cropped-thomas-ruff-portraits-photography.jpgUn dialogo tra Andrea Inglese, Guido Mazzoni e Italo Testa

[Questa conversazione si è tenuta in occasione di “Parma Poesia Festival”, venerdì 22 giugno 2012 nell’Auditorium della Casa della Musica, a Parma. La trascrizione è di Martina Fortunati ed è stata rivista dagli autori. Il dialogo sta uscendo sul numero 50 di «La società degli individui»]

Italo Testa – L’individuale è tema d’incontro e scontro. La nominazione del­l’individuale, l’ipotesi di accedervi conoscitivamente è una questione in­tor­no alla quale poesia, romanzo e filosofia, intese come differenti forme espressive, ordini di discorso e tradizioni, convergono a discutere, mettendo in campo strategie che si diversificano, entrano in conflitto, mutano nel tem­­po. La nostra idea è di parlarne tra le righe, nel transito, senza dare per scon­tato che vi sia già un territorio, un ordine aggiudicato, definito a priori, ma anzi cercando di vedere se non vi siano degli slittamenti, dei confini mo­bili, una qualche porosità tra queste forme espressive.

Andrea Inglese – Comincerò leggendo una poesia. Forse in quasi tutti i te­sti poetici la questione dell’individualità è fondamentale; in questo lo è in mo­do particolare. Dopo averlo letto cercherò di far emergere qualche ele­mento che potrebbe essere utile alla nostra discussione.

Si tratta di un testo tratto da un libro del 2011 che si chiama Commiato da Andromeda, un libro che include sia testi in prosa che poesie.

Questa vita intera
che io ho perso, perdendo
Andromeda, perché non volevo più,
non potevo, schiavo, continuare
a lottare ogni attimo per non
definitivamente
crollare,
………………………………….questa vita
è interamente stata,
e interamente tolta,
non pesa niente,
nemmeno la vita che è rimasta
qui, quella di ora,
se ci penso bene, se alla luce
di quanto, se allora tutto
il nuovo avvenire, e il presente,
non è neppure questo,
– ora che lo vivo –
un peso, un fatto, con il suo
inconfondibile colore: che ci sia
Hélène, come la persona più reale,
a fianco, nella trattoria quasi vuota,
dove tentiamo sereni di pranzare,
e da un lato una tovaglia di carta,
la saliera, il cestino del pane, la lavagna
con lo scarabocchio in gesso del piatto
del giorno, e dall’altro noi due,
a preoccuparci, a rivedere le date, a ricontare
i soldi, a tracciare itinerari migliori,
a cambiare latitudine ai divani,
tutto questo precipitoso starci vicino,
mettere mano alle cose, fare frasi
sopra frasi, anche risate, polemiche,
silenzi ostili, questo tenerci assieme
dentro una trattoria, un luogo
fisico, non serve, ci tradirà
di nuovo, entrambi,
tu, con la tua giacca blu, sul vestito bianco,
io, con la mia giacca blu, sulla maglia rossa.

Tutto questo sforzo non tiene fermo nulla:
appena formulati i desideri mutano, gli accordi
di lavoro deviano, hanno demolito
nel frattempo il muro di cinta, la casa
della vecchia smemorata è stata ridipinta,
ampliata, invasa da altri, con i figli piccoli
già cresciuti, adolescenti, disoccupati, già morti.
Le buone cose previste
giungono da strade insolite, non più
riconoscibili, come frastuoni, fendenti.

Lo sapevi, affannato, sacramentando
tra una porta che t’incastra
e il bagagliaio, la sporta sul punto
di lacerarsi, la piccola che geme,
rovesciata sulla pancia, le forme molli
in pentola nere, carbonizzate,
lo sapevi che non bastava
partire una mezz’ora prima,
bisognava fare tutto, e da capo,
e meglio di ora, farlo molto prima,
non solo i biglietti, non solo le domande
al municipio, ma tutto il resto, per fare in modo,
magari,
che poi
che poi davvero
che come al solito
tutto non sparisca, come non fosse niente,
non fosse stato, mai,
che qualcosa di troppo vago,
leggero, da non
lasciare traccia: qui, nella mia testa,
dove cerco e ricerco,
frugando anche i fotogrammi bui,
quelli mai sviluppati o gli abbagli,
qui non rimane mai niente,
nonostante la grande serietà,
e i cristi mille volte masticati,
e il calcio contro la porta del frigo,
nonostante il profumo delle dalie bianche
nel nuovo vaso, nulla
è stato abbastanza reale
per fermarsi, per fare
un credibile fondo.

Questo testo cerca in qualche modo di pensare il tema che abbiamo scel­to. L’individualità non è solo un’individualità di persone – individui diffe­ren­ti, unici, che hanno un patrimonio genetico assolutamente specifico, una biografia assolutamente specifica e diversa da quella di tutti gli altri – ma è anche l’individualità delle situazioni, l’individualità degli oggetti. Non c’è una situazione assolutamente uguale ad un’altra. E questa dimensione del­l’in­dividualità delle situazioni, degli oggetti e delle persone si va a inter­se­ca­re con quello che è il passare del tempo, quindi con l’impermanenza della no­stra vita.

La questione, allora, dal punto di vista della scrittura poetica, o almeno di questa scrittura poetica, non è tanto come conoscere l’individualità, ma co­me memorizzarla, come fermarla, come renderla presente, dal momento che il tempo la distrugge. Il tempo è una costante distruzione dell’in­di­vi­dualità e a noi restano gli elementi, come dire, generici. A noi resta la pa­ro­la «bicchiere», per tutte le varie manifestazioni che abbiamo incontrato del bicchiere; a noi resta un nome proprio, per definire una persona di cui ab­bia­mo un serie di, anche qui, specifiche, assolutamente differenti, manife­sta­zioni.

Uno degli obiettivi della scrittura potrebbe essere anche questo: non tan­to come conoscere, raccontare o dire l’individuale, ma come costruire un di­scorso, un enunciato, una frase che sia assolutamente individuale. Per riu­scire ad essere sicuro che non ho perso quelle circostanze specifiche e quel­la persona assolutamente singolare, cerco di costruire, con il linguaggio, un oggetto, una struttura, una frase, un insieme di frasi che siano asso­luta­men­te individuali, cioè che non siano delle frasi ordinarie, ossia utili in diverse cir­costanze, ossia ricorrenti. Noi abbiamo costantemente bisogno di frasi ri­correnti nella lingua per comunicare. La poesia, da questo punto di vista, per­segue la creazione di un individuo nella lingua, un individuo capace di cor­rispondere a qualcuna delle tante individualità che attraversano la mia esistenza.

