di Luca Illetterati
Filosofia e musica si rincorrono, diceva un vecchio professore che insegnava magnificamente filosofia e avrebbe voluto invece passare tutto il suo tempo ad ascoltare e a pensare la musica.
Il tentativo filosofico di svelare l’indicibile, di andare oltre la dimensione ordinaria del discorso, di indicare ciò che può essere davvero portato a parola e ciò che non può essere invece detto, ma magari solo mostrato o indicato, appare in effetti come una sorta di sfida che la ragione concettuale intrattiene con quella forma peculiare di pensiero che è la musica, con quella produzione di senso, mai riducibile a categoria intellettuale, che è la musica.
Altrettanto la musica nelle sue forme più profonde e articolate tenta sempre di liberarsi della propria riduzione a sfondo, a ornamento o a svago, per mostrarsi piuttosto, attraverso la geometria dei suoni e le aritmetiche dei silenzi, come significato, come concetto in forma di suono, come pensiero di ciò che non può essere semplicemente articolato nella forma del discorso. E se questo carattere attraversa tutta la grande tradizione musicale, esso si fa evidente nel momento in cui l’epoca moderna, a partire dal XIX secolo, si fa pensiero di sé, si fa cioè autoriflessione e cerca di portare a evidenza le fratture e le lacerazioni che la attraversano, fino a diventare, nel XX secolo, esperienza esplicita del dolore, della perdita, dello straniamento, dell’impossibilità di dire, dentro una qualche forma di ordine rassicurante, l’esperienza che l’uomo fa di se stesso e del mondo.
Viene da pensare al rapporto fra filosofia e musica leggendo questo piccolo e prezioso libro di Mario Brunello, Silenzio, inserito da il Mulino nella collana ‘Parole controtempo’. Viene da pensarci perché se c’è un luogo nel quale musica e filosofia si incontrano nell’esperienza novecentesca da cui proveniamo, questo luogo è forse proprio quello dischiuso dall’esperienza del silenzio. Non è forse un caso, in questa prospettiva, che i due pensatori che sicuramente più di altri hanno segnato in modo indelebile l’esperienza filosofica del Novecento, e cioè Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein, si rivolgano al termine dei loro rispettivi capolavori – Essere e tempo, del 1927, e il Tractatus logico-philosophicus, del 1921 – a una dimensione che pone al centro proprio il silenzio. Per Heidegger la possibilità del passaggio dalla dimensione inautentica nella quale ciascuno di noi è gettato a vivere, alla dimensione autentica, alla dimensione, cioè, nella quale l’esistenza si fa pienamente consapevole del proprio essere finito e assume dunque – attraverso la decisione – la morte come costituente del proprio esserci, passa attraverso quella che egli chiama la chiamata della coscienza: una chiamata che parla nel silenzio, che non dice nulla, che non dà nessuna indicazione o prescrizione, nessun permesso e nessun divieto, ma che attraverso una voce silente consente all’esistenza che si è messa in ascolto di uscire dalla dimensione alienata ed espropriante dell’appiattimento collettivo e di guardare in faccia il proprio essere per quello che è. Altrettanto la proposizione conclusiva del Tractatus – di ciò di cui non si può parlare si deve tacere – non è semplicemente un ‘altolà’ alle pretese fagocitanti del pensiero, non è solo un segnale di pericolo come quello che si trova ai bordi dei precipizi, che ci dice che se ci sporgiamo troppo rischiamo di cadere nel nulla dell’insensatezza, quanto piuttosto l’indicazione di un limite costitutivo che è dato al linguaggio inteso innanzitutto come pensiero verbale, l’esplicitazione, cioè, dell’impossibilità di tradurre tutto ciò che fa parte della nostra esperienza del mondo all’interno della grammatica e della sintassi del discorso e della parola. Perché ciò su cui si deve tacere, secondo Wittgenstein, non è affatto il superfluo, l’ininfluente, l’accessorio: il silenzio lo si deve semmai, secondo Wittgenstein, proprio a quella sfera dell’esistenza che è quella che per noi è forse la più essenziale, certamente quella a cui teniamo di più; ovvero, ad esempio, alle questioni etiche relative al bene e al male, al giusto e all’ingiusto, alle questioni estetiche, relative alla bellezza, o in generale all’esperienza di senso che è legata alla dimensione dell’opera d’arte, oppure, ancora, al mondo del sacro e della fede. Di tutto questo, secondo Wittgenstein, non si può fare davvero parola, in quanto queste esperienze in qualche modo sfuggono alla logica del discorso. Per Wittgenstein questo tipo di esperienze appartengono al ‘mistico’, ovvero possono essere mostrate, indicate, vissute, ma non imbrigliate dentro la grammatica che è condizione di senso del nostro discorrere.
