cropped-Erwin-Olaf-The-Keyhole-4-20011.jpegdi Rino Genovese

Tra le più maledette al mondo è la condizione precaria. “E non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe”: così un verso di Clemente Rebora citato in epigrafe a uno dei saggi più importanti compresi nella nuova raccolta di Antonio Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento (di cui si può vedere qui la prefazione di Nicola Lagioia). Come dire che il precario è un non-morto, uno zombi.

Da un’inchiesta apparsa su “Le Monde” (26-27 ottobre 2014) riguardo alla ripresa economica in Gran Bretagna basata sulla massima flessibilità, apprendo dei contratti “a zero ore”, una forma estrema di lavoro interinale in cui non è garantito alcun orario, quindi neppure un salario. A Liverpool, nella biscotteria Jacob’s, ci sono 830 lavoratori permanenti ai quali si aggiungono fino a 250 operai messi a disposizione da un’agenzia soprattutto nei periodi in cui le scatole di biscotti si vendono bene, come in prossimità delle feste di fine anno. Il salario minimo versato dall’agenzia è di sei sterline e mezzo all’ora (8,20 euro), cioè due sterline in meno di ciò che riceve per le stesse mansioni la mano d’opera stabilmente occupata. Ma il punto non è questo. La condizione precaria non è caratterizzata dal guadagnare di meno; consiste nel non poter vivere. Il lavoratore a zero ore è legato al suo telefono come quello della fabbrica fordista lo era alla catena di montaggio. Quando arriva la chiamata deve presentarsi anche nel giro di un’ora. L’attesa gli beve il resto del tempo. Non può mai allontanarsi e perciò non fa altro che sopravvivere. È una nuova schiavitù, contro cui però l’opposizione laburista – consapevole del fatto che tra il 2011 e il 2014 il tasso di disoccupazione si è abbassato di due punti in Gran Bretagna grazie alla flessibilità – non si batte in maniera frontale, limitandosi a proporre d’instaurare il diritto a un orario minimo dopo un certo periodo d’impiego a zero ore (insomma un contratto “a tutele crescenti” – vi ricorda qualcosa quest’espressione? non vi sembra di averla sentita di recente in Italia?).

Ritorno allora a Tricomi, che di mestiere non fa l’operaio in un biscottificio ma il critico letterario. Giovane per età anagrafica fino a poco tempo fa, il mio amico è uno che non ha mai goduto i “fiori della giovinezza” per citare Mimnermo (“Come le foglie che fa germogliare la primavera / ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole / noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo / i fiori della giovinezza […]”), cioè il lirico greco probabilmente alle spalle dei celebri versi di Ungaretti: “Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie”. Tricomi, che è sempre stato un precario, non né un ragazzo né un uomo maturo, né un giovane né un vecchio. Non può conoscere la caducità del vivente, il suo correre verso la morte, per la semplice ragione che del vivente ha esperito solo la precarietà, appunto. Una condizione che rende molto diversa l’esistenza odierna da quell’essere-per-la-morte che Heidegger aveva teorizzato nel rovente clima industriale (e bellico) della propria epoca.

Precarietà come impossibilità della caducità, dunque. Nella distinzione, o addirittura nella contrapposizione tra le due, si può leggere la cifra esistenziale del nostro tempo. Il lavoratore con il suo posto fisso muore a poco a poco, il precario semplicemente non vive. Ma in quanto non-morto è proiettato verso una sorta d’immortalità. La sua condizione si eternizza. Non ha un ciclo, un passato, un futuro: ha soltanto un eterno presente. Alla sua situazione può essere avvicinata quella del migrante, che del resto, quando trova un lavoro, si trasforma per lo più proprio in un precario.

