di Antonio Bibbò
Ospite al Daily Show di Jon Stewart, Richard Linklater ha svelato forse il segreto della naturalezza di un film come Boyhood. Quando il conduttore del programma satirico gli ha chiesto se il film avesse in qualche modo condizionato la vita degli attori, che per almeno dodici anni della loro vita sono stati “sotto i riflettori”, lui gli ha spiegato che, no, non era stato così, perché di solito la pressione (dei media, della famiglia, dei colleghi) è forte soprattutto perché si ha una scadenza vicina, un’uscita in sala che rende tutto più teso e importante. Questo, in Boyhood, è mancato per oltre dieci anni e gli attori e la troupe si incontravano quasi ogni estate per girare qualche spezzone della vita di un teenager americano e della famiglia (allargata e spezzettata) che gli sta intorno, «quasi come se si trattasse di una colonia estiva». Ci sono voluti circa dodici anni, infatti, per girare Boyhood: il film è incentrato sulla vita di Mason Jr., figlio di genitori separati (Patricia Arquette e Ethan Hawke) e fratello di Samantha (Lorelei Linklater), dai sei anni al primo giorno di college; è stato girato in tempo reale, impiegando sempre gli stessi attori, e ne ha seguito le (talvolta sorprendenti) evoluzioni fisiche e sentimentali con una naturalezza sottilmente ingannevole, ma mai esagerata al punto da fingere di avere come oggetto una realtà documentaria. Sullo sfondo gli Stati Uniti cambiano ma non troppo: l’attenzione sembra incentrata (ma senza indulgervi in maniera eccessiva) sui mutamenti della moda e della tecnologia più che su quelli della politica, e Linklater ha ragione nel dire che fare questo film è stato come girare un period drama contemporaneo, chiedendosi in ogni momento come il presente sarebbe sembrato dopo un certo numero di anni. Nonostante faccia venire in mente film simili girati con materiale d’archivio (personale o meno) in cui i personaggi invecchiano davvero perché le immagini vengono girate effettivamente in momenti diversi della loro vita (Alina Marazzi, Jonathan Caouette per fare solo due nomi), Boyhood non prova mai del tutto a presentarsi come un documentario (non lo è, le storie sono “inventate”) ma rimane ancorato ai registri della fiction, sia nella composizione delle singole sequenze (ognuna dedicata a un’età e tutto sommato autoconclusive) sia nel senso di progressione che c’è nella storia, priva di teleologia ma non di direzione. E però gli attori (soprattutto i più giovani) pur dando l’impressione di mimare il se stesso della vita vera, con dialoghi che sembrano per lo più improvvisati, di volta in volta anodini o eccessivamente significativi–un pomeriggio come un altro al bowling, da un lato, o le riflessioni filosofiche di un teenager in un viaggio in macchina verso il college, dall’altro–, creano nello spettatore un continuo corto circuito. L’impressione di verosimiglianza è aumentata rispetto ai film in cui gli attori invecchiano grazie al trucco, eppure non si sta seguendo una storia vera: si ha perciò come l’impressione, spesso, di trovarsi davanti a una serie televisiva vista con l’avanti veloce. Questo sembra dovuto non solo alla scelta (coraggiosa e perfino rischiosa) di impiegare gli stessi attori per un periodo così lungo, quanto all’andamento e al ritmo della narrazione stessa. Avere un paio di settimane all’anno per girare e un anno per pensarci, tagliare, montare, è il sogno di ogni regista, di solito obbligato dai tempi degli studi cinematografici a fare tutto di corsa per il lancio del film, ma al tempo stesso le contrainte dell’eterno presente in cui vivono i personaggi e i loro interpreti sembrano comunque obbligare Linklater a cogliere alcuni snodi (della crescita, della vita familiare) prima che siano passati, in modo da presentare una narrazione in qualche modo significativa allo spettatore. Anche qui c’è una continua tensione, tra i momenti più soporiferi e comuni e quelli accelerati di crescita: una diacronia di sincronie nella quale Linklater si dimostra bravissimo a seguire la passione tiepida della vita di ognuno.
