetterebbe di disarmare gradualmente il cortocircuito del diniego, in base al quale proprio l’impossibilità di ammettere il dolore inflitto(si) annichilisce il superamento di quest’ultimo.
Da ognuno di questi approcci, in ogni caso, emerge una constatazione di fondo: che proprio nel dedicarsi anima e corpo a un sistema di lavoro che li danneggia, i lavoratori occidentali rivelano di possedere un serbatoio di energia immenso. Il loro impegno infatti è solo in parte riconducibile a manipolazione e coercizione, o – all’opposto – alla speranza in un ritorno economico o di riconoscimento: c’è dell’altro. Una quota ‘x’ leggibile sia in positivo (come capacità aspirativa, desiderio di felicità, spinta utopica) sia in negativo (secondo le categorie del diniego, dell’insostenibilità della vita libera, di una brama sottomissiva e autolesionistica), ma comunque tutt’altro che passiva, estorta o eterodiretta. È qui che sembra innestarsi la via per un’emancipazione possibile: tentare di riconvertire quella stessa energia, reindirizzandola verso fini al tempo stesso meno dolorosi e più umani.
Note
[i] É. de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, Milano 2014, p. 37.
[ii] Ivi, p. 34.
[iii] In particolare, gli individui che compiono costantemente atti che li pongono in situazione di servitù svantaggiosa sono almeno consapevoli di un’alternativa possibile minima: l’astensione da quegli atti.
[iv] M. Marzano, Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata, Mondadori, Milano 2010.
[v] C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, Il saggiatore, Milano 2000.
[vi] Ivi, p. 76.
[vii] Si attestavano su ritmi simili i carichi di lavoro che nell’agosto 2013 hanno portato alla morte lo stagista Moritz Erhardt; cfr. P. Gallagher, Slavery in the City, in «The Indipendent», 28 Agosto 2013: http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/slavery-in-the-city-death-of-21yearold-intern-moritz-erhardt-at-merrill-lynch-sparks-furore-over-long-hours-and-macho-culture-at-banks-8775917.html
[viii] Connesse alle importanti ricadute del suo lavoro sull’economia reale italiana in termini di liquidità erogata.
[ix] E in parte conclusasi con la Riforma del Lavoro Fornero (legge n. 92/2012), la quale, tra le altre cose, applicando un decreto europeo ha messo fuori legge lo stage gratuito, imponendo un rimborso spese minimo di 300 euro (legge che però deve essere attuata tramite decreto amministrativo da parte delle singole regioni e che non riguarda i tirocini degli studenti universitari né i praticantati professionali): cfr. http://www.pmi.it/impresa/normativa/articolo/61861/riforma-di-stage-e-tirocini-compenso-e-requisiti-2013.html
[x] Cfr. E. Voltolina, La repubblica degli stagisti, Laterza, Roma-Bari 2010.
[xi] Speranza spesso vana, dato che la percentuale di assunzione dopo uno stage è di circa il 9,4%, meno di uno stagista su 10.
[xii] Potremmo individuare un caso positivo di applicazione del ‘setaccio’ nel rifiuto, messo in atto dall’Associazione dei fabbri di Pamplona nell’inverno 2012-2013, di partecipare agli interventi di sfratto (moltiplicatisi con la crisi): cfr. https://sites.google.com/site/cerrajerosdepamplona/. La semplice astensione dal sostituire le serrature ha inceppato per mesi l’intero sistema dei pignoramenti. Il loro gesto è inoltre servito da modello: la protesta non solo è stata appoggiata da un importante sindacato spagnolo (l’Unione dei fabbri di sicurezza), ma si è anche estesa ad altre categorie di lavoratori; cfr. http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2013/02/130221_bomberos_cerrajeros_desahucios_ap.shtml
[xiii] S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Roma 2002, p. 23.
[xiv] J. T. Jost, M. R. Banaji, The Role of Stereotyping in System-Justification and the Production of False Consciousness, in «British Journal of Social Psychology», n. 33, 1994, p. 2.
[xv] J. T. Jost, M. R. Banaji, B. A. Nosek, A Decade of System Justification Theory: Accumulated Evidence on Conscious and Unconscious Bolstering of the Status Quo, in «Political Psychology», vol. 25, n. 6, 2004, p. 885. Con ‘outgroup favoritism’ ci si riferisce a “preferenze valutative per i membri di un gruppo a cui non si appartiene”: ivi, p. 891; le indagini condotte dai teorici della SJT si concentrano in particolare su afroamericani, persone a reddito basso e omosessuali, tendenti a condividere rispettivamente i pregiudizi di bianchi, ricchi e eterosessuali.