In pagine rischiosissime per quanto sono sincere, Tricomi si autodescrive come quel lavoratore intellettuale stabilmente precario che attende una chiamata a scuola per supplenze non si sa quanto lunghe, che si muove velocemente in auto da una sede universitaria all’altra per corsi di tre mesi pagati pochi spiccioli, che scrive recensioni remunerate anche peggio per mediocri giornali da cui riceve pacchi di libri da sbrigare in poche ore. È il primo autoritratto, dall’interno, di un determinato destino intellettuale che mi sia dato di leggere. E la cosa ha tanto più valore in quanto Tricomi, definendosi nonostante tutto un privilegiato, dichiara di poter condurre l’esistenza che conduce soltanto perché può avvalersi di un piccolo patrimonio familiare. Essere precari, sentirsi fino in fondo tali, ed essere al tempo stesso benestanti – mi sembra sia qualcosa che possa accadere unicamente nello strano paese chiamato Italia.

Qui da decenni, infatti, per non dire da secoli, uno sviluppo ancorato al privato, incentrato sulla famiglia, ha consentito ad ampi settori di classe media di mettere da parte risorse anche cospicue. Su che cosa credete che stia campando il paese da anni in recessione se non sui soldi accumulati nel tempo? Tuttavia ciò implica una cancellazione dei giovani, tenuti ai margini del mondo del lavoro e condannati a restare in perpetuo dei figli. È un discorso – se si vuole una protesta – fortemente generazionale quello intrapreso da Tricomi (non solo nell’ultimo libro ma anche nel precedente La Repubblica delle lettere). Lui ha incontrato la tematica dell’assenza del padre, del venir meno della Legge, cioè dell’impossibilità di una maturazione giovanile, come un vissuto proprio della condizione precaria: è l’orfanezza di cui parla in un modo a tratti accorato: essa non consiste nell’essere rimasti senza genitori da piccoli, ma nell’avere avuto i genitori in una forma non giusta, che fa sentire sradicati di fatto.

Un altro amico all’incirca coetaneo di Tricomi, intellettuale disoccupato mantenuto dal padre facoltoso commerciante, così una volta pressappoco gli diceva: “Avete voluto un paese fondato sull’evasione fiscale? bene, adesso non potete lamentarvi del fatto che nelle scuole e nelle università non ci siano posti se non per pochissimi e malpagati, perché questa è la vostra Italia, e in questa, caro babbo, sei costretto a mantenermi”. Di che orfanezza si parla, allora? Si tratta di un “nemico” che non c’è più, di una frizione ormai impossibile con la figura parentale dominante, con l’autorità. Il che impedisce d’invecchiare: cioè, per quanto dicevo prima, sia di gustare i frutti della giovinezza sia di vederli svanire.

Inutile che io – vent’anni più vecchio di questi tardi giovani – mi sforzi di far comprendere che non si stava affatto meglio quando si stava peggio, quando il principio di autorità implicava ancora cinghia e punizioni, e la scuola era un piccolo inferno di disciplina idiota. I miei amici riluttano al passaggio dall’orfanezza all’aperto dandysmo intellettuale e all’impegno scettico: ossia da quello che è in fondo un radicatissimo sradicamento a un altro più effettivo in se stesso pacificato, privo di nostalgia per un passato che essi abbelliscono perché non l’hanno vissuto. Sono dei conservatori, anche se naturalmente dei conservatori di sinistra.