Guido Mazzoni – Anch’io comincio leggendo una poesia, in questo caso una poesia in prosa che fa parte di un libro intitolato I mondi (2010).

Superficie

Ora che la conversazione ti lascia da parte in una specie di cono e le cose che po­chi minuti fa provocavano un’increspatura nei rapporti fra te e le persone sedute al tuo tavolo sembrano prive di peso, percepisci ancora il campo di tensioni che un discorso sulle automobili, sulle forme di un vestito, su un modo di vivere, su una notizia che fra dieci giorni dimenticherai può aprire all’improvviso, ma fatichi a recuperare il valore di ciò che per un attimo è stato così importante da rappre­sen­tare la tua identità e da meritare una difesa. La risacca che ti trascina via lacera la patina delle tue azioni e ti fa capire quanto sia piccola la distanza che ti separa da­gli altri, quanto siano fragili i contenuti con cui riempiamo il gioco di equilibri e di squilibri che lega insieme le persone, generando la superficie dove ci muoviamo. Tu però vivi sulla superficie, tu sei la superficie che ti ha fatto parlare con una foga assurda di un’elezione amministrativa o di un individuo che non conosci; ed è per que­sto che, quando uscirai poco prima dell’alba e la rete dei fanali, gli alberi alli­nea­ti fra le case del sobborgo, le sagome dei pendolari che vanno a lavorare ti sor­pren­deranno, verrai colto da una forma di vergogna che supererai facilmente, per­ché questa è ormai la tua vita, l’unica cosa che conta per te, l’orizzonte che non puoi oltrepassare.

Il testo cerca di mettere su carta una contraddizione interna all’identità individuale. Da un lato la nostra vita è ripetitiva, seriale, fatta di pratiche e di­scorsi che ci precedono, di forze che ci attraversano e che riconosciamo ne­gli altri. I vestiti che porto, le parole che sto dicendo, le idee che esprimo non sono mie: mi trascendono, mi oltrepassano, sono una tradizione, una re­te o una prigione. Mi definiscono, in senso etimologico: tracciano i con­fi­ni all’interno dei quali io posso diventare io, questa persona. Sono fatto del­la stessa materia che circola in tutti. Uno dei grandi romanzi italiani degli ul­timi dieci anni, Troppi Paradisi di Walter Siti, lo dice con un incipit me­mo­rabile: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti». Essere un nome proprio si­gni­fica non avere alcun privilegio; significa venire al mondo in un pianeta già abitato da altri sei miliardi di individui, ognuno dei quali ha il diritto a una minima differenza e ognuno dei quali, alla fine, è come tutti.

D’altra parte questa vita singolare, che da un certo punto di vista non si di­stingue dalle altre, è anche sempre mia: è l’unico spazio di esistenza dal qua­le non potrò mai evadere se non attraverso l’unico evento che davvero mi riguarda, la mia morte singolare, con cui si conclude l’unico frammento di esistenza che davvero mi riguarda, la mia vita singolare. È una con­trad­di­zione dalla quale non si esce. Per formularla in termini filosofici, visto che la filosofia è uno dei saperi evocati in questo dibattito, potremmo con­trap­porre la posizione di Heidegger a quella di Deleuze. Per Deleuze l’in­di­vi­dualità non esiste: è il prodotto di singolarità impersonali che stanno pri­ma, dopo e dentro l’individualità, e che la dominano interamente. Una posi­zio­ne simile era già in Essere e tempo. Per Heidegger l’essere umano è on­to­logicamente uneigentlich, è ‘improprio’. Noi non ci possediamo: non pos­sediamo la nostra sostanza, tutto ciò che ci forma ci precede, è stato co­struito prima di noi, ci viene trasmesso esattamente come i nostri vestiti, le nostre parole, le nostre idee, le forze che ci fanno essere. E tuttavia questa identità impropria, per Heidegger, è anche l’unica cosa da cui io non potrò mai evadere, l’unica che sarà sempre mia, l’orizzonte che non potrò oltre­pas­sare. La mia esistenza del tutto impropria è anche la mia unica proprietà: su questa contraddizione ontologica si fonda l’esserci degli individui.

Attraverso la poesia, cioè attraverso il genere che negli ultimi due secoli si è definito soprattutto come la forma letteraria dell’individualità, ho pro­va­to a costruire una sorta di autobiografia di un soggetto qualsiasi. Volevo fa­re in modo che fosse davvero l’autobiografia di un io comune; volevo che po­tesse essere fatta propria da chiunque e rappresentare la contraddizione esi­stenziale e filosofica di cui parlavo prima.

I. T. – Questo testo si intitola Esposizione:

prendi un’arancia, prendine un’altra
allinea 365 arance su di un parapetto
365 macchie sul bordo del fiume:

prendi un’arancia, sbucciala a morsi
scoprine il bianco sotto la pelle
macchia di sangue la linea dei denti

prendi un’arancia, apriti un varco
posa la testa sulla pietra del muro:
365 arance dense di luce

Prendo le mosse da una poesia come questa, dove in fondo si parla di un’arancia, o meglio di 3-6-5 arance, 365 arance poste sul parapetto di un fiu­me – la Miljacka che attraversa Sarajevo – perché credo, per connettermi a quanto già diceva Andrea Inglese, che la questione del dire l’individualità non riguardi soltanto il dire gli individui in quanto soggetti, ma anche il di­re le cose, gli oggetti e gli eventi che li riguardano.

In questo caso il dire non è ancora conoscere ma nominare, fissare ricor­sivamente; cercare di mettere nel mirino gli individui attraverso uno degli stru­menti caratteristici dell’espressione poetica: l’anafora. Il prendere ri­battuto che torna a fissare, puntare un oggetto e dirlo. Un oggetto che è uno e plurimo: perché è quell’arancia ma è anche l’altra arancia che segue. Ef­fet­tivamente quando noi diciamo un oggetto, e cerchiamo di coglierlo nella sua individualità, nella sua unicità, ci troviamo già, come in questo caso, a dir­ne una serie. Quindi ci troviamo confrontati inevitabilmente con la que­stione della serialità, per riprendere quanto diceva anche Guido Mazzoni.

La serialità è un problema che, nel confrontarci con gli individui e con gli oggetti, non possiamo evitare. Ma nello stesso tempo dentro la poesia v’è anche la pretesa di dire l’individuale e di afferrarlo nella sua indivi­dua­zio­ne radicale. Nella riflessione interna al fare poetico è stata più volte e da diversi autori richiamata l’idea – e questo è poi uno dei punti su cui, già a partire da Aristotele, nasce la tensione con la filosofia – per cui la poesia avrebbe a che fare, come scriveva Paul Celan, con l’individuazione radicale o anche, seguendo Francis Ponge, con la differenza specifica degli indi­vi­dui.