[xvi] J. T. Jost, O. Hundady, The Psychology of System Justification and the Palliative Function of Ideology, Research Paper Series, Stanford Graduate School of Business 2002, p. 33.
[xvii] Ibid.
[xviii] C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi, cit., pp. 23-24.
[Immagine: Steve Lambert, Capitalism works for me (gm)].
Pezzo molto interessante.
Mi domando però se questa analisi si possa applicare a quei contesti in cui sottomettersi alla servità volontaria non riguarda solo se stessi, la propria fatica e i propri desideri di realizzazione (caso dell’ingegnere), ma anche il servizio offerto a terzi, ad esempio nella scuola e nella sanità.
Faccio l’esempio dei ragazzi con handicap: le ore di sostegno spesso non sono sufficienti a far lavorare bene i docenti, sento spesso neuropsichiatri che raccontanto di un collega andato in pensione e non rimpiazzato i cui (molti) casi vengono divisi fra i medici rimasti, con un aggravio di lavoro notevole (un neuropsichiatra segue centinaia di ragazzi, poi qualcuno si lamenta che “non conosca il caso, che non si faccia mai vedere, che fatta la diagnosi sia scomparso, ecc…”).
Gli insegnanti e gli operatori sanitari dovrebbero sottrarsi a questa schiavità volontaria del lavoro cattivo, invece si caricano la croce “per il bene dei ragazzi”. Si dicono “è vero, danno sempre meno, ma cerchiamo di lavorare bene con quel poco”.
Come se ne esce?
Ciao Daniele,
grazie davvero del commento. È molto interessante, e ci siamo presi qualche ora in più per discuterne insieme. Ecco ciò a cui siamo arrivati.
Facciamo per un secondo astrazione dalla specificità delle mansioni (=l’utente: ragazzi portatori di handicap, studenti in generale,…): lo schema “lavoro extra e impegno forsennato per tenere in piedi un sistema reso volutamente disfunzionale dall’alto” è esattamente una delle forme di autoasservimento tipiche degli ultimi anni. Certo, quel lavoro extra “facendo il possibile” cerca di giovare agli utenti più deboli: ma è in virtù di quello sforzo extra che l’impianto resta in piedi, pur essendo diventato del tutto inefficiente. Per cui, a rigore, sì: sottrarre il proprio impegno extra (secondo quello che abbiamo definito “setaccio”), oltre a farci risparmiare un sacco di fatica, potrebbe portare all’implosione dell’impianto stesso, o almeno a palesarne in modo indiscutibile l’insostenibilità. E questo potrebbe fare del bene agli stessi utenti. In pratica: fai del bene seguendo 100 ragazzi male, o facendo al meglio solo il tuo lavoro “normale” (ad esempio seguendone 5 o 6 con cura, fatti salvi gli obblighi contrattuali) e facendo emergere il fatto che quel sistema non funziona?
Poi certo, il punto è quello: nelle stesse pratiche di autoasservimento si intravvede un’energia che è tutt’altro che negativa, che è impegno, dedizione, passione. Però appunto, si tratta di tentare (per quanto possibile) di impiegarla in modo non contro-finalistico.
Articolo molto interessante, con chiare ascendenze foucaultiane mi pare, benché non esplicitate.
Trovo particolarmente stimolante il riferimento alla System Justification Theory per quanto riguarda il fenomeno dell’outgroup favoritism. Leggendo questo passaggio, ho pensato ad un altro concetto sviluppato dalla SJT, i compensatory stereotypes, che potrebbe spiegare fenomeni e movimenti contemporanei autoconsolatori e (alla luce della vostra analisi) decisamente pericolosi, penso per esempio al “Movimento per la decrescita felice”.
Grazie per il contributo.
Non so, forse esisterà qualche caso di servitù volontaria, ma credo che se parliamo di grandi numeri, allora parliamo di tuttaltro.
In effetti, tranne che per quanto attiene la subalternità, non riconosco il verificarsi di nessuna delle altre tre condizioni elencate, non almeno nel tempo presente. Qualche dubbio lo potrei nutrire sull’astenibilità, la cui facilità mi pare difficilmente quantificabile: certamente, non deve essere facilissima, considerato che si prosegue nella schiavitù.
Sono invece convinto che la sottomissione sia del tutto inconsapevole, e nutro dubbi su questa frettolosa coincidenza tra libertà e felicità, da cui mi terrei lontano data la sfuggevolezza di entrambi questi due termini. Già è difficile definirli separatamente, figuriamoci farli coincidere!
