di Mauro Piras
[La prima e la seconda parte di questo intervento si possono leggere qui e qui]
La buona scuola è un documento sconcertante. I primi due capitoli propongono con determinazione due interventi radicali, cioè l’assunzione di tutti i precari e il passaggio al merito nella progressione stipendiale: ne dettagliano con cura l’attuazione e ne calcolano anche l’impatto economico, per quanto senza dire da dove verranno prese le risorse. Dopo, invece, le cose sono molto più approssimative. Ricordo i temi dei quattro capitoli successivi: valutazione, autonomia e governo della scuola, trasparenza e sburocratizzazione (cap. 3); programmi e nuove materie di insegnamento (cap. 4); scuola e lavoro (cap. 5); nuove risorse per la scuola (cap. 6). In questi capitoli, la precisione dei primi due si perde: si oscilla tra la ripetizione di cose già esistenti nella scuola e la proposta di progetti innovativi ma vaghi, fino a idee del tutto improvvisate come, vedremo, quelle sui programmi. Vediamo i dettagli dei capitoli 3 e 4.
Valutazione, autonomia e governo della scuola, trasparenza e sburocratizzazione. Qui, verrebbe da dire, molte buone intenzioni ma quasi nulla di nuovo e di preciso. Sulla valutazione, di fatto vengono richiamati i principi e i meccanismi previsti dal Sistema di Valutazione Nazionale, già approvato dal governo precedente l’anno scorso (sistema che sta partendo adesso): le scuole verranno valutate regolarmente, a partire da una prima autovalutazione interna, poi riveduta con la collaborazione dell’Invalsi e di ispettori esterni, per portare poi a un Piano di miglioramento. I risultati ottenuti con il Piano di miglioramento possono portare a una diversa allocazione delle risorse finanziarie. Ma tutto questo è già legge.
Sull’autonomia scolastica e gli assetti di governo della scuola ci sono alcune novità, ma per il resto solo buone intenzioni. Viene detto molto sulla necessità di una vera autonomia scolastica, e correttamente viene ricordato che la valutazione è il complemento necessario dell’autonomia: un buon sistema scolastico dovrebbe lasciare molta autonomia alle scuole, e poi valutarne con cura l’operato, per responsabilizzarle. Il problema è che tutto dipende da una vera autonomia finanziaria e gestionale, che le scuole italiane non hanno, perché incatenate dall’attribuzione del tutto verticistica degli organici e da vincoli di ogni sorta imposti dal Ministero dell’Istruzione. Il documento propone di allentare leggermente il primo aspetto, tramite il cosiddetto “organico funzionale”, introdotto grazie all’assunzione dei precari: in ogni provincia, ci sarà un certo numero di docenti in sovrannumero, tra i quali le scuole potranno scegliere dei docenti per rispondere alle proprie esigenze. Come ho già detto nel primo intervento di questa serie, questa è una idea sbagliata di organico funzionale, perché divide l’organico in due: una parte (maggioritaria) che viene assegnata alla solita maniera, dall’alto e con i consueti meccanismi rigidi di formazione delle cattedre; e una parte (minoritaria), in cui i docenti sono come dei jolly, da utilizzare un po’ dove e come capita. Un vero organico funzionale dovrebbe prevedere per ogni scuola una corrispondenza non rigida tra le classi e i docenti, in modo che poi ogni scuola, sulla base di una vera autonomia, possa scegliere come distribuire il lavoro tra i docenti. Finché sarà il Ministero a decidere dall’alto come si distribuisce la quantità di lavoro tra i docenti, l’autonomia organizzativa non esisterà. Inoltre, non si fa parola dell’autonomia finanziaria, che ora esiste solo per mettere delle pezze alle inadempienze del Ministero (ritardi nei pagamenti, insufficienza dei finanziamenti ecc.). Né c’è una minima analisi dell’autonomia didattica, cresciuta in una confusione di attribuzioni inverosimile. Faccio un solo esempio, per capirci: si lasciano alle scuole decisioni che dovrebbero essere unitarie su tutto il territorio nazionale, come la natura scritta o orale dei voti conclusivi di una disciplina, e poi le indicazioni nazionali (i “programmi”) sono piene di “contenuti imprescindibili” che, se presi alla lettera, paralizzano le scelte didattiche del docente.