E in una prospettiva tutto sommato conservatrice può essere collocato anche il rapporto intrattenuto da Tricomi con la tradizione umanistica, intendendo con questa non soltanto quella delle lettere e delle arti ma, in generale, l’afflato universalistico della cultura occidentale tanto religiosa quanto laica. Dopotutto, se siamo al punto in cui siamo (qualunque sia questo punto), ciò è una conseguenza di un passato “umanistico” che non ha saputo essere all’altezza delle sue promesse. Senza entrare qui nelle obiezioni antiumanistiche che da varie parti della filosofia contemporanea sono state sollevate, basti dire che già da semplice liceale imparai a diffidare della retorica, che di quella tradizione è parte non secondaria, sebbene riconosca come una certa competenza nel servirsi dei suoi strumenti sia indispensabile per comunicare con qualche chiarezza il proprio pensiero. Vedo anch’io in giro parecchia ignoranza e incapacità di usare i mezzi che il sistema educativo dovrebbe mettere a disposizione. Ma lamentarsi del decadimento, come fa Tricomi quando da insegnante ha a che fare con ragazzi più giovani di lui di vent’anni, non è in fin dei conti sbagliato? A me ricorda l’anziano professore di latino, o la signora della piccola borghesia, che si scandalizzavano per la perdita di terreno della tradizione umanistica nella scuola dell’obbligo da poco unificata ed estesa ai figli degli operai e dei contadini. Il processo che ha condotto a una sorta di analfabetismo diffuso è lo stesso che ha portato grandi masse all’alfabetizzazione. Bisogna soffrire per questo? O non si deve stare, nonostante tutto, con i tempi nuovi che permettono a chiunque di inviare mediante i telefoni e i computer messaggi forse sgrammaticati, ma che rendono la comunicazione scritta qualcosa di vivo, di non riservato ai quattro gatti del passato?

[Immagine: Foto di Edwin Olaf (gm)].

15 thoughts on “Precarietà

  1. No, sono cose diverse, non si possono paragonare: quello della vecchia signora borghese che si lamentava era davvero conservatorismo, si opponeva al nuovo in omaggio al vecchio. Questo è invece uno spirito certo reazionario, ma progressista: ‘reagisce’ al nuovo, immaginando un cambiamente in meglio, non auspicando un ritorno al vecchio. La critica all’autoritarismo becero è data per scontata, del passato si rimpiange al piú la condizione di sentirsi dentro un processo di cambiamento in corso, con tutte le premesse già costituite. La dimensione paralizzante dei precari d’oggi è che non hanno futuro avviato, ma sono esito finale del processo, prodotto finale. Loro malgrado anello conclusivo, fine di un ciclo storico che ha consumato un patrimonio imponente di identità. Il difficile è trovare le condizioni oggettive, esistenziali ed economiche, anzitutto, che permettano di ripensare, ricostruire e tracciare un qualche progetto sensato di cambiamento, di trasformazione fosse anche a brevissimo passo, del presente… In poche parole, ricostituire un’alternativa sensata.

  2. Comprendo l’obiezione di Gianpiero G. È quella che mi farei anch’io, da un altro punto di vista. Tuttavia, un aumento del numero dei partecipanti in modo attivo alla comunicazione implica necessariamente un certo scadimento della qualità – fino a che punto bisogna accettarlo? È il problema della democrazia di massa. Inoltre, la critica della tecnologia e dei suoi sviluppi, diffusa anche a sinistra, può produrre una forma di chiusura aristocratica che non mi sentirei di condividere. Dalla posizione di Tricomi discende, per esempio, anche un atteggiamento di rifiuto nei confronti dei “blog”, dei siti Internet in generale, anche di questo su cui stiamo conversando.

  3. Domanda: come fanno gli amici di Genovese a non essere “conservatori”, se il progresso gli scodella questa vita invivibile?

