cropped-16162_orig.jpegdi Emiliano Morreale

Dal 1992 al 1994, l’Italia è in preda alla confusione politica e istituzionale: Tangentopoli, i governi tecnici, l’arrivo di Forza Italia. Sullo sfondo, l’escalation violenta di Cosa Nostra: dall’omicidio di Lima al picco degli attentati a Falcone e Borsellino, alle bombe di Roma, Firenze, Milano. Qualche anno fa, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, ha sostenuto l’esistenza di un “papello” contenente le richieste dei mafiosi, e che sarebbe stato l’oggetto di una trattativa, gestita dai Ros dei carabinieri, prima con Riina e poi con Provenzano (dopo la cattura del primo, facilitata dunque da Cosa Nostra per far procedere più speditamente la trattativa). Una serie di pagine oscure, tra depistaggi, falsi pentiti, mancate indagini e documenti spariti, su cui è ancora in corso un processo. E’ questo il materiale in cui il film La trattativa di Sabina Guzzanti, ibrido di documentario e finzione, cerca di trovare un filo.

Si può discutere su cosa la trattativa sia stata, su cosa si debba intendere per “Stato” in quella occasione, chi siano stati gli interlocutori, quali i terreni di scambio e i vantaggi effettivamente ottenuti. Il film sembra optare per un’ipotesi massima: furono coinvolti i vertici delle istituzioni, i mafiosi ottennero quel che volevano, e venne la pace, e la rovina. Ipotesi forte e ovviamente opinabile, sulla quale ha scritto pagine utili Salvatore Lupo nel libro La mafia non ha vinto (Laterza). Ma non è questo il punto. È soprattutto la scelta estetica, di fare un racconto, anzi a tratti un racconto per bambini (specie nelle spiegazioni declamate dall’attrice) che il film mostra i suoi limiti. Se il miglior cinema d’inchiesta è spesso problematico, inquieto, qui fila tutto liscio, i pezzi del puzzle vanno a posto, e la spiegazione arriva facile-facile, anche quando i passaggi non sembrano così lineari come vengono presentati. Che ci siano stati dei contatti tra settori della politica e delle istituzioni e frange di Cosa Nostra è assodato, così come l’ambiguo ruolo di settori delle forze dell’ordine. Insomma: una trattativa o più trattative ci sono state. Così come il ruolo fondamentale della mafia nella nascita di Forza Italia, vista come possibile referente nazionale, e non solo per la presenza di Dell’Utri. E come i legami tra Berlusconi ed esponenti di Cosa Nostra. Ma è la Grande Teoria che collega gli elementi a sembrare troppo sicura di sé. Per capire quanto le storie siano più sfumate di così, quanto ci si muova su un terreno scivoloso, quanto le generalizzazioni, pur inevitabili, finiscano col mistificare, basterà rileggersi, per limitarci al settore delle forze dell’ordine, le biografie del generale Mori, del colonnello Riccio e del generale Subranni, citati nel film di Guzzanti, ma anche del cosiddetto capitano Ultimo, di Giuseppe De Donno, di Gianni De Gennaro, di Antonino Lombardo, di Carmelo Canale, del generale Delfino, di Borzacchelli, Ciuro eccetera. (Se ne trova un utile compendio nell’appendice all’ultima edizione di Raccolto rosso di Enrico Deaglio, Il Saggiatore).

Il semplicismo dell’analisi e la rozzezza estetica vanno inevitabilmente sottobraccio. Se alcune parti di La trattativa sono giornalisticamente efficaci (quella sul pentito Spatuzza, o la tragica fine di Luigi Ilardo, che collaborò coi carabinieri per far catturare Provenzano ma venne “bruciato”- e il boss restò libero per anni), bisogna in compenso mandar giù uno stile da parodia di “Blu notte”, accenti farseschi incongrui, e un tono paternalistico più che didattico in senso brechtiano, con il grottesco che indebolisce l’inchiesta (i bluescreen e le imitazioni di Scarantino, o Marcello Mazzarella chissà perché vestito da donna, o il teatrino berlusconi-Dell’Utri, sono penosi), e la fiction che invece la rende troppo apodittica. Come diceva un critico con un passato nella sinistra extraparlamentare uscendo dalla proiezione veneziana: “Sembra uno di quegli spettacoli della Comune di Dario Fo, tipo Il Fanfani rapito, che ci facevamo piacere per forza, ma che alla fine erano proprio brutti.” Ma allora c’era almeno l’alibi di una contro-informazione militante, mentre sulla trattativa stato-mafia si sono avuti centinaia di libri, articoli di grandi giornali, inchieste tv e talk show. E allora forse sarebbe servito un film che facesse riflettere, non che spiegasse.