Ci sono poi diversi aspetti che riguardano gli assetti di governo della scuola. In primo luogo, si auspica una revisione degli Organi Collegiali, per renderli più funzionali. Tutto giusto: è dal 1999, cioè da quando è entrato in vigore il Regolamento dell’autonomia scolastica e i presidi sono diventati dirigenti scolastici, che la scuola ha bisogno di una riforma degli Organi Collegiali, per chiarire meglio la divisione delle competenze tra Dirigente, Consiglio di Istituto e Collegio Docenti, per non parlare degli organi di rappresentanza territoriale. Ma il documento si limita a un vago appello a un sistema più funzionale, delineando un rapido quadro delle competenze che di fatto è quello in vigore. L’unica novità che si capisce è che il potere del dirigente scolastico andrebbe rafforzato, ma non si dice come; e il problema, in queste materie, è il come.
Qualcosa di più preciso è detto sul reclutamento dei dirigenti scolastici. Verranno reclutati con un corso-concorso, che si terrà regolarmente. Ma anche questa è una legge già esistente, votata dal governo Letta, che prevede che la formazione dei presidi avvenga alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, a Roma, con un corso annuale cui si accede con un test selettivo. Come sopra, se c’è qualcosa di preciso è solo perché è già legge. Inoltre, il sistema è piuttosto discutibile. Un corso di formazione serio per i presidi ci vuole, siamo d’accordo. Ma che si tenga a Roma, obbligando i docenti più lontani a fare lunghi viaggi, senza prevedere un esonero dall’insegnamento, rende la cosa molto scomoda e iniqua. Bisognerebbe ragionare poi sui contenuti del concorso stesso, sia nel test di accesso che nelle prove conclusive. Nei concorsi già svolti, l’erudizione normativa e burocratica continua a prevalere sulle reali capacità di gestione di relazioni didattiche e lavorative spesso molto delicate. Inoltre, trattandosi di dirigenti di istituzioni scolastiche, la Scuola Nazionale dell’Amministrazione rischia di limitare la prospettiva ai soli aspetti amministrativi, appunto, trascurando quelli didattici. Infine, più in generale, è tutta la figura del dirigente scolastico che andrebbe rivisitata: troppe responsabilità, che richiedono troppe competenze differenziate. Perché non pensare a due figure diverse, una per gli aspetti più gestionali, e un’altra per quelli più didattici?
Altra figura importante per il funzionamento del sistema scolastico, ricordata nel testo: gli ispettori. È positivo che se ne parli, perché la loro presenza e il loro ruolo sono stati nel tempo eccessivamente ridimensionati. Tuttavia, se gli ispettori dovranno avere un ruolo crescente nella valutazione delle scuole anche dal punto di vista didattico, come prevede il Sistema di Valutazione Nazionale, allora il loro profilo andrebbe studiato con più cura. Nel documento si dice solo che dovranno essere di più, e che per diventare ispettore bisogna prima essere stato dirigente scolastico. Ora, questo secondo punto è contestabile. Se gli ispettori devono valutare la didattica, sarebbe meglio reclutarli tra chi ha una lunga esperienza didattica; non è il caso dei presidi, che spesso hanno una carriera più lunga come dirigenti che come docenti. Sarebbe meglio pensare a dei profili diversi di ispettori: chi deve valutare la didattica deve provenire dal corpo docenti, e deve essere formato in maniera specifica; potrebbero essere anche dei docenti in attività, con degli esoneri (anzi, sarebbe meglio). Chi invece deve valutare altri aspetti (per esempio la gestione finanziaria) deve avere una formazione amministrativa, e in effetti dovrebbe avere alle spalle una esperienza da preside.
Ci sono poi nel capitolo una serie di idee generali per la semplificazione burocratica e la trasparenza, tutte buone e auspicabili. Su questo terreno, però, quello che conta non sono le idee quanto le iniziative concrete. Soprattutto, ci vorrebbe una riduzione drastica della proliferazione normativa sulla scuola. Viene proposta al riguardo un’ottima iniziativa: riscrivere il Testo Unico della scuola, che risala ormai al 1994, ed è quindi inadeguato, sia per gli importanti cambiamenti che sono intervenuti nel frattempo (l’autonomia ecc.), sia per le continue innovazioni normative su tutti i terreni che hanno riguardato la scuola in questi vent’anni. La riscrittura del Testo Unico dovrebbe però essere l’occasione per sfoltire enormemente la giungla di leggi disordinate e contraddittorie che riguardano la scuola. È una impresa enorme, ma indispensabile.