Come sosteneva Walt Whitman, per richiamare un poeta appartenente a un’altra tradizione, il poeta è l’uomo equanime, che intende dare giustizia alla realtà particolare delle cose.

Quest’idea dell’individuazione radicale, o anche dell’individuazione com­­pleta, esprime un’aspirazione profonda della poesia: un anelito a ren­de­re giustizia alle cose, a dirle nella loro pienezza. Credo che que­st’a­spi­ra­zio­ne della poesia s’intersechi con un tema che in filosofia è stato pensato fin dall’estetica classica, vale a dire con la questione che, con Aristotele, pos­sia­mo chiamare ‘giustizia poetica’: ciò che, per rientrare nella rifles­sio­ne sulla poesia, Wallace Stevens denominava «la giustizia senza nome», e che per Whitman faceva capo al problema di rendere giustizia alla parti­co­larità delle cose. Il dire l’individuale è animato da una tensione che, prima ancora che ad una spinta conoscitiva, fa capo ad un’aspirazione etica a ren­dere giu­stizia alle cose, a dar conto compiutamente della loro individualità nella sua determinazione completa.

La poesia secondo Aristotele ci dice come le cose devono essere, e in questo sarebbe superiore alla storia. Non nel senso che la poesia cerchi di spie­gare o sottomettere le cose a una norma universale astratta. Essa cerca di dire la destinazione, la determinazione interna della cosa, il suo destino. Non è detto che tale pretesa della poesia sia riscattabile. Siamo in presenza di un’aspirazione che costituisce il nucleo utopico dell’espressione poetica.

D’altra parte credo che quest’idea della giustizia poetica da rendere alle co­se, alle persone, agli eventi, abbia a che fare, comunque, con la questione del­la conoscenza. In essa si cela la pretesa che la poesia possa costituire, attraverso questo approssimarsi all’individuale, una forma possibile di co­no­scenza che altre forme espressive, basate per esempio sull’ar­gomen­ta­zio­ne concettuale, come nel caso della filosofia, o magari sulla rappre­sen­ta­zione narrativa, come il romanzo, non sarebbero in grado di afferrare fino in fondo. Ed è per questo che tale aspirazione conoscitiva, ponendosi sul pia­no di un rapporto con la realtà – e con la sua verità – è almeno dal tempo di Platone al centro di un aspro conflitto con il sapere filosofico, il quale avanza una pretesa esclusiva in questo campo.

La possibilità di una conoscenza eventuale dell’individuale, di un indi­vi­dua­le colto non semplicemente come caso particolare di una norma, quale nota caratteristica di un concetto, ma afferrato nella sua ecceità – nell’e­le­mento che non è riportabile a norma ma è da sé norma esemplare – è uno dei punti su cui la poesia, secondo me, sfida il pensiero. E non è detto che questa sfida si possa vincere.

A. I. – Vorrei legarmi un po’ alle cose che sono state dette e poi leggere un te­sto breve, perché mi sembra importante che questo discorso, pur nella sua complessità e ricchezza concettuale, sia accompagnato comunque dalla pa­ro­la poetica, che mette comunque in atto un suo modo di pensare l’in­di­viduale.

Innanzitutto, Guido Mazzoni ha individuato una tensione molto forte tra i diversi generi di scrittura. Da questa discussione emerge che le diverse for­me del pensiero o del discorso – la scrittura filosofica, la scrittura ro­man­zesca, la scrittura poetica – illuminano aspetti diversi di una stessa re­altà e quindi afferrano la questione dell’individualità da punti di vista dif­fe­renti.

Il romanzo è quello che mi sembra corrispondere di più, soprattutto il ro­manzo moderno, alla tematica individuata da Guido quando ricordava que­sta sorta di paradosso: noi siamo degli individui tipici, noi esistiamo al­l’in­terno di meccanismi come le istituzioni che producono abitudini mentali e comportamenti standard; cioè il nostro agire è assolutamente simile, spec­chian­te, rispetto a quello di tante altre persone, e d’altra parte c’è questa spe­cie di rovello, questa ambizione o fantasma che ci induce a dire «no, io ho un nome proprio, un corpo individuale, la mia realtà biografica non può es­sere completamente cancellata dai grandi moti collettivi della storia». E que­sta secondo me è una delle questioni veramente cruciali del grande ro­man­zo moderno, che probabilmente continua a essere molto presente an­co­ra oggi.

Io preciserei questo problema, utilizzando a proposito del romanzo il con­cetto di individualizzazione. Partiamo dal fatto che non c’è nulla, quan­do vengo al mondo, che mi appartenga in proprio e che mi distingua dalla mas­sa di gente ordinaria che compone la società. Se dispongo di privilegi spe­ciali al momento della nascita, ciò non dipende ovviamente da me, ma da altri: la mia famiglia, la mia classe sociale ecc. E tutto il percorso di so­cia­lizzazione iniziale mi spinge a essere simile ai miei simili. Questo è il pun­to di partenza di ogni eroe nel romanzo moderno. Nel corso di una vita egli può ambire a individualizzarsi, cioè a costruire un percorso tale per cui, alla fine della sua vita o a un certo punto di essa, sia in grado di dire: «sì, io non sono semplicemente quello che ha scelto la professione che mamma e papà gli hanno detto di scegliere, sì, io non sono semplicemente quello che ha risposto al desiderio della moglie o del marito di essere in un certo mo­do, sì, io non sono solo quello che ha dovuto assumere il ruolo del genitore e quindi comportarsi in un certo modo come tutti i genitori dovrebbero com­portarsi, io sono anche qualcuno che ad un certo punto riesce ad entrare in conflitto e rompere questa specie di ritmo perfetto, di accordo con l’am­bien­te sociale e familiare». Questa è la questione dell’individualizzazione, e quindi anche della libertà, dell’autonomia… e pertanto qui siamo fon­da­men­talmente centrati sul destino del personaggio e della persona intesi co­me individui moderni.

Sul piano invece della poesia, partiamo dai riferimenti importantissimi che faceva Italo, riferendosi in particolare a Ponge e alla «giustizia delle cose». Ponge è un poeta che dice: abbiamo riempito le biblioteche, a partire da Omero in poi, di storie d’amore, di problemi di relazione tra le persone, ma non sappiamo quasi nulla degli oggetti che ci circondano. Non sappia­mo quasi nulla del sasso, non sappiamo quasi nulla del prato, non sappiamo quasi nulla del sapone. E per tutta la sua vita di scrittore Ponge sarà im­pe­gna­to in questo enorme lavoro, a partire da una delle sue raccolte più celebri, Il partito preso delle cose. Titolo che va letto in questi termini: «io adesso mi cancello, non tanto in quanto autore ma in quanto portatore di sto­rie della specie umana, e mi metto a guardare la straordinaria ed enig­ma­tica ricchezza degli oggetti».