La corsa irreversibile della vita di un adolescente dall’infanzia ai primi momenti della maturità: in questo senso, potrebbe sembrare un film nostalgico, Boyhood, ma le risate in sala sono molto frequenti e quasi mai amare. La nostalgia è soprattutto una passione indotta, non (troppo) rappresentata. Come nella (volutamente) insipida battuta finale di Mason Jr., “si è sempre nel presente”. Il film conserva questo dei film-documentario (auto)biografici ai quali si faceva riferimento prima: la confusione continua tra la storia direzionata verso una conclusione e la cronaca delle infinite possibilità del presente e del loro assottigliarsi e dipanarsi continuo; la cronaca di un movimento di continue aperture e chiusure che mantiene la tensione del film sempre alta pur in una narrazione essenzialmente destrutturata in cui molti vuoti informativi devono essere continuamente colmati dal pubblico. Un esempio: il terzo marito della madre, un ex soldato americano apparentemente affidabile e gentile, parla con il padre di Mason della sua passione per la fotografia e della sua voglia di trasformare una stanzetta della casa in una camera oscura. In una delle scene successive vediamo Mason all’interno di una camera oscura e chiaramente immaginiamo che si tratti di quella di cui si parlava prima. Qualche minuto dopo si capisce che si tratta di quella della scuola ed è (forse) il primo indizio che il rapporto con il nuovo patrigno non sia così sereno, ma sarà solo molto più tardi che assisteremo al primo vero scontro tra i due. È attraverso indizi del genere, rimandi di volta in volta più o meno disattesi, che si dipana la narrazione del film. Mantenere l’attenzione su un solo protagonista di certo aiuta, anche se Linklater sembra accennare agli assunti narrativi di film corali passati come Slacker (1991) e suggerisce possibili aperture ad altri punti di vista interni, allude alle “caverne” (secondo la celebre espressione di Virginia Woolf) da scavare dietro ogni personaggio. Non c’è quasi scena, tuttavia, che non sia raccontata dal punto di vista di Mason Jr., il che fa anche perdonare apparenti sbavature e semplificazioni, giustifica in qualche modo, come se si trattasse di un discorso indiretto libero cinematografico, le banalità alle quali si accennava prima e l’apparente ordine e aproblematicità in cui sembrano incasellate le storie dei personaggi di contorno: i continui cambiamenti del nucleo familiare (tutti i mariti e le case e i lavori) sono solo in parte la storia di Mason e in questo senso è comprensibile che abbiano uno spazio limitato e che tutto sembri “aggiustarsi” alla fine, che, nonostante la quasi comica ripetitività dei divorzi e dei mariti della madre e i periodici traslochi, nessuna grossa sorpresa devii il percorso della vita di Mason Jr, nessun punto troppo buio, né gioie e successi eccessivi. In questo il film è figlio di un certo realismo modernista: sceglie una vita più o meno media e la segue senza apparenti ingerenze, pronto a esplorarne i vicoli ciechi (“why don’t you start a band?”) così come le strade più lunghe che portano al futuro, come la passione per la fotografia. E con la teleologia manca anche una ricerca del senso e la narrazione, nelle sequenze finali, si fa via via più sottilmente nichilista, nel senso di vuoto della madre dopo la partenza dei figli per il college così come in quello, imbarazzato, di Mason nei canyon delle scene conclusive. La vita senza costrizioni, senza limitazioni, di cui Mason parla con Shena (la prima ragazza “seria”) a una festa è confinante con il vuoto assiologico e con l’assenza di motivazioni cui fa da correlativo oggettivo la voce monocorde dello stesso Mason e il film finisce perciò per rappresentare “ciò che accade” senza tregua (“From the day I was born, I started to grow old” dice una canzone dedicata a Mason verso la fine), e raccontare la cronaca lenta ma significativa dell’adolescenza.
[Immagine: Ellar Coltrane in Boyhood di Richard Linklater (dbr)].
bel film e bella recensione. grazie