In conclusione, questo capitolo è un po’ troppo eterogeneo (comprende anche la connessione wi-fi per tutte le scuole, e la riduzione delle spese delle famiglie per i libri di testo), e molto deludente: è infatti vago nei punti in cui propone effettivamente qualcosa di nuovo, e specifico invece dove ripropone, a volte acriticamente, soluzioni già adottate. I temi trattati invece, autonomia e valutazione, sono così importanti che richiederebbero una discussione molto più attenta.
Programmi e nuove materie di insegnamento. Ma ancora più deludente è il quarto capitolo, avventurosamente intitolato “Cosa si impara a scuola”. Chi legge questo titolo pensa subito a quanto ci sarebbe da ridiscutere nei contenuti dei programmi scolastici, quanto da riflettere sul loro rapporto con la società di oggi, e quanto da rivedere nei metodi didattici. Invece niente. Questo capitolo fa ridere, non trovo altra espressione. Propone solo alcune innovazioni molto marginali e, come dire, “retoriche”. In sintesi, il discorso è questo: l’Italia è un paese di arte, musica e cultura, quindi rafforziamo l’insegnamento della Storia dell’Arte nei bienni delle superiori, e introduciamo Musica nella primaria, oltre a rafforzarla alle medie (sento già i terribili flautini moltiplicarsi in tutto il regno…); i bambini italiani sono obesi, quindi facciamo più educazione fisica nella primaria; le lingue straniere sono indispensabili nel mondo moderno, quindi introduciamo il CLIL, cioè l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica, anche nella primaria e nelle medie (come alle superiori, senza formare dei docenti veramente competenti); l’informatica è importantissima, quindi programmazione informatica (addirittura!) fin dalla primaria; senza l’economia non si capisce niente, quindi economia in tutte le scuole superiori.
Ecco, tutto qui. Certo, alcune di queste cose sono importanti (mi opporrei però fermamente alla programmazione informatica per tutti nella primaria), ma mi sembrano irrilevanti. La vera ragione di questo capitolo si trova nel primo: se assumi tutti i precari iscritti nelle graduatorie a esaurimento ti ritrovi con una quantità di docenti di musica, arte, educazione fisica, informatica e diritto che da qualche parte dovrai mettere. Ed ecco quindi la soluzione.
Francamente, considero tutto ciò una presa in giro. La didattica, soprattutto della scuola secondaria, è il problema della scuola italiana. E questo problema riguarda in primo luogo i contenuti, che noi tutti (docenti, intellettuali, professori universitari, politici) continuiamo a difendere per tradizione, per abitudine, per affetto ecc., ma che sono spesso del tutto inadeguati. Mi limito alle discipline umanistiche. Tutti sappiamo che la quantità di conoscenze contenute nelle indicazioni nazionali (gli attuali programmi) sono eccessive rispetto a quello che si può fare veramente e alla formazione di base da cui partono gli studenti; tutti sappiamo che sarebbe meglio fare di meno e bene, iniziare a selezionare. Inoltre, la linearità dei programmi, impostata in chiave prevalentemente storica, in ogni disciplina, non è più una ovvietà accettata, e pone una enormità di problemi didattici. E poi c’è il grande problema del rapporto delle competenze con i contenuti disciplinari, che non è stato affatto risolto; le competenze sono state aggiunte solo in termini formali. E così via. Ma non c’è niente di tutto questo, nel documento. E poiché manca una riflessione seria su queste cose in Italia, non abbiamo niente da proporre, e possiamo trovarci di fronte così a interventi marginali e improvvisati, dettati da esigenze del tutto contingenti, senza che la classe dirigente intellettuale del paese abbia un disegno chiaro da contrapporre. L’unica cosa positiva è che questi interventi sono abbastanza marginali da non creare troppi danni (tranne l’informatica, lo ripeto).
(Torino, 1 novembre 2014)
[Immagine: Matteo Renzi apre l’anno scolastico].
A proposito di prese in giro: “valutiamo gli insegnanti!” e poi si fa l’esame di maturità con i soli membri interni.
“Oste, com’è il vino?”
Ancora una volta una critica precisa e ben argomentata delle proposte del governo sulla scuola, Mauro.
Secondo me il problema che l’autonomia scolastica di fatto nel documento viene proposta a parole ma non nelle conseguenze pratiche mi sembra sia dovuto a una certa visione eccessivamente centralista che vede uno Stato che ha sfiducia nelle iniziative autonome delle parti della società civile e che dunque ritiene che valorizzare pluralismo e sussidiarietà sia una minaccia per una “scuola di tutti” in quanto finirebbe per favorire i “piccoli interessi di parte” (senza divagare nel tema, discorsi simili si fanno anche sul discorso delle scuole paritarie) senza neppure pensare che basterebbe che lo stato permettesse questa autonomia vigilando sui suoi abusi e intervenendo solo in quei casi con valutazioni, invece che lo stato debba dirigere qualsiasi cosa sulla scuola dall’alto.