La mia opinione in proposito è invece che l’ambire alla felicità conviva nell’uomo con la tendenza alla socialità che lo porta ad adeguarsi inconsciamente ai dettami sociali per paura di restare solo.
Credo che avremmo meno bisogno di questa continua retorica della libertà (qui addirittura coincidente con la felicità), e dovremmo piuttosto, senza pensare di potere ignorare la nostra socialità, immaginare come meglio esercitare una reale forma di democrazia, per cui cioè sia ben garantito l’escludere che singoli possano in virtù di loro mezzi finanziari, esercitare un’influenza determinante su fette consistenti di popolazione.
Il permettere a costoro di esercitare tranquillamente la loro azione di indirizzamento dei comportamenti individuali è purtroppo parte della retorica della libertà.
Scusate, c’è un errore che vorrei correggere.
Invece di “…che l’ambire alla felicità conviva…” , avrei voluto scrivere ” …che l’ambire alla libertà conviva…” (clamoroso condizionamento da parte del testo!)
Per Gbr:
grazie mille, della lettura e dell’apprezzamento. Molto interessante la questione dei compensatory stereotypes, in effetti, con i quali si tratterebbe di integrare la questione del livello esplicito-implicito (per cui alcuni stereotipi sono solo palesi, e nascondono una adesione più lineare ai pregiudizi della classe alta). Grazie dello spunto. E sì, senza scendere nello specifico sul pensiero della decrescita – su cui sappiamo troppo poco, le descrizioni autoconsolatorie sono un po’ il bersaglio del testo (nella misura in cui descrivono un soggetto passivo e paralizzato, scordandosi di tutta l’attività che c’è nella sottomissione).
Per Vincenzo:
la pensiamo parecchio diversa, ci sa, e meno male, questo è il sale del dibattito :-) quindi solo due puntualizzazioni.
– L’idea che felicità e libertà si implichino reciprocamente è la questione che tentiamo di problematizzare, anche in questo articolo, e non un assunto a priori su cui si fonda il nostro lavoro. Certo, l’obiettivo sarebbe di non cadere nell’assunto contrario (il nesso sottomissione-felicità, del tipo di quella che indichi tu come “volontà di non-essere-solo”), che è la retorica infame su cui si fonda qualsiasi dispotismo. Ma appunto, è un obiettivo, non un presupposto. Se mai per caso ti interessasse, ci abbiamo lavorato qui http://revistas.marcialpons.es/fichaarticulo.php?id_articulo=2495 , partendo dalla questione del “Grande Inquisitore”.
– Una curiosità. Per te ogni sottomissione è “del tutto inconsapevole” (quindi chi lavora in azienda a partita iva è convinto di essersi improvvisamente trasformato in imprenditore, ad esempio) e perfino chi si adegua ai dettami sociali lo fa “inconsciamente” (chi compra vestiti alla moda non ha idea di seguire la moda, chi compra un iphone è convinto di avere avuto l’idea più originale del secolo, e ogni individuo nel pubblico a un concerto di Madonna ogni volta guarda gli altri spaesati chiedendosi “ma che ci fa tutta sta gente?!”, etc…). Ma se gli esseri umani sono così scemi da non accorgersi mai di niente, su che cosa la fondiamo la democrazia? Sull’autogoverno degli ebeti? O su un nuovo pastorale, per cui c’è una minoranza illuminata che finalmente prende il gregge per mano?
Grazie della risposta.
Mi pare che nel mio intervento ci siano elementi che rispondono alle vostre nuove osservazioni.
Intanto, la paura di rimanere soli, è un fatto evidente anche ai ciechi, non una tesi infame (a che serve questa aggettivazione aggressiva?). Del resto, se leggete più attentamente, io non ho certo scritto che il non essere soli corrisponda alla felicità e non capisco perchè dobbiate interpretarmi, basterebbe limitarsi a ciò che effettivamente scrivo. Io in verità dico che desiderio di libertà e socialità sono due opposte esigenze dell’uomo, ed i suoi comportamenti oscillano tra questi due estremi, generando lo spazio proprio della politica che dovrebbe tendere ad influenzare il punto di equilibrio tra queste due opposte esigenze in base al proprio orientamento (per tutti noi immagino democratico).
In generale, non ha neanche senso chiedersi se l’uomo è buono o cattivo, se è idiota o se è intelligente, l’uomo è così come lo osserviamo, e non vedo perchè precipitarsi a dare giudizi di valore.
