di Remo Ceserani
[Questo articolo è uscito su «Alias»]
Mi è capitato più volte di spiegare che la critica tematica ha delle basi teoriche abbastanza fragili, nonostante i tentativi di trasformarla in un metodo rigoroso e scientifico compiuti da varie parti (soprattutto da semiotici e storici della cultura come Lotman, Shcheglov e Ziolkowski). La sua forza, secondo me, sta nella sua stessa fragilità, e nell’essere una libera avventura fra i testi, nel dipendere da una scelta soggettiva, quasi arbitraria, del tema da indagare. Quando funziona bene, producendo un lavoro interessante e chiarificatore, deriva da una felice intuizione, a volte addirittura da una scelta casuale.
In una situazione così labile e incerta, l’unica raccomandazione che si può fare a chi voglia fare scoperte interessanti, per se stesso e per i propri lettori, è di scegliere bene il tema da studiare, applicando semmai un’unica, importantissima regola: che il tema abbia una sua densità semantica, profonde radici culturali e anche una possibilità di incarnarsi in procedimenti e forme nuove e sorprendenti; un tema che sappia diventare procedimento e valendosi di procedimenti che facilmente si tematizzano.
È il caso, per esempio, di due bei libri recenti: Feticci (Il Mulino, 2012) di Massimo Fusillo, per i molti collegamenti che il tema ha con l’antropologia, le rappresentazioni simboliche e il mondo delle merci e con le pratiche della riproduzione visiva, della messa in scena, dell’installazione; e Il paradosso di Proteo. Storia di una rappresentazione culturale da Omero al postumano (Carocci, 2012) di Attilio Scuderi, che ricostruisce la fitta rete metamorfica della figura del vecchio dio marino, approdato in terra egiziana dalle profondità arcaiche e preolimpiche del mito, e ricomparso, proteiforme, con una presenza costante, quasi ossessiva e perturbante, in tutta la letteratura mondiale a partire dalle prime rappresentazioni in Omero via via fino a Joyce, Barth, Borges, allo Zelig di Woody Allen e all’illusionismo dei Momix.
Ma è soprattutto il caso dello splendido, dottissimo libro, appena uscito, che Piero Boitani ha dedicato al tema dell’agnizione, o riconoscimento (Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Einaudi, pp. 474, € 34). Se Romano Luperini, qualche tempo, anche lui con un bel libro di critica tematica (L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, Laterza, 2007), aveva dedicato un’indagine a largo raggio, intensamente pensata, a quello che era, più che un tema, una situazione della vita quotidiana e un pretesto di tante trame narrative (incontri casuali, incontri fatali con il destino), Boitani sceglie un tema che va molto più a fondo: gli incontri di cui parla comportano nei protagonisti delle storie che racconta coinvolgimenti e tensioni profonde, con forti implicazioni psicologiche e conoscitive e radici mitiche e arcaiche forse anche più perturbanti di quelle di Proteo, anche lui oggetto di un incontro e un riconoscimento dai risvolti drammatici e comici, da parte di Menelao (questa storia non fa parte di quelle prese in esame da Boitani, anche se le peregrinazioni di Menelao, dopo la caduta di Troia, e le sue avventure in Egitto sono simili a quelle di Ulisse, studiatissime da Boitani).
Come sia giunto a scegliere questo tema, così radicato nelle situazioni più drammatiche dell’avventura e della conoscenza umana, ce lo racconta lo stesso Boitani. Il suo libro «è nato trent’anni fa e ha una storia fatta di peripezie e riconoscimenti come tutte le epopee, le commedie e i romanzi che si rispettino. Ricordo benissimo l’esultanza che provai nell’aver scoperto – mi trovavo a Cambridge, all’epoca – questo tema, il quale si poteva prestare, con il titolo di Anagnorisis [agnizione, in greco], a una trattazione simile a quella dedicata da Auerbach all’imitazione della realtà, Mimesis, nella letteratura C’era un senso di improvvisa rivelazione e un desiderio di scavo febbrile tra i libri, a teatro, nell’opera, al cinema».
Per fortuna nostra Boitani ha solo interrotto e rinviato, o anticipato qua e là, la sua ricerca nei trent’anni trascorsi dalla prima formulazione del progetto. Ha lavorato a lungo sul mito di Ulisse, su Shakespeare, su Dante, su Omero, sulla Bibbia; si è lasciato trasportare dalle parole alate (Voli nella poesia e nella storia da Omero all’11 settembre, 2004), si è perso, con lo sguardo di Galileo e di Leopardi, nella contemplazione della volta celeste, fra zodiaci, mappamondi e cosmografie (Il grande racconto delle stelle, 2012). Ma poi è tornato al tema di Cambridge e ha finalmente prodotto questo grosso, ricchissimo libro, che è in realtà intimamente legato a tutti gli altri libri suoi: è la summa di una ricerca e di una vita.
Quello che colpisce, in un lavoro come questo, è che l’autore, non diversamente da quanto Auerbach ha fatto a suo tempo, scrivendo Mimesis nell’esilio di Istanbul, ha spaziato su tutta quanta la letteratura della tradizione occidentale, cominciando proprio, come Auerbach, dalla Bibbia e da Omero. Per la Bibbia, già da Auerbach considerata come grande racconto immaginario, letteratura quindi e non libro di teologia, Boitani ha potuto farsi forte della tendenza ormai diffusa fra gli studiosi, di applicare all’interpretazione del testo i metodi della filologia, della critica letteraria e della narratologia (sulle orme di Northrop Frye, Robert Alter e Frank Kermode). Ma ancor più colpisce il fatto che egli prenda in esame, l’uno dopo l’altro, grandissimi e studiatissimi testi dei quella che potremmo chiamare, riprendendo Leavis, la «grande tradizione», ma che leggendo quei testi dall’angolo visuale del tema del riconoscimento, riesca a renderceli tutti in una luce nuova, a volte davvero sorprendente.
Il suo discorso passa dalle tragedie greche di Eschilo, Sofocle e Euripide alla Divina Commedia, dalle Mille e una notte al Corano al Sakuntala di Kalidasa, dalle fiabe dei Grimm al Conte di Montecristo, dal Vangelo di Giovanni ai Karamazov di Dostoevskij, dal Pericle al Racconto d’inverno al Re Lear di Shakespeare, dal Fu Mattia Pascal di Pirandello alle tante riscritture: il Paradiso perduto di Milton, Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, il Giobbe di Joseph Roth, il Pericle ripreso nella lirica Marina di T. S. Eliot, i tanti Edipi, le tante Elettre, i tanti Giobbe, ecc. ecc.
Sarebbero tanti gli esempi che confermano questa impressione di fresca rilettura e nuova interpretazione, dal punto di vista del riconoscimento, di opere anche notissime.
[Immagine: Bill Viola, Chapel of Frustrated Action (gm)].
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