Ah, per la cronaca, l’idea della programmazione informatica fin dalle elementari non è affatto nuova, già negli anni ’80, con la diffusione degli home computer, veniva propagandata la diffusione di linguaggi di programmazione didattici per bambini (il più famoso di essi era il LOGO) per valorizzare l’educazione all’informatica, però anche se adatti per bambini, proporne l’obbligo mi pare francamente assurdo, la cosa più giusta sarebbe farne un’attività facoltativa mediante questa benedetta autonomia. Questo, peraltro, è lo stesso discorso che farei per l’annosa questione del latino, una trattazione altamente specialistica e obbligatoria delle lingue classiche ha senso solo per studenti altamente interessati in studi classici, non ha proprio senso obbligare a tutti la programmazione informatica usando gli stessi discorsi del latino (“Insegna a ragionare…”, “è un’attività scientifica…”, poi per me neanche è vero che il latino non è monetizzabile, si pensi solo al turismo).
A roberto buffagni: per una volta sono del tutto d’accordo con lei. Io sulla maturità penso che si potrebbe scegliere fra due alternative: la prima è che l’esame di maturità deve possedere parametri realmente oggettivi e uguali per tutti gli istituti scolastici italiani, con commissioni totalmente esterne e ad esempio con la terza prova scritta avente un contenuto uguale per tutti gli istituti accomunati dallo stesso indirizzo (aggiungerei anche una prova in laboratorio, peraltro) e una prova orale non più su tutte le materie ma al solo scopo di valutare competenze di alcune materie (ad esempio le lingue straniere) difficilmente verificabili con prove scritte.
L’unica altra seria alternativa a un esame come quello sopra esposto sarebbe l’abolizione del valore legale del titolo di studio e di conseguenza dovrebbero essere le prove di accesso dell’Università a verificare cosa e quanto le persone che vogliono compiere studi universitari hanno appreso nelle scuole superiori o in altri ambienti e analogamente nelle prove di accesso nel mondo di lavoro.
Mi piacerebbe sapere come la pensa anche Mauro Piras su questo tema, e mi piacerebbe sapere anche come la pensa sul legame tra scuola e mondo del lavoro, dove mi sembra che da più parti ogni invito a maggiore collaborazione e alternanza tra i due ambienti viene visto come minacce della “tecnocrazia” “mercificazione” e “aziendalizzazione”, capisco che la scuola deve formare cittadini consapevoli, ma non mi sembra che questo implichi che necessariamente devono essere disoccupati, come se poi nel mondo del lavoro della società attuale si smettesse per sempre di imparare qualsiasi cosa…
Mi permetto di segnalare:
http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/300-considerazioni-sulle-prove-invalsi-di-italiano.html
Noticine.
1) Dietro questo documento ministeriale sta anche un tal Alessandro Fusacchia, che all’università insegna questi argomenti: “Dal law-making al policy design. Il Governo italiano verso una nuova generazione di politiche pubbliche”.
Di qui il language e la graphic very cool del document (Davide Serra docet: la cultura umanistica è vecchia: deve diventare cool, figo, studiare la matematica, lo dico sempre ai miei bambini). Non dico di rimpiangere quei bei vecchi documenti in burocratese… o sì?
2) Nel tono costantemente sovreccitato da cocainomani dell’innovazione pur che sia, si sono inventati pure l’attacco frontale alla “tecnologia pesante” della LIM (la lavagna interattiva). Pesante, contro la leggerezza dei tablet e della scuola renzian-fusacchiana.
A parte che la LIM non la trovi che in pochissime classi. Io ho la fortuna di averla, invece, in tutte, da due anni. Ne sono un fan. Sono invece (cautamente) contrario ai tablet per tutti. Non sto a spiegare perché, sarebbe lungo.
Ecco, mai una volta che si sia sufficientemente uptodate: uno s’aggiorna, e a quelle gagliarde vigorose giovani teste rampanti della Leopolda non basta, ti hanno già scavalcato, qui bricconi inventivi e futuristi!
Ho 34 anni, e sono già vecchio e appesantito.
(I tablet per tutti, sì, ma secondo il principio del BOYD: bring your own device. Per chi non mastichi l’inglese, translation: i soldi per il tablet non ce l’ho, portalo tu!)