Il film tratta gli spettatori come bambini, e la materia come una storia semplice, che nessuno ha mai raccontato prima per paura o malafede. Ma nel far questo semplifica davvero troppo. Davvero, come dice il film, Martelli viene fatto fuori perché alleato di Falcone e non perché nel 1993 tenere alla Giustizia il delfino di Craxi sarebbe stata una scelta impopolare? Il film dà per scontato che Borsellino sia stato ucciso perché indagava sulla morte di Falcone, ma anche sui progetti politici della mafia (che in quel momento erano fumosi e velleitari, con la formazione di leghe del Sud insieme alla massoneria). Poi, per aggiungere tinte fosche, presenta apoditticamente Cosa Nostra come parte costante della strategia della tensione. Queste forzature generano una mancata saldatura tra le due parti del film: quella sulla trattativa vera e propria, e quella sulla nascita di Forza Italia, che risultano meccanicamente collegate ma non si capisce bene come, e quindi l’effetto finale è paradossalmente di una notte in cui tutte le vacche sono nere. Questa semplificazione, infine, genera anche qualche effetto perverso, come quello di dipingere Gian Carlo Caselli come un totale sprovveduto, che nelle sue due apparizioni nella vicenda prima avalla la mancata perquisizione del covo di Riina e poi non verbalizza le dichiarazioni dell’infiltrato Ilardo.

A chiarire i limiti dell’operazione è il finale, quando il grottesco e l’inchiesta lasciano il posto alla retorica, e la voce di Guzzanti declama il sugo di tutta la storia. L’Agenda Rossa di Borsellino svelerebbe forse tutti i segreti (ma forse no, si potrebbe obiettare); la Trattativa, da effetto di un dato momento storico, di coinvolgimenti istituzionali e di complicità politiche, diventa causa, anzi La Causa del Degrado Italiano. Una conclusione tanto apocalittica da risultare consolatoria: la Trattativa generò Dell’Utri (però, anche a giudicare dal film, involontariamente, visto che i politici tirati in ballo nel processo sono quasi tutti di centrosinistra); Dell’Utri, puparo occulto, generò il berlusconismo. E gli italiani, verrebbe da chiedere, non l’hanno votato? “Noi” (illuminati, intellettuali, “lavoratori dello spettacolo” come dice il film paragonandoci e paragonandosi un po’ oscenamente a Borsellino) abbiamo solo subìto, vittime di un complotto? A noi ci ha rovinato la Trattativa, signora mia, che se non c’era la Trattativa a quest’ora…

Insomma, alla fine, il film di Guzzanti testimonia anche i limiti di una certa sinistra, della sua visione della politica e della società. È inevitabile il confronto con Belluscone di Franco Maresco, che sintetizza gli stessi temi di Guzzanti in cinque minuti, e da lì parte per dare un ritratto feroce e profondo del nostro presente, dall’assenza del senso civico al narcisismo di massa, da Dell’Utri ad Amici (ospite Renzi). Quello sì, è un esempio di come il cinema può illuminare su destini di un paese, e riflettere coraggiosamente sul proprio ruolo.

[Immagine: Sabina Guzzanti, La trattativa].

3 thoughts on “La trattativa troppo facile di Sabina Guzzanti

  1. Mi è capitato di vedere il film: tutto vero quello che dice Emiliano. Giusto anche il confronto con il “Belluscone” di Maresco, invece un piccolo capolavoro di cui mi è capitato di scrivere sul sito del “Ponte”.

  2. Le scene con l'”imitatore” di Caselli, tuttavia, condividono il grottesco naturale di Ciccio Mira…

  3. Penso che l’obiettivo della critica non dovrebbe essere di salvare il critico a spese del suo oggetto. E nel lavoro della Guzzanti ci troviamo di fronte alla solita catena di errori di cui l’ultimo sembra voler giustificare l’esistenza di quello che lo precede.

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