Qui c’è una delle caratteristiche proprie della poesia, che consiste nel ve­dere il mondo come l’assoluto estraneo, come un luogo innanzitutto ino­sp­itale, perché è un luogo altro rispetto alla specie umana. Ciò rende, oggi, poco familiare la visuale poetica, perché noi siamo in una società che vive nella condizione opposta; viviamo in un pianeta che è stato completamente antropizzato, che è stato completamente plasmato a immagine e somiglian­za dell’uomo, almeno in apparenza. In apparenza, perché sappiamo bene che pure l’economia, che dovrebbe essere quella cosa perfettamente con­trol­lata dagli esseri umani, frutto appunto di interazioni razionali fra per­so­ne che vogliono semplicemente vivere in un mondo di benessere crescente, sfugge tuttavia al pieno controllo umano e si ripresenta con l’immagine di una specie di dio greco o di fatum in qualche modo del tutto indipendente dalle volontà individuali.

La poesia, secondo me, continua a fare anche oggi, in questo mondo an­tropizzato, un lavoro di scavo per dire: «ma il mondo, prima che l’uomo ab­bia fatto tutto questo lavoro per ridurlo alla propria immagine e somi­glian­za, cosa diavolo è?». E qui chiudo, riagganciandomi a un tema che ha toc­cato Italo: la questione dell’eticità. Per me la questione dell’eticità non è la que­stione della morale o di essere bravi o cattivi; è la questione della feli­ci­tà. Smettere di dedicarsi semplicemente a se stessi e alle proprie infinite be­ghe biografiche ed entrare dentro quello che è il mondo che ci sta sotto gli oc­chi tutti i giorni ma che raramente è davvero guardato. Ed è quello che Ponge fa, e che ovviamente è una – non l’unica – delle vie che la poesia può seguire. È una pratica che riguarda, in fondo, la salute mentale, l’equi­li­brio umano, le possibilità di felicità della nostra specie: poter guardare il mondo e non semplicemente se stessi. In gioco vi è l’accesso a una pos­si­bi­le felicità. Chiudo con una poesia breve, tratta da un altro libro che si chia­ma La distrazione (2008):

Senza più zampe visibili, rasoterra,
come un rettile, si muove appena
il piccione ferito, l’auto che esce
quasi lo finisce, ma invece
passa solo la coda
sotto il pneumatico.

Rimane vivo per l’ultimo spettacolo:
il guardiano lo prende per un’ala,
lo butta nell’aiola-circo. Lenti,
padroni di se stessi,
nella loro placida crudezza,
due corvi se lo posizionano con cura
sotto i becchi, e scattano a turno
in direzione degli occhi.

G. M. – Negli ul­timi due secoli la forma di vita occidentale ha conosciuto un’evoluzione du­plice. Per un verso l’epoca che chiamiamo moderna ha affermato il diritto al­la singolarità delle persone e delle cose. La singolarità delle persone si ri­flette nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e nella demo­cra­zia formale; la singolarità delle cose si riflette nell’attenzione alla nuda par­ticolarità che è tipica di alcuni discorsi e saperi moderni. Si pensi a quan­to è successo nella letteratura degli ultimi due secoli con l’invenzione di ciò che, criticamente e scolasticamente, si chiama il realismo letterario. Fi­no a una certa data sarebbe stato impensabile, per uno scrittore occi­den­ta­le, descrivere minuziosamente la stanza in cui Renzo e Lucia si ritrovano in un certo capitolo dei Promessi sposi, o raccontare com’era vestito Napo­leo­ne il giorno della battaglia di Austerlitz o di Borodino; a partire da un certa da­ta si afferma invece la democrazia letteraria degli oggetti e degli eventi. Op­pure si pensi allo sviluppo di una forma d’arte come la fotografia, un’ar­te che fissa lo hic et nunc gettato in uno spazio e in un tempo precisi, il det­ta­glio assolutamente irripetibile. Ma se la nostra cultura ha sviluppato il di­rit­to alla singolarità, contemporaneamente ha sviluppato forme di potere so­vra­personali e trascendenti che, di fatto, negano ogni attenzione alla sin­go­larità. Si pensi allo Stato burocratico moderno o ai meccanismi del mercato, che governano le vite individuali senza corrispondere ad alcun soggetto iden­tificabile; si pensi ai micropoteri che agiscono nel quotidiano, alla cre­scita di ciò che Foucault chiama, con parole che sembrano astruse ma che in realtà hanno una concretezza molto visibile, «biopolitica» e «governa­men­ta­lità».

Gli ultimi due secoli, quelli che hanno visto nascere la poesia lirica mo­der­na fondata sul culto dell’io e la fotografia, hanno prodotto anche la stati­sti­ca, cioè un sapere che sottomette gli individui al numero; i secoli della de­mocrazia formale, quelli nei quali ogni individuo, al termine di un lungo pro­cesso politico, conquista il diritto di votare, sono anche i secoli dei pote­ri sovrapersonali e acefali, i secoli della burocrazia e del mercato. Noi vi­via­mo dentro questa contraddizione: cerchiamo di dire l’individualità in un’e­poca che riconosce il diritto di espressione a ciò che a lungo è stato ri­te­nuto l’ineffabile per eccellenza, l’individuo, ma che allo stesso tempo trat­ta gli individui come parti di una serie.

Gli scrittori dovrebbero in teoria stare dalla parte della particolarità, so­prattutto i poeti, che negli ultimi due secoli si sono specializzati nel dare vo­­­ce alla prima persona. La poesia moderna è in gran parte affidata a un per­­sonaggio che dice «io», e questo soggetto coincide con la persona empi­rica che mette la propria firma sulla prima pagina del libro di versi. Ma chi scrive all’inizio del XXI secolo non può non considerare che ciò che all’i­ni­zio dell’Ottocento sembrava una conquista indiscutibile e aproblematica, la singolarità individuale, è diventata un problema. La dialettica fra singolarità e serialità divide la nostra cultura e i nostri saperi. Pensate alla diffusione dei social network. Oggi miliardi di persone sulla Terra hanno una pagina Fa­cebook, iscrivono i fatti propri e i propri pensieri in uno spazio pubblico. Fa­cebook ha democratizzato il diritto romantico all’originalità, ha tra­sfor­ma­to il diario in pubblico in una pratica di massa. Miliardi di persone cer­ca­no di dire la propria singolarità mentre altri miliardi, nella pagina limi­tro­fa, stanno facendo la stessa cosa. C’è qualcosa di intimamente contrad­dit­to­rio nell’idea di un’originalità di massa.