  4. Ieri sera, nel mio appartamentucolo in affitto, c’erano due laureati in filosofia e due laureate in lettere moderne – il più scarso a titoli sono io – e tutti si dicevano pentiti delle loro scelte di dieci anni fa (“Adesso a mia sorella piccola dico: fai l’università della vita, cercati un lavoro subito, non rovinarti la vita andando all’università!”) e ci tenevano a farmi sapere che io non posso capire la loro situazione, come se io prima di trovare il lavoro che ho – un lavoro (che a loro non piace affatto e che non ha niente a che fare con i loro studi e le loro attitudini e che ora darebbero tutto pur di averlo, come di averne uno qualsiasi), sicuro come è sicura qualsiasi cosa durante questi nostri tempi emozionanti per stress e depressione – non l’avessi conosciute anche io, prima, la disoccupazione e poi la precarietà: sarà un anno e mezzo che ho un contratto-contratto; col risultato paradossale di uno scontro di tipo generazionale che si consuma all’interno della stessa generazione: ho trenta anni io, hanno trenta anni loro, ma per i miei amici appartengo a un mondo precedente, che risale a un mercato del lavoro di sei o sette anni fa, vuoi o non vuoi insensibile e menefreghista verso di loro, in un modo o nell’altro più privilegiato del loro. Non sanno tanto spiegarselo ma intuiscono che sono responsabile anche io del loro futuro negato e io, che se mi fermo a ragionare freddamente penso che stiano dicendo delle scemate e che come al solito cerchino le responsabilità sempre lontano da se stessi quando giustamente non ne possono più di prendersela con la ‘politica’ (che è una dimensione dissociata e del tutto non conseguente con la realtà quotidiana in cui svivono quotidianamente da anni), lentamente sto cominciando a sospettare che abbiano ragione, anche se non saprei dire esattamente perché mai. A.C.

  5. Caro A.C.,
    guardi che lei non ha nessuna colpa se i suoi coetanei sono disoccupati. Pensa che se restasse disoccupato anche lei, i suoi amici troverebbero lavoro? Che un peggioramento delle sue condizioni di vita migliorerebbe le loro? Non si lasci imbrogliare dalla propaganda che le fanno sulle “guerre generazionali”.
    Sono bugie che le raccontano i responsabili della vostra (e nostra) situazione.

  6. Certo che bisogna stare con i tempi nuovi? Non scherziamo.

    Sulla questione del mutamento dei rapporti fra generazioni, senza l’ansia dei tempi perduti, Marco Aime, fra fase liminale e anni ’60, tecnologia
    https://www.youtube.com/watch?v=EO6Vg4QOq5U

    Mio padre ha la terza media, io il diploma (elettrotecnica), eppure ho comprato e leggerò il saggio di Tricomi. Se uno si lamenta dei messaggi sgrammaticati tanto vale che prenda il divano e se ne vada direttamente al cimitero ad aspettare.

  7. @ A.C.

    La questione è unicamente politica, ovvero tecnica. I suoi amici semplicemente non sanno di cosa parlano, e la cosa è grave, dal momento che sono pure laureati. Volendo lasciare da parte la temperie individualista degli ultimi decenni e la difficoltà oggettiva ad organizzare sindacalmente lavoratori che non stanno più tutti in grandi fabbriche eccetera, in questo paese si è scelto di difendere al ribasso. Non per pregiudiziale ideologica, ma per stupidità. Non è un caso che questo sia il secondo paese più diseguale dopo l’Inghilterra, con tasso d’occupazione ridicolo (un terzo della popolazione), con regole folli, con le corporazioni ereditate dal fascismo, con gli ammortizzatori sociali non universali, con pensioni date a cazzo di cane e distribuite peggio, eccetera.

    Cmq, c’è uno studioso che ne parla, e a me piace molto: Emanuele Ferragina. C’è anche un bel sito che fa divulgazione economica: sbilanciamoci

  8. Credo tutti abbiamo maturato il diritto di sapere se alla domanda “Come si esce dalla precarietà?” si possa onestamente rispondere ancora con un “Se ne esce in questo modo: [segue programma fattibile e attuabile nell’arco di non più di qualche anno, altrimenti non so se saranno di più i suicidi o i reati, cui eventualmente faranno comunque seguito i suicidi]” e se sia ora di dire freddamente e lucidamente “Non se ne esce, quindi è bene se da ora ci regoliamo in questo modo: [segue programma fattibile e applicabile SUBITO, per mettere al riparo quanto più si può, come si può e il più presto che si può, specificando che suicidarsi o delinquere sono le reazioni più antiquate e inconcludenti possibili].” A.C.