3) Questione potenziamento lingue straniere.
La riforma Gelmini, ormai a regime, prevede che una parte del programma di una materia non linguistica (storia, storia dell’arte, scienze, filosofia, …) sia affrontata in lingua straniera: si tratta del cosiddetto CLIL (content and language integrated learning). Bene, quest’anno il CLIL arriverà all’Esame di Stato, come parte del programma finale. Le scuole, che fino a ieri avevano potuto temporeggiare, quest’anno sono in ambasce, perché il nodo è venuto al pettine. Il solito atteggiamento approssimativo all’italiana? Sì, direi proprio di sì, ma non da parte della scuola, bensì del MIUR.
Il CLIL infatti, per essere affrontato seriamente e per esplicita indicazione del Ministero, prevederebbe un docente di materia non linguistica che padroneggi la lingua straniera ad un livello C1 (per intenderci: un C1 dovrebbe poter comprendere un dialogo fra due madrelingua che parlino anche velocemente fra loro). Non c’è bisogno di essere dentro la scuola per sapere che non esistono docenti con questo livello di competenza. Purtroppo, non esistono neanche dei B2 (il livello appena inferiore) e forse neanche dei B1. Abbiamo alcuni corsi di formazione, ma ciò non può cambiare troppo la sostanza: per il CLIL ci sarebbe bisogno, piuttosto, di docenti madrelingua di materia che entrino nelle nostre scuole, grazie a scambi internazionali. Ovviamente le ultime indicazioni sono di fare quel che si può, insomma di fingere che il re non sia nudo.
Poche cose sono odiose come questo sbandierare ammodernamenti per forza di legge, se poi la messa in atto è così penosamente approssimativa e, soprattutto, se allo sbandieramento non fa seguito un corposo finanziamento (se poi, come capita, da anni ci troviamo di fronte piuttosto a dei tagli…). I docenti non sono tuttologi su cui scaricare ogni genere d’onere, fidando nell’obbligo di legge e nella loro infinita vocazione a metter pezze dove la politica lascia strappi, e gli studenti avrebbero diritto a un po’ più di rispetto e di serietà, perché vedono benissimo che il re non indossa proprio nulla.
A parte l’ironia, condivido di nuovo quasi tutto, caro Mauro. Ecco, magari sono decisamente più scettico sul fatto che sia materialmente possibile immettere in ruolo 150mila persone… (il concorso ne prevedeva 11mila, e il posto per tutti ancora non c’è).
a Michele Dr.
Come vede, niente è impossibile, persino trovarci d’accordo.
A me risulta che l’esame di maturità, o di Stato, come mi pare si chiami ora (perchè poi? aveva un nome così bello…) abbia rilievo costituzionale.
Buttarlo in ridere per risparmiare qualche soldo serve solo a dare un altro colpo alla legittimità dello Stato. Intendiamoci: è solo un jab, le combinazioni da knock down le hanno già date altri (la più recente, tremenda, il killer Monti). Però quando un pugile è cotto e sta in piedi per miracolo basta poco a metterlo KO.
Cari Buffagni e Michele,
concordo con voi sull’esame di stato: eliminare i commissari esterni solo per risparmiare è molto grave. Per fortuna, la Legge di Stabilità alla fine non contiene questo provvedimento, quindi abbiamo qualche speranza che per quest’anno l’esame si faccia anche con i commissari esterni. Poi si vedrà.
Io credo che l’esame vada riformato, adesso mi sembra molto irrazionale. Però non saprei dire come. Ma non mi sembra una buona idea l’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Caro Michele,
la tradizione centralistica dello stato italiano pesa molto, su questo concordo. Non credo che però vada letta nei termini della paura degli interessi particolari (questa paura ha un ruolo invece nel centralismo francese), ma nell’atavica diffidenza dei governanti verso i governati, radicata nell’arbitrio del potere, e in una burocrazia pesante e inefficiente. Diciamo che il nostro è ancora un centralismo di antico regime, mentre quello francese è post-rivoluzionario.
Sul rapporto scuola-lavoro ho scritto qualcosa nel quarto e ultimo di questi interventi, che è già pronto e sarà pubblicato a breve.
Caro Daniele,
grazie per i chiarimenti che hai dato sul CLIL, per ragioni di spazio io non potevo farlo. Concordo sul tuo giudizio generale su tutta questa faccenda.
Faccio una scommessa sui precari: secondo me li assumono, non tutti però, ma solo quelli che lavorano effettivamente nella scuola (faranno un censimento, vedrai). Mi gioco una birra.