Come si esce dalla contraddizione fra singolarità e serialità? La risposta no­vecentesca classica era affidata alla politica utopica: la costruzione di una nuova società, una società di individui singolari ma pacifici e solidali fra loro. Oggi questa speranza utopica non esiste più. Alla base della forma su­prema della politica moderna, quella che prende corpo durante la Rivo­lu­zione francese, ci sono tre parole – libertà, uguaglianza e fraternità (oggi di­remmo solidarietà). La fraternità è completamente scomparsa dal discorso po­litico moderno; l’uguaglianza sta scomparendo. È rimasta un’idea anar­chica e incontrollata della libertà, cui non corrisponde un’effettiva rifles­sio­ne su ciò che la libertà diventa se non è accompagnata dall’uguaglianza e dal­la solidarietà.

Un tema che è stato introdotto, e che mi interessa molto, è quello dell’a­ni­­malità. Nella poesia che Andrea Inglese ha letto prima vi era una terza for­ma d’individualità, una forma che sta tra quella delle persone e quella del­le cose. La riconosciamo guardando gli animali. Gli animali non sono né no­mi propri né cose: sono esseri viventi senza nome, a meno che non siano uma­nizzati, a meno che non siano animali domestici. Ma normalmente il pic­cione non ha nome, così come non ha nome l’individualità che ho cer­ca­to di cogliere in questa poesia che si intitola Giocatori e che leggo alla fine del mio intervento:

Giocatori

Le domeniche informi lo accolgono bambino –
l’indifferenza degli alberi, il cortile, la manopola
che cerca il campionato mossa dall’infanzia.
Vede l’alone dei giocatori alla parete,
i volti confusi nella macchia dello scotch, l’impronta dove cade
di sera il filo del tungsteno e il pesce nella bolla scura
ancora chiuso nella propria paura
come sabato scorso al luna park. Tutto così unito,
così insieme in un unico
astro straniero –

(Ma quell’occhio perfettamente tondo
che non apre spazi interni, come una copia
dell’occhio reale – e il corpo che sembra una cosa
anche se nuota, anche se scuote
le squame sotto il liquido che il vento
dell’ottovolante increspa quando gira
sulla vasca la pallina da ping-pong. Eppure così vivo,
vivo come noi siamo vivi,
…………………………………….nell’apposito sacchetto).

I. T. – Prima parlavo dell’anelito della poesia a dire l’individuale e di come quest’aspirazione, nella misura in cui avanza un’ipotesi conoscitiva, si pon­ga anche in alternativa rispetto ad altre possibili forme di conoscenza, come quella filosofica, di tipo concettuale. D’altra parte, non sarei del tutto equa­nime nei confronti della tradizione filosofica se mi limitassi a questo; devo anche ricordare un movimento che noi vediamo nella filosofia, per lo meno post-hegeliana, e cioè il tentativo di approssimarsi all’esistenza singolare.

Guido Mazzoni prima citava Heidegger. Ma è almeno da Kierkegaard che inizia questo movimento di approssimazione alla singolarità, condu­cen­do sino al tentativo, da parte di Adorno, di porre come obiettivo della filo­so­fia la nominazione e la conoscenza del non-identico: l’elemento che non si lascia irreggimentare dal concetto e sfugge all’identità astratta, all’uni­ver­­sale che cancella le differenze.

Qui si avverte una dialettica interna alla stessa espressione filosofica, che senz’altro lotta contro i limiti della concettualità. Anche un filosofo co­me Wittgenstein, in fondo, su questo ha molto lottato con se stesso, con la tra­dizione da cui veniva. Però, e questo si avverte in pensatori come Niet­zsche, Adorno, Wittgenstein, per quanto l’espressione filosofica cerchi di am­pliare il tradizionale campo e focus del suo discorso, e quindi di rompere la trama concettuale, essa non può farlo se non attraverso i concetti: può cer­care di rompere l’imperio del concetto attraverso il concetto e ciò che le­ga i concetti stessi. E dunque può semplicemente spostare un attimo i limiti. Può per esempio, come hanno fatto autori come Nietzsche e Derrida, in­tro­durre delle innovazioni sintattiche, usare una sintassi meno argomentativa e più indeterminata. E tuttavia credo che questo non rimanga il centro del di­scor­so filosofico, che è costituito piuttosto dal registro assertorio e propo­si­zionale.

Per connettermi più direttamente a quanto dicevano Guido e Andrea, se nel­la forma espressiva concettuale argomentativa della filosofia – pur con le sue variazioni – vi è comunque un tentativo, dall’interno, di smantellare se stessa e quindi di andare oltre i propri limiti, bisogna anche dire che l’a­spi­razione della poesia a dire l’individualità, la centratura della poesia sul­l’in­dividuale, conosce un paradosso, che è legato secondo me anche al fatto che la poesia è insieme quantità e qualità.

Prima Guido parlava della biopolitica, vale a dire di quell’insieme di tec­niche, strategie, ma anche saperi che, in particolar modo nella moder­ni­tà, sono diventati sempre più forme di governo dei corpi attraverso la loro iden­tificazione, quindi attraverso l’elaborazione non solo di tecniche di con­trollo, ma anche di forme di sapere che cercano di qualificarli, trattarli a par­tire dai loro tratti peculiari. Ebbene, la modernità è un esperimento bio­po­litico, e la biopolitica è molto legata allo sviluppo di saperi biometrici, cioè di forme di misurazione della vita, in cui sempre più si tende a quanti­fi­care la vita a partire dalla corporeità, riducendo a dati misurabili proprio quei tratti che sono fisiologicamente irripetibili. Pensiamo al tracciato del­l’i­ride, all’impronta digitale, alla voce. Oggi c’è tutta una serie di tec­no­lo­gie del controllo, legate a forme di saperi, che quantificano, se vogliamo, l’e­lemento qualitativo.