  9. Beh, per quanto riguarda i suicidi, il dato europeo è in calo da da almeno vent’anni, e ciò riguarda il fatto che a suicidarsi di più sono uomini di mezz’età e con scarsa istruzione. Quindi studiare serve, altro che università della vita.

    Ciò da cui non si può uscire subito è la situazione macroeconomica, di crescita bassa generale e di disuguaglianza dell’allocazione dei capitali. La rendita finanziaria è maggiore di quella da lavoro, e per un po’ sarà così.

    Ciò che si può fare, e lo si può fare subito è far star meglio milioni di persone con misure semplici come un Reddito minimo garantito, soglia sotto la quale non si può scendere, indipendentemente dal contratto di lavoro. Sotto a tale soglia interviene lo stato per compensare. La misura si aggira intorno ai 9 miliardi di euro. Poi sussidio universale di disoccupazione. Asili nido, dato che abbiamo molte donne qualificate senza lavoro e in generale l’occupazione femminile è fra le più basse in Europa. Spostare un po’ di soldi dalle pensioni più alte a quelle più basse, misura che sarebbe di stimolo per la domanda interna, dato che i poveri sono quelli che spendono tutto il loro reddito in consumi.

  10. Molto interessante l’ultimo intervento di A.C. (ed anche il fatto che un altro giovane dal nome impronunciabile gli risponda in sostanza assecondandolo) della mutazione antropologica intervenuta.
    Il punto che pare sfugga a questa nuova generazione sta nel non avere chiaro che la stessa definizione di cosa sia utopico e di cosa invece sia possibile è essa stessa parte della politica.
    Non è che un soggetto politico (come dovrebbero essere tutti i cittadini di uno stato che si definisce democratico) va da una certa autorità e gli chieda quali siano i confini della sua azione politica, e dopo agisca politicamente. Non v’è questo stadio iniziale in cui qualcuno è delegato a definire cosa sia politica, la politica per sua natura deve stare sullo scranno più alto, deve comandare e non può pertanto subire limitazioni da qualcosa che non sia già al suo interno.
    Sentivo qualche giorno fa un altro giovane, il giornalista Stefano Feltri, nel corso della rubrica “Prima pagina” di radiotre, che similmente predicava una sua forma di realismo politico.
    Il discorso era il solito, il mondo è così, va così, negli ultimi decenni si è spostato verso queste direzioni. Ebbene, questo pregresso secondo il giovane Stefano, che pure viene considerato un giornalista brillante e con grandi prospettive di carriera, si doveva comunque accettare, pena l’essere insignificante.
    A Feltri potrei replicare che seguire la corrente è l’unica cosa realmente insignificante, chi esagera con il suo stare fuori dal coro potrà magari essere velleitario ma dirà le uniche cose che hanno davvero significato, proprio perchè si pongono domande che apparentemente quasi nessuno si pone, e in questo interrogarsi crea significati.

  11. a A.C.

    Lei dice: alla disoccupazione di massa, in ispecie giovanile, bisogna dare risposte immediate e chiare; o è possibile invertire la tendenza in tempi rapidi (qualche anno al massimo) o è impossibile invertirla, e allora è necessario individuare subito i palliativi che consentano ai giovani, se non di vivere, almeno di sopravvivere.
    Giustissimo.
    Non so se ci ha fatto caso, ma lei imposta la questione come se la disoccupazione fosse una malattia: diagnosi (sollecita), prognosi (curabile o incurabile), terapia (in vista della guarigione o sintomatica).
    L’analogia fra politica e medicina è molto antica, e ha il suo fondamento; però, come ogni analogia può fuorviare.
    La disoccupazione di massa NON è un atto di Dio, una disgrazia, o la conseguenza di una predisposizione genetica.
    E’ conseguenza diretta di scelte politiche, attuate da persone, istituzioni e partiti con nome, cognome, indirizzo e codice fiscale.
    Per uscire individualmente dalla disoccupazione, ognuno individualmente si arrangia come può (inventandosi il teletrasporto, suicidandosi, facendosi raccomandare, delinquendo, prostituendosi, emigrando, etc.).
    Per arginare o porre termine alla disoccupazione come fenomeno sociale, o anche solo per capire se essa sia curabile e incurabile, bisogna sforzarsi di capire perchè c’è, e chi l’ha voluta; dopo di che, fare uno sforzo ulteriore e contribuire alla costruzione di una forza politica capace di sconfiggere le forze sociali responsabili della disoccupazione.