Questa centralità del silenzio, rimessa poi in parte in discussione sia dal cosiddetto secondo Wittgenstein – quello delle Ricerche filosofiche – come anche dal cosiddetto secondo Heidegger – quello del cosiddetto pensiero poetante – è l’espressione di un’urgenza che è bene messa in luce da Brunello in relazione alla musica: “cercare il silenzio – scrive infatti Brunello – dare spazio al silenzio nell’arte, nella musica, aiuta a concentrarsi sul senso profondo della vita in generale e distoglie l’attenzione dall’esigenza dell’uomo di fare della sua centralità, anche nell’arte, il fine di ogni atto creativo” (58-59).
Il silenzio è in qualche modo l’esperienza attraverso la quale il soggetto cerca di desoggetivizzarsi, di pensarsi fuori da una dimensione di sostegno e fondamento nei confronti della realtà, di cogliersi dentro una rete di nessi da cui riceve senso, senza per questo pretendere di essere l’alfa e l’omega di ogni senso possibile.
Il pericolo di qualsiasi discorso sul silenzio è una retorica della debolezza e della fragilità che rischia sempre di farsi alibi rispetto a un modo, alla fine, ancora una volta, soggettivistico, di praticare il mondo. E questo accade quando viene caricato sul silenzio il bisogno di dare risposte alle questioni che ci vedono coinvolti e che chiamano in causa la nostra responsabilità; quando il silenzio diventa, cioè, la rinuncia al faticoso esercizio della articolazione razionale del significato, alla necessità di un discorso che renda ragione delle nostre scelte, delle nostre azioni e dei nostri stessi pensieri. Un pericolo, questo dal quale Brunello, dal canto suo, si tiene alla larga, da un lato dedicando il Finale di questa sorta di Sonata in forma di discorso dedicata al Silenzio, a un verso di Wyslawa Szymborska, “Quando pronuncio la parola silenzio, lo distruggo”, dall’altro lato concedendo alla fine del libro un “Bis” capace di strappare l’applauso fragoroso e che è un vero e proprio elogio del rumore.
[Immagine: Hiroshi Sugimoto, Theaters (gm)].
Di sicuro, con una cultura filosofica e musicale minime, meglio farei in prima persona a tacere. Tuttavia che bella segnalazione e che bel pezzo questo di Luca Illetterati sul “silenzio”. Ah! Mettere a tacere l’io, abbassare l’orgoglio del sé… La sua pervasiva presenza. Osservare finalmente il silenzio. Ciò che, ne sono consapevole, non sto facendo adesso, per quanto nasconda la mia animula vagula tremula dietro l’ironia d’un nome giovanilistico. Eppure, come si dice bene nel testo, è necessario usare, e usare bene, la parola. Fare rumore. Per opporsi al male, per esempio. Mi viene in mente l’opposizione desiderio di pace – necessità della violenza. Una contraddizione di cui non sono mai riuscita a venire a capo. Perché senza certe guerre civili, senza la lotta della resistenza, senza quel sangue, abiteremmo di certo un mondo diverso. Anche se questa, capisco, è un’altra storia. Credo che leggerò il libro di Brunello.