Dico questo perché, per andare al cuore del pa­ra­dos­so che voglio mette­re a nudo, la poesia è essa stessa in un certo senso una tec­nica biometrica, in­clude elementi di quantificazione, di misurazione, an­che se in un modo che essa spera di invertire. A questo proposito vorrei leg­gere un testo tratto da un libro che s’in­ti­to­la appunto Biometrie.

questo, che tu vedi, corpo che giace
tra due corpi, questo sono io, che tu
vedi, non importa come il corpo
si muova, dove abbia luogo la scena
come ombra nel vano degli occhi
come scena sul linoleum verde

questo, è un corpo che cede, opaco
s’adegua alla pressione degli arti,
s’inoltra nella cecità terrestre,

questo, riflesso in sillabe è il mio volto
su cui si alternano, sconnesse, altre
membra, a due a due deformano

l’impronta, il bordo che ti contiene,
questi due corpi, che tu ora vedi,
da entrambi i lati con moti divergenti,

freddi lambiscono i confini, i profili
svuotano di me, ammasso di vene
irretito nel battito sordo degli arti,

cono deforme che sul linoleum
striscia, intaglia ombre alle pareti
percorse da carne bianca e remota.

Biometrica: la possibilità di misurare la vita, di scandirla attraverso una tec­nica di identificazione peculiare quale la poesia, che in un certo senso è essa stessa una forma di biopotere, ma che si propone come debole contro­po­tere rispetto alla forme politiche e sociali di controllo biometrico dell’in­di­vidualità. La poesia è un tentativo di andare dalla quantità alla qualità, e non dalla qualità alla quantità: in questo senso essa è il tentativo utopico di invertire la direzione sociale del biopotere, che invece tende a ridurre la qua­lità a quantità per poterla controllare meglio.

Ricordiamo che nella poesia moderna, in particolar modo quella italia­na, esiste una scansione metrica che tende a quantificare il numero di sil­la­be nel modo di articolare il discorso. La poesia, che pur vuole dire l’in­di­vi­duale dal suo interno, deve confrontarsi con il mondo della quantità, deve mi­surarsi con l’elemento seriale, deve fare i conti, come sosteneva Wystan Hugh Auden, con la questione della massa. Della massa fisica e della folla.

La poesia si pone certo, scriveva Auden, dal punto di vista della «vergine», e cioè dell’elemento singolare e assolutamente qualitativo. E tut­tavia il suo sforzo non è quello di «dire la vergine», l’elemento singolare, nel­l’oblio della «dinamica», della «massa», vale a dire, nell’oblio della di­mensione quantitativa: la poesia è piuttosto uno sforzo di pensare la qualità nella quantità. Ho fatto riferimento a un saggio di Auden che si chiama La Ver­gine e la Dinamica, titolo molto strano e bizzarro ma che, secondo me, tocca un problema centrale, che è quello del rapporto, appunto, fra la di­men­­sione quantificabile dell’esistenza, di cui si occupano la scienza mo­der­na, un certo sapere filosofico positivista e le tecniche sociali del biopotere, e la dimensione qualitativa, che è quella cui la poesia aspira.

Ma Auden complica il discorso e dice che la poesia vuole pensare la qua­lità nella quantità: vuole pensare il mondo della necessità come il mon­do della libertà. Chiaramente questo compito ha un peso enorme, parados­sa­le, tuttavia rientra nelle possibilità espressive della poesia. La poesia, in questo senso, può a mio avviso avere delle limitazioni rispetto al romanzo, che cerca di dire effettivamente tutto e mette in campo tutti i possibili mez­zi espressivi. E tuttavia la poesia non è aliena dalla capacità di dire le quan­tità, di dire le merci, di dire le cose infime: però cerca di dirle senza mai di­menticare la questione dell’aspirazione all’individuale.

Mi piace ricordare che Auden, sempre in questo saggio, diceva che, in de­­finitiva, la poesia cerca di pensare insieme la dinamica e la vergine, cioè cerca di pensare la massa come una società di persone e di individui. La poe­sia non è aliena da quell’utopia politica che, pur non essendo posta in primo piano all’interno della nostra società – come diceva Guido Mazzoni, l’idea di una società solidale – è tuttavia indispensabile per comprendere mol­te delle cose che noi diciamo e facciamo. E quindi il fatto che non sia più l’ideale politico direttivo della società, non significa che non rimanga co­­me controcanto in molti dei nostri discorsi e anche come loro condizione di senso. L’individuazione radicale cui la poesia tende è l’utopia di un le­ga­me solidale tra individui, in un senso allargato del termine, che includa le per­sone, gli animali e le cose.

 Intervento dal pubblicoLa domanda sull’individualità non è forse in ul­tima istanza la questione del senso, del significato ultimo dell’esistenza? E qual è il rapporto fra l’utopia poetica dell’individuale e le utopie poli­ti­che?

 A. I. – Un’attività come quella della scrittura letteraria, e di quella poetica in particolare, è andata a occupare un punto di vista, sull’essere umano e sulla vita, che è stato per secoli quello della religione. Oggi, le domande «chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?» nessuno se le fa; nel senso che le domande ordinarie sono focalizzate sul presente, sul domani. Si ri­vol­­gono al nostro lavoro, alle cose che abbiamo costruito, ai beni che ab­bia­mo ecc. I politici al massimo arrivano al dopodomani. Ovviamente la re­ligione esiste ancora per rispondere al tipo di domanda sopracitato. La re­li­gione formulava le domande «chi siamo? da dove veniamo? dove an­dia­mo?» e contemporaneamente dava ad esse un certo tipo di risposta. La poe­sia non ha assolutamente risposte, ma si fa scuotere da quel tipo di doman­da.

Per quanto riguarda il riferimento alle utopie politiche, credo che la poe­sia ci aiuti a vedere innanzitutto che la vita è anche altro rispetto alle nostre ordinarie preoccupazioni. Che non c’è solo la merce. Che esistono espe­rien­ze che non devono essere per forza rare e sofisticate, pur essendo inten­sissime, potentissime; esperienze che poi si rivelano essere molto vicine a noi. Che c’è un’enorme ricchezza nella vita ordinaria, anche in quella ap­pa­ren­temente più banale. Che la biopolitica ha distrutto tutta una serie di an­tenne, per darcene delle altre. Quindi noi non riceviamo più da alcune an­ten­ne che sono democraticamente legate ai nostri corpi, alla nostra costi­tu­tiva corporeità, e dobbiamo andare quotidianamente a comprare, a farci ce­de­re, a certe condizioni, altre antenne, con cui vedere determinate cose. Ec­co, io lavoro a ricostruire con la mia poesia delle mie antenne, a partire dal mio corpo.