  12. Premettiamolo: c’è una situazione sociale e politica, e quindi culturale nel senso di atmosfera-generale, nuova; noi condividiamo i nostri pensieri e tormenti, si cerca di indovinare le domande che non ci stiamo facendo, sarebbe ingiusto ogni oltre limite pretendere di trovare risposte anche solo momentanee così, sebbene i suggerimenti su iniziative pratiche diano sempre un gran piacere.

    Parlo con DFW vs RB: che, dati alla mano, il suicidio è in controtendenza e a suicidarsi sono rimasti solo gli esodati o i sopravvissuti di quella generazione là, ai miei amici non posso dirlo: storia di questa estate, un nostro coetaneo, comune avventore di un locale che frequentano alcuni di loro, si è tolto la vita: era bibliotecario, laureato, benvoluto e molto attraente a detta di parecchi; il suo dramma non lo includerei nella questione del lavoro e delle sue ricadute, ma questo giusto per dire che i dati, come quelli che parlano di una ripresa delle assunzioni nell’ordine delle decine di migliaia nel centro nord, sembrano un’altra beffa dannosa, e comunque oggi, in metropolitana, leggendo qualche articolo di economia, ho appreso che è previsto un rialzo della tassazione sul risparmio privato sempre più risicato, e quindi mi sa che la realtà prende la direzione più lontana dai nostri desiderata: storia di ieri, la metropolitana è restata ferma in una stazione perché in quella successiva un anziano si era suicidato gettandosi sotto la corsa precedente; storia di stamattina un uomo ha dovuto dire a sua moglie al telefono “Non ci posso andare a prendere la bambina a scuola anche se dice che sta male e che ha i brividi: se io oggi non mi presento al lavoro mi dicono di non presentarmici neanche domani e i giorni appresso.”

    Parlo con Cucinotta: se siamo realpolitici a trenta anni tremo a immaginare cosa saremo a sessanta, brutta rogna, lo so, ma l’utopia qui sembra arrivarci, ai sessanta anni, con il terrore di arrivarci senza essersi poi chissà quanto spostati dal dove si era a trent’anni cioè adesso; ma il mio invito-alla-constatazione, lo chiamo così, non è stato un appello all’esterno: credo sia semplicemente il dilemma che ciascuno debba risolvere, ora e qui, dentro di sé per poi pianificare le proprie azioni in maniera coerente. Io non so proprio quale sia la direzione più consigliabile, di certo credo sia ora di trarsi fuori dalla schizofrenia dentro-fuori, volontà-personale/disponibilità-del-mondo esterno. Decidere, e seguire la rotta, senza più attendismi, perché è l’attesa di un Godot a rincoglionirci più della crisi che non scherza di sicuro.