Sapere com’è, può aiutare a metterlo nelle condizioni migliori per esercitare al meglio il proprio ruolo di cittadino di uno stato democratico. In diretta polemica con le tesi ottimistiche fino all’assurdo del liberalismo, io credo che sia necessario limitare i poteri di singoli soggetti, proprio oggi che lo sviluppo tecnologico permette a chi abbia i mezzi finanziari adeguati a strumenti di condizionamento di massa. Mi pare che sono tesi non certo originalmente mie, sono patrimonio del pensiero politico da almeno mezzo secolo, ma pare che le abbiamo dimenticate e ricominciamo col crederci liberi automaticamente: purtroppo, non è così, ed anzi la consapevolezza individuale non vale granchè in questo ambito.
Nel merito dei casi che elencate a titolo di esemplificazione, le partite IVA sono tali non perchè servi consapevoli, ma perchè spesso oggi questo è l’unico modo per il singolo individuo di avere un reddito, quindi per sopravvivenza.
Chi compra l’ultimo modello di i-phone o il più nuovo articolo d’abbigliamento, sa certo di farlo, ma non è che abbia chiaro perchè lo faccia. Sicuramente, nessuno di costoro crede di essere servo, spera soltanto in un riconoscimento sociale (la socialità torna sempre in ballo…).
Ora sono io che vi faccio una domanda: perchè dunque improvvisamente un cantante, in passato madonna, diventa il preferito, masse di adolescenti (e non solo) tentano di accaparrarsi tutte le sue canzoni ed altrettanto velocemente scompare come una meteora?
Secondo me, perchè quella musica è un segno di riconoscimento tra persone che frequentano gli stessi ambienti, sono magari compagni di scuola, c’è un’infatuazione momentanea collettiva.
Quale sarebbe invece la vostra opinione in proposito?
Vincenzo,
grazie a te per il dibattito. E chiariamo subito che “infame” non era riferito alla tua tesi (ci mancherebbe altro!!) ma all’uso strumentale dell’antropologia negativa. Se suonava equivoco, ovviamente, scusaci.
Poi, in breve e per chiarire. L’esempio delle partite IVA puntava a far emergere come parlare di “totale inconsapevolezza” sia un assurdo, o al massimo una metafora. Tu stesso dici che “le partite IVA sono tali non perchè servi consapevoli, ma perchè spesso oggi questo è l’unico modo per il singolo individuo di avere un reddito, quindi per sopravvivenza”: e su questo si potrebbe discutere (è l’unico modo? Che effetto creerebbe un rifiuto generalizzato?, etc), ma in ogni caso sposta il discorso dal “sapere” al “potere” (nei nostri termini: dalla “consapevolezza” all’”astenibilità”).
Anche perché, e questo è il punto, nel pezzo non parliamo affatto di libertà/servitù, o di consapevolezza/inconsapevolezza, come due alternative nette (e menchemeno sposiamo quella che chiami “retorica della libertà assoluta”): parliamo di “gradi” di libertà, di “singoli atti” da cui è possibile astenersi, di “paradossali compresenze di sapere e non sapere”, etc. Il “setaccio” (in “Una proposta…”) e il diniego (in “Perché serviamo…”) tentano esattamente di riflettere su questi scarti, suggerendo una via. Ma su questo non ha senso dilungarci, visto che abbiamo provato a argomentarlo al meglio delle nostre capacità nel pezzo qui sopra: e possiamo solo suggerire – se non sei stufo – di rileggere quelle parti alla luce di questo scambio.
Infine, per rispondere alla domanda sulla cantante. Tu parli di “infatuazione collettiva”. A noi pare che, in generale, assumere i soggetti come passivi (si limitano a subire condizionamenti mediatici, infatuazioni etc) voglia dire perdere di vista tutte le energie che i soggetti spendono attivamente in quelle cause (in questo esempio su cui siamo finiti, e che forse non è azzeccatissimo: stare al passo della moda musicale, andare ai concerti, lavorare per pagarsi i biglietti, socializzare con gli altri fans, incidere cover,…). E quelle energia a livello critico è un problema (perché perpetuano il loro assoggettamento), ma anche una bella opportunità (non sono corpi morti, ma soggetti vivi, passionali, audaci).
Grazie dello scambio, davvero!
Camilla, Francesco, Daniele
Articolo molto interessante, grazie.
Spenderei anch’io una parola sulla coincidenza felicità/libertà, che poco mi convince, perlomeno in ambito lavorativo.
Credo infatti, e lo sperimento spesso su me stessa, che la libertà implichi quell’esercizio costante della RESPONSABILITA’ che può alla lunga rivelarsi talmente faticosa da far sembrare paradisiaca quella condizione nella quale qualcuno decide per te. Per quanto paradossale possa sembrare, l’asservimento ad un potere PUO’ essere fonte di felicità,
Volendo, il binomio irresponsabilità/sottomissione non è altro che la condizione dell’infanzia alla quale capita spesso infatti di pensare come a un paradiso perduto.