G. M. – In una delle sue pagine più famose Nietzsche definisce il nichi­lismo come la disposizione spirituale della nostra epoca. Il nichilismo co­min­cia laddove si perde la capacità di rispondere alla domanda «perché?», «a che scopo?». Le religioni storiche avevano delle risposte; le utopie poli­ti­che moderne hanno cercato di offrire sostituti laici alle risposte religiose. Oggi attraversiamo uno spazio storico nel quale la domanda sul senso delle cose può essere solo differita o ricevere risposte individuali. Se però arrivo a chiedermi «perché?», se arrivo a porre il problema generale, non posso più accettare una risposta che valga solo per colui che formula la domanda. Fino a quando non ottengo questa risposta universale avrò l’impressione, an­zi la certezza, di aver costruito un senso che è solo mio, e che scomparirà con la mia scomparsa, o con la scomparsa delle persone nelle quali mi rico­no­sco. Ciò che diceva Andrea Inglese è vero: da alcuni secoli a questa par­te, alla letteratura si chiede di prendere il posto che a lungo è stato occupato dalle religioni come istituzioni, cioè dagli insiemi di pratiche e di discorsi che rispondevano alle domande sul senso della vita. Fino a una certa data la letteratura si è assunta questo compito; a partire da una certa data, gli scrit­to­­ri sono diventati degli osservatori, dei sismografi. Oggi non sono più in gra­do di rispondere alle domande di senso.

Ciò che faccio, come scrittore, è rendere conto della domanda e mo­stra­re che non abbiamo una risposta. Ma vorrei anche mostrare che le domande frontali hanno qualcosa di irrealistico al proprio interno, proprio perché pre­tendono di essere frontali, profonde, mentre la nostra vita è ontolo­gica­men­te superficiale. Siamo esseri miopi: vediamo cos’accadrà nelle prossime due ore, nella prossima giornata, nel prossimo mese; il nostro progetto di vi­ta arriva al prossimo anno o ai prossimi cinque anni, ma non riusciamo a vi­vere frontalmente il problema del senso ultimo; ci accontentiamo dei si­gni­ficati transitori che le nostre giornate hanno. Perché le nostre giornate han­no comunque un piccolo significato locale: essere qui con voi, poter leg­gere le mie poesie davanti a un pubblico, occuparmi delle cose che mi in­teressano, ottenere un riconoscimento: questi sono i significati che danno un senso temporaneo al giorno che sto vivendo.

Molti di noi non hanno fede. Molti di noi non hanno più o non hanno avu­to mai una fede politica utopica che sostituisse una religione: siamo nati troppo tardi per averla. Siamo abituati a costruire dei piccoli significati lo­cali e a mettere nel cono della nostra miopia le grandi domande verticali. Ciò può bastare solo fino a quando si rimane in una condizione pre­ri­fles­siva; ma una volta che le grandi domande sono state formulate, non c’è più una vera miopia e non c’è risposta. E tuttavia, nella pratica, noi ci accon­ten­tiamo delle nostre risposte momentanee, altrimenti non potremmo vivere. È il tema leopardiano delle illusioni. Etimologicamente, la «illusione» è la ca­pa­cità di stare al gioco. Vivere significa stare al gioco, nel proprio mondo, tra i propri dada.

I. T. – Voglio prendere le mosse anch’io dalla questione del senso, par­tendo questa volta non dal punto di vista poetico, ma dalla riflessione filo­sofica, che in questo credo sia in sintonia con la condizione di partenza del­la poesia. Nel pensiero moderno, almeno dalla fine del Settecento, è iniziata una nuova consapevolezza che è stata detta in diversi modi con parole quali «nichilismo» e «scissione». Si tratta della presa d’atto che il senso non è da­to. Noi partiamo da una condizione in cui iniziamo ad articolare i nostri di­scorsi, a porci delle domande: non dobbiamo presupporre che vi sia un in­sieme sensato, pregno di senso. Hegel chiamava questa situazione Ent­zweiung, scissione, o anche, in Fede e sapere, «morte di Dio»: espressione che, al di là del significato teologico, sta ad indicare uno stato di rottura, a par­tire dal quale si tratta poi di cercare di ricostruire un senso dello stare al mondo, del fare esperienza.

Questa cosa si è radicalizzata in seguito e in effetti credo che la con­di­zio­ne del non essere dato del senso sia stata afferrata plasticamente da au­to­ri quali Benjamin e Adorno. Essi dicevano che la stessa interpretazione filo­sofica del mondo dovrebbe partire dall’idea che la realtà ci si dia come un in­sieme di frammenti, o torsi, non già dotati di senso, ma che al limite pre­sen­tano delle tracce quasi allegoriche che ci rinviano e che ci chiamano a uno sforzo d’interpretazione e anche di rottura del loro carattere inerziale.

Credo che questa sia una condizione di partenza comune alla grande fi­losofia del Novecento e alla grande esperienza poetica: non possiamo tro­vare il senso già dato, ma nel nostro piccolo – e in questo senso il Candide di Voltaire rimane un manuale di sopravvivenza – dobbiamo cercare di co­struire qualcosa e di dare un nome ad un’aspirazione che, come l’anelito a di­re l’individualità, è sempre un desiderio di felicità. Se questa strana spe­cie di biopolitica delle parole, dei discorsi letterari, serve a qualcosa, è a di­re che la nostra aspirazione alla felicità è qualcosa di cui non dobbiamo di­menticarci: qualcosa che possiamo opporre rispetto a quei discorsi che in­ve­ce tendono a racchiuderci, a limitarci, a privarci di un linguaggio che ec­ceda lo hic et nunc.

Intervento dal pubblico Vorrei riprendere il discorso di Mazzoni sul fat­to che una certa fase storica è superata. Voi ne avete fatto una questione ge­nerazionale. Davvero è successo qualcosa per cui quel tipo di aspira­zio­ne è stato smentito ed è stato superato oppure è sempre esistito nella forma dell’aspirazione? Il fatto che avesse tanto rilievo per le coscienze nelle que­stioni politiche, non ha significato che la storia si sia effettivamente sviluppata secondo questi giudizi. Questi due termini intrecciati – gli in­dividui che si affermano nella solidarietà – secondo me sono esistiti sempre come controcanto e resistono tuttora in questa forma e hanno senso e con­tinuano a fornire, probabilmente, una risposta alla ricerca di senso. In un certo modo, questo ci mette al riparo dal sentimento della delusione.