    Parlo con Buffagni: la questione, mia e dei miei amici e immagino di qualche altro milione di persone, è essenzialmente questa: ammettiamo la nostra impotenza, la nostra irrisorietà politica, la nostra mancanza di peso contrattuale: anche per queste ‘debolezze’ occorrerà rimedio, è certo, ma oggi (‘oggi’ per me non è una fissazione retorica: oggi, per dire, io ho pagato l’affitto, e questo significa che fino al prossimo ventisette devo pesare attentamente ogni spesa; l’unico intervallo di tempo in cui mi sento meno all’erta è tra il ventisette del mese, giorno di paga, e il quattro del mese successivo, quando pago l’affitto: durante questo intervallo provo una piacevole sensazione di copertura finanziaria, il resto del mese mi sento come uno che gira d’inverno a maniche corte: tanto, finché c’è la salute!) non c’è referente politico che sembri praticamente interessato all’argomento – e quando lo è o è incapace o è irrisorio pure lui. Le soluzioni che vengono pensate dal potere governativo prevede di fare di noi, io e i miei amici, i mezzi perché i loro fini si avverino: fare bella figura coi dati, con le tabelle, con le schedine da mandare in Europa o alla Borsa. Ci saranno nuovi soggetti politici, la Storia è tutto un ribilanciarsi o un provare a farlo, questo moralmente mi conforta, però la Storia ha tempi più lunghi dei miei e dei nostri, e in definitiva l’esortazione che faccio a me e ai miei amici e che i miei amici, giustamente infine, mi tirano indietro come fosse uno scarpone chiodato, è: “Siccome le cose non cambieranno a breve, prepariamoci a cambiare noi, possibilmente senza dannarci e senza tradirci.”

    Io di gente che ormai valuta tra sé e sé se sia il caso o no di tradirsi – di tradire i propri valori, le proprie scelte, il patto sociale o la propria serenità d’animo, oscillando tra sogni infondati di rivolta e alte probabilità di depressione clinica – ne vedo sempre più. E non soltanto in metropolitana. E se a loro dice male a me non potrà dire bene.

    Ringrazio per lo scambio di riflessioni. A.C.

  13. @ Cucinotta

    Se ti sforzassi di leggere meglio e di farti qualche domanda su cosa pensano gli altri invece di darlo per scontato sarebbe un piccolo passo per te… Forse non te ne sei accorto, ma io ho citato uno studioso, Emanuele Ferragina, e te ne potrei citare un altro, Andrea Fumagalli. Quest’ultimo, e lo approvo, ha proposto di cambiare l’articolo 1 della costituzione italiana: ovvero, l’Italia è una repubblica fondata sul diritto di scelta al lavoro. Le proposte come un reddito universale sono un cambiamento radicale, perché cambiano il paradigma del welfare, ovvero da un workfare basato sul fatto che lo stato ti sostiene in quanto lavoratore, a un, faccio per dire, life-fare, ovvero lo stato ti sostiene in quanto cittadino. Dal momento che oggi gran parte della vita delle persone genera profitto con il loro partecipare alla società, l’esempio più cool è il fatto che il padrone di fb guadagna con lo scambio sociale altrui, è giusto che il reddito di una persona non arrivi più soltanto dal lavoro di tipo classico che svolge. Ma è anche un discorso storico dei femminismi, come valorizzare quel lavoro che viene svolto dalle donne, ma non contabilizzato. A me tutto ciò non sembra affatto dire “il mondo va così”.

    @ A.C.

    tradirsi no, per carità, e cmq non sarebbe imputabile alla precarietà. Mia nonna da bambina andava a scuola a piedi, tornava a piedi, mangiava poco, andava ai campi, parava le pecore, faceva una vita di merda e precaria. Cerchiamo di mantenere un contegno e anche un senso delle proporzioni.

  14. ad A.C.

    Grazie per la replica. Si figuri se non la capisco, ho una figlia di 19 e un figlio di 17 anni. Quando lei scrive che a breve le cose non cambieranno e che dunque ciascuno deve “cambiare lui”, ha perfettamente ragione. Per chi vive nella sua situazione, questo è anzitutto un problema esistenziale immediato, che costringe a sperimentare la marmorea indiferenza, o addirittura l’attiva ostitlità, del mondo.
    Mi guardo bene dal farle delle prediche. In bocca al lupo.

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