Forse la vedo così perché nel mio settore -sono un’insegnante- la sofferenza di molti sul luogo di lavoro nasce ora proprio dal cortocircuito tra alta responsabilità e posizione subalterna (con relative basse retribuzioni); nel corso degli anni infatti è stata scaricata sui docenti una quantità di decisioni da prendere e di compiti da svolgere che li ha portati ad assumere su di sé quegli oneri di organizzazione -e non solo- che una volta erano di competenza di organismi superiori (dal dirigente scolastico fino ad arrivare al ministero). Il mio dubbio è che questo sia avvenuto proprio perché le “forze del male” (!) hanno saputo utilizzare a proprio vantaggio esattamente quella aspirazione alla libertà (nello specifico detta “autonomia”) che, distrattamente identificata con la felicità o più semplicemente con una condizione più umanamente gratificante, ha fatto sì che i lavoratori della scuola dimenticassero la propria reale condizione di lavoratori malpagati.
Non un inganno dunque, né l’adesione ad un ideale, né una diversa idea di felicità ci ha fregati, ma la capacità di alcuni di capire che proprio la “libertà” è per noi poveri polli un’esca più potente di qualsiasi retribuzione ..
Infine: mi duole contraddirvi, ma la meritocrazia non diminuisce l’autostima. Il demerito, si sa, è sempre quello degli altri :-)
Cara Michela,
ti ringraziamo molto del commento, offre degli spunti molto interessanti e ci permette di chiarire alcune questioni che forse non sono emerse in modo chiaro (la versione pubblicata qui – lo ricordiamo – è solo un estratto, anche se cospicuo, del nostro capitolo).
Sulla questione dell’autonomia come forma di asservimento: chiarisci bene il modo in cui viene utilizzata l’autonomia e quella famosa “libertà imposta” («siate liberi, questo è un ordine») utilizzata come arma del new management. Il meccanismo che hai descritto (dire al lavoratore di un’azienda: realizzi te stesso in modo autonomo all’interno dell’azienda, sei pienamente responsabile di quello che fai, MA devi perseguire determinati obiettivi, altrimenti ne va della tua stessa esistenza) è reale ed è analizzato dagli studiosi di new management. Ma non è esattamente quello di cui ci occupiamo noi, in quanto è ancora un meccanismo di coercizione (e per questo motivo sbagliano quelli che utilizzano la categoria di servitù volontaria per spiegarlo). Noi abbiamo cercato di mettere in luce la quota di portato attivo, volontario, “facilmente” astenibile che mettono gli assoggettati a questo sistema.
Su sottomissione/felicità. Intanto una risposta banale: poniamo che esistano forme di sottomissione felice: ok, ma non sono quelle di cui ci occupiamo noi qui. Noi abbiamo scelto di concentrarci su quelle sottomissioni che portano danni palesi a chi le mette in opera, e solo NELLA MISURA IN CUI portano danni palesi. Il che ovviamente non è una scelta casuale: la nostra scommessa è che nel capitalismo contemporaneo questi casi siano tutt’altro che marginali, e che su quei casi sia possibile “fare leva” (in senso teorico, almeno, e forse anche un po’ politico). Poi, più nel merito: quella di cui parli si potrebbe forse definire una sorta di esonero consapevole dalla autonomia imposta, accompagnata dall’assenza di riconoscimento del proprio ruolo e dall’aumento della responsibilità non bilanciato da nulla. Quindi forse non tanto felicità ottenuta tramite sottomissione, quanto una ritrovata serenità grazie all’esonero delle (troppe!) responsabilità che ti/ci hanno dato, e da tutti i casini che ciò ha portato: un esito in parte voluto dalla stessa, contraddittoria “ingiunzione ad essere liberi” tipica del new managemen.
Infine, dici: “la meritocrazia non diminuisce l’autostima. Il demerito, si sa, è sempre quello degli altri”. In realtà gli esperimenti degli scienziati della System Justification Theory (cui accenniamo nell’ultima parte del pezzo), gran parte degli psicopatologi francesi (a partire da Dejours), vari filosofi del riconoscimento etc… scrivono e argomentano da anni il contrario: che l’effetto del costante mancato riconoscimento sul lavoro è un’introiezione dei pregiudizi di chi valuta dall’alto, un crollo dell’autostima, una propensione molto più alta alle malattie mentali, un tasso di suicidio in impennata. Poi sia chiaro: su questo tema ciascuno di noi porta anche quello che vive sulla sua pelle..
Ciao e grazie ancora del commento!