AI. – Prendiamo per esempio le utopie di una società egualitaria: da quan­do il mondo esiste ci sono sempre state società che hanno sacrificato una mag­gioranza di persone a fare una vita di merda. Lo scopo di tutte le grandi utopie sociali, a partire dall’utopia del cristia­ne­simo, fino a quella che a noi interessa storicamente perché è stata la più importante, chiamiamola l’u­topia del comunismo, è stato quello di tentare di risolvere questo problema: il comunismo si è chiesto come diavolo poter or­ganizzare una società in cui la maggioranza delle persone non sia desti­na­ta a fare una vita schifosa. Però questa cosa non si è dissolta nel nulla, c’è sta­to un secolo in cui abbiamo avuto dei regimi comunisti, dei regimi ispi­ra­ti al comunismo, dei regimi so­cial­democratici; abbiamo avuto tutta una se­rie di vicende con esiti estre­ma­mente tragici, alcuni disastrosi, alcuni cri­mi­nali ecc. C’è un trauma for­tis­simo, storico, che fa sì che non si possa re­iniziare come se niente fosse. C’è una serie di questioni enormi in gioco, a par­tire da quell’esigenza utopica. C’è una cosa però che nessuno di voi ha sollevato e che secondo me cambia completamente la questione. C’è un da­to completamente nuovo che non era nella tradizione del pensiero socia­li­sta: la questione della Terra, di un terzo elemento che entra in gioco quando ci chiediamo come possiamo fare una so­cietà che non solo sia egualitaria, ma che non si distrugga nel corso di un secolo. Questo tema è emerso in tem­pi recenti.

G. M. – È probabile che il discorso palingenetico associato alle utopie po­li­ti­che moderne sia irrealistico e sostitutivo della religione: forse è sempre sta­to così. È molto probabile che le grandi contraddizioni ontologiche (la mor­te, la distanza tra l’io e gli altri, il tempo che distrugge tutto) non avreb­bero potuto trovare una soluzione attraverso la politica. È probabile che l’im­magine enfatica della grande politica che abbiamo noi, nati tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta e cresciuti negli anni ottanta, quan­­do la grande politica era scomparsa, sia irrealistica e nostalgica. È pro­babile che su questo fantasma si proiettino delle speranze palingenetiche sen­za fondamento.

Ciò detto, la politica utopica moderna ha prodotto eventi reali, ha co­involto miliardi di persone, ha cambiato la storia, dividendo il pianeta in due per oltre settant’anni. Da questo conflitto è uscito vincitore un modello di vita, la American way of life, fondato sull’individualismo, sulla creazione di una piccola sfera di benessere e di autonomia soggettiva attorno alle sin­gole persone e famiglie. Si può discutere se sia una vera autonomia, ma è in­negabile che gli individui la percepiscano come tale. Ed è altrettanto in­ne­gabile che oggi non esista un’alternativa: nessuno di noi rimpiange il so­cia­lismo reale. D’altra parte la American way of life si fonda su una vio­len­za sistemica che normalmente passa impercepita. Molto di quello che ab­bia­mo addosso qui e ora, per esempio, è costruito in condizioni di semi-schia­vitù da una manodopera senza tutele in paesi del Sudest asiatico; la no­stra relativa e residuale ricchezza nasce da un rapporto di potere che ten­diamo a non percepire. La nostra forma di vita – la stessa che non dà più ri­sposte alle domande «perché?», «a che scopo?» – si sta allontanando da qual­siasi forma di solidarietà reale che possa rendere l’indifferenza mona­di­ca degli uni agli altri meno intollerabile di quanto sia adesso. Vediamo i li­miti di questo modello, ma non abbiamo un progetto politico alternativo. Non soltanto non lo abbiamo fuori di noi, come movimento reale che abo­li­sce lo stato di cose presente, ma non lo abbiamo neanche dentro di noi, co­me desiderio radicato. È questa la seconda contraddizione tragica alla quale dobbiamo guardare. Prima si diceva che lo scrittore, pur avendo assunto il ruolo un tempo occupato dalle religioni istituzionali, non ha il compito di da­re risposte se non le ha. Ciò che può fare è esibire la contraddizione: «com­pito di uno scrittore», diceva Čechov, «non è dare risposte alle do­man­de, ma porre le domande». Il compito degli scrittori è rimasto quello di cui parlava Čechov. È poco, mi rendo conto, ma in una certa misura è tutto ciò che possiamo fare: gettare una luce radente sulle cose sperando che da questa contraddizione additata, messa su carta, resa più visibile, nasca un’e­ner­gia politica. Quello che possiamo fare è dire la verità.

I. T. – Pensare la contraddizione non è fotografarla: è piuttosto un elemento di un gioco di forze, una mossa che crea già sempre uno spostamento, uno slit­tamento di senso. Per tornare al rapporto fra politica, utopia e letteratura, pos­siamo forse inquadrare quanto è accaduto come un esaurimento della tensione utopica della politica. Ma questo implica anche realizzare che ef­fet­tivamente la stessa dimensione utopica si disloca rispetto al politico: il po­litico non la esaurisce. Nel pensare questo tipo di contraddizioni, noi in un certo senso vediamo sì una realtà dura e punitiva, però dobbiamo anche da­re credito alla nostra aspirazione, renderci conto di come in effetti vi sia an­che qualcosa di ulteriore. Vi era anche dell’altro, qualcosa che la po­li­ti­ciz­zazione delle aspirazioni utopiche poteva anche cancellare. L’idea che la poesia abbia a che fare, come diceva Stevens, con una giustizia senza no­me, ci ricorda che vi sono altre sfere della giustizia che pro­ba­bil­mente, con­centrandoci sul modo già dato di dare nome alla giustizia uma­na, noi ten­de­vamo a dimenticare o addirittura a non percepire neppure. Dun­que, non dob­biamo restare intrappolati nella disillusione. Il fatto stesso che una certa progettualità politica sia crollata è anche liberatorio e non chiude la partita con l’utopia: non chiude la partita con l’individualità; non chiude la partita con la solidarietà. C’è una giustizia non solo intergenerazionale, ma anche in­terspecifica, che ha a che fare con il nostro rapporto con gli altri animali viventi e che, concentrandoci unicamente solo sulla dimensione po­litica, ten­diamo a perdere di vista. C’è poi una giustizia che ha a che fare con il no­stro rapporto con l’ambiente e con le cose. E vi sono altre sfere del­la giu­stizia che ancora non siamo in grado di percepire e immaginare. La poesia, la letteratura in generale e anche la filosofia – perché in fondo il fi­ne di ogni metafisica è utopico – ci ricordano che la giustizia è sempre in un cer­to senso da rinominare: è sempre senza nome, nel senso che noi non ne co­no­sciamo già perfettamente i confini e dobbiamo guardare anche altrove ri­spetto alle tracce precedentemente battute. Riflettere sull’in­divi­dua­lità, ri­per­correre il modo in cui varie forme di saperi e tradizioni si muo­vono in­torno ad essa, è anche un modo per ricordarci i nostri limiti e dare no­me al­le aspirazioni che nutriamo.

[Immagine:Thomas Ruff, Ritratti (gm)].

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