di Pierluigi Pellini
[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 28 ottobre 2011].
Che i saperi umanistici non servano a niente non è tesi nuova: la sosteneva per esempio, in data 1883, un personaggio di Zola, il commerciante Octave Mouret, proprietario del grande magazzino che dà il titolo al tredicesimo dei Rougon-Macquart, Au Bonheur des dames. La tirata di Mouret, rivolta nel romanzo a un amico d’infanzia, riscuote l’evidente plauso dell’autore (a suo tempo bocciato all’esame di maturità):
dovrai ammettere che i tuoi diplomi non ti hanno dato nulla di quello che cercavi… Lo sai che il mio caporeparto alle sete prenderà più di dodicimila franchi quest’anno? Proprio così! Un ragazzo di un’intelligenza lucida che si è accontentato di imparare a leggere, scrivere e far di conto… Da me i semplici commessi intascano dai tre ai quattromila franchi, più di quello che guadagni tu; oltretutto, la loro formazione è costata meno della tua e nessuno li ha lanciati nel mondo con la promessa di conquistarlo… Certo, il denaro non è tutto. Però, se devo scegliere tra i poveri diavoli infarciti di scienza che invadono le professioni liberali per fare la fame e i ragazzi pratici, armati per la vita, che conoscono a fondo il loro mestiere, no, non ho il minimo dubbio a schierarmi dalla parte di questi ragazzi, perché loro sì che l’hanno capita l’epoca in cui viviamo!
Parole che suonano sinistramente familiari a chi assiste oggi, non solo in Italia, a un tentativo di smantellamento dell’istruzione umanistica, in nome di un utilitarismo che nega valore a tutto ciò che non produce immediato profitto, considera la cultura un costo superfluo («oltretutto, la loro formazione è costata meno della tua»), e fa della competenza tecnica e della divisione del lavoro un feticcio intangibile.
Paradossalmente, proprio Zola, durante l’affaire Dreyfus (1898), avrebbe fatto le spese dell’ironia di Ferdinand Brunetière, precisamente ispirata agli stessi principi (di razionalizzazione specialistica, divisione del lavoro, predominio dei saperi pratici) difesi da Mouret. La famosa battuta del critico conservatore, non meno stupida perché illuminante, coglie e condanna la dirompente originalità dell’“intellettuale”: la cui condizione d’esistenza è precisamente l’assenza di competenze specialistiche, di “titoli” tecnici per intervenire nel dibattito politico-giudiziario. Zola che s’immischia in una questione di «giustizia militare» è come «un colonnello dei gendarmi» che discettasse delle «origini del romanticismo».
Inevitabile constatare, oggi, che ha vinto Brunetière: all’intellettuale è ormai sottratto il capitale simbolico che gli consentiva di parlare della realtà in nome dell’eccellenza della propria produzione letteraria o dei propri studi umanistici. Di fronte alla conclamata perdita di credito sociale della letteratura e di tutte le discipline umanistiche, di tutte le attività artistiche, è comprensibile l’ansia di (ri)legittimazione che ha prodotto, sempre più spesso negli ultimi dieci anni, libri, dibattiti e convegni.
Difficile non è tanto individuare – sia pure in modo molto sommario – le cause della crisi della cultura umanistica: in primo luogo, nella longue durée, lo scollamento fra materie storico-letterarie e costruzione delle identità nazionali (il cui stretto legame ha avuto un peso determinante nell’istituzionalizzazione degli studi filologici nel corso dell’Ottocento): la diffusione di una cultura di massa, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, in specie audiovisivi, ha potuto in gran parte fare economia della mediazione della scuola e dell’università. In secondo luogo, nel tempo più breve degli ultimi tre decenni, il trionfo totalitario di una logica di mercato, che rifiuta ogni filtro fra produzione e fruizione, che rinnega ogni criterio di valore che non sia quantificabile in profitti di vendita. E forse anche, in terzo luogo, se è vera la tesi di un libro ben documentato di Christopher Newfield[1], un disegno neo-liberista e oligarchico di destrutturazione della classe media occidentale e del suo sistema di valori (uguaglianza delle possibilità di ascesa sociale, stato sociale solidaristico).
Molto più difficile sembra invece elaborare una proposta teorica coerente in grado di legittimare oggi l’esistenza e il finanziamento degli studi umanistici, senza accettare, come terreno di confronto, le stesse premesse dei loro detrattori; senza cioè accettare l’urgenza, peraltro in parte innegabile, di dimostrare – alla politica, al mercato – l’utilità pratica dei nostri studi. La sconfortante debolezza di molte delle argomentazioni prodotte rischia di risultare perfettamente inutile, se non controproducente.
Mi limito a tre esempi estremi e rivelatori, passando dalla più trita banalità, alla più contorta capziosità, all’ineffabile fideismo. Introducendo per il Mulino, pochi mesi fa, la tempestiva edizione italiana di Non per profitto, il fortunato pamphlet di Martha Nussbaum, Tullio De Mauro si sente in dovere di ricordare con molta enfasi che «non controlla l’uso delle nostre lingue, dell’italiano e dell’inglese in particolare, chi non si è nutrito di latinità». Per comodità, raggrupperò questo tipo di argomentazioni sotto l’etichetta del “buon senso tautologico”, o “ancillare”: un manager capace, o un bravo ingegnere, sono più completi, più intelligenti, e in fondo fanno meglio il loro lavoro se hanno un’infarinatura di lettere, classiche e non solo.
Secondo esempio: in un articolo che ha suscitato qualche dibattito negli Stati Uniti, un francesista, Howard Bloch, sostiene che la conoscenza delle tesi di René Girard sul desiderio mimetico nella Recherche di Proust consente di meglio comprendere e padroneggiare i meccanismi del mercato azionario, spesso guidati da analoghe triangolazioni del desiderio (e degli acquisti). Propongo di chiamare “miraggio analogico”, o “metaforico”, questo schema di ragionamento spesso non privo di fascino, ma sempre fondato su un cattivo sillogismo, che si può esplicitare come segue: ammesso che i testi letterari rappresentino un mondo di raffinata e spesso insuperabile complessità; ammesso che la complessità (topos storiografico da quarant’anni dominante: forse sarebbe tempo di decostruirlo) è la cifra delle società contemporanee; ne consegue che l’ermeneutica testuale favorisce «la nostra capacità di elaborare e produrre senso secondo quei meccanismi complessi richiesti dalla complessità delle nostre forme di vita attuali»; e sviluppa addirittura «il tipo di intelligenza più adatta alle condizioni di produzione di ricchezza proprie della nostra epoca segnata dal capitalismo cognitivo»[2].
Il che conduce direttamente al terzo esempio, che è variante caricaturale del secondo: la fiorente letteratura filosofica impegnata a discettare, appunto, di capitalismo cognitivo, prendendo ispirazione dalle teorie più recenti dell’ex operaista Toni Negri, che sostituendo alla fabbrica l’università come fulcro del nuovo sistema produttivo, intravede un’irenica via d’uscita dallo sfruttamento capitalistico: perché i nuovi proletari, detti “cognitari”, al contrario dei loro predecessori in tuta blu, sono proprietari dei mezzi di produzione (cioè del loro cervello). È vero che pare sempre più difficile, per filosofi e umanisti, sottrarsi alla tentazione di leggere nel peso crescente che oggettivamente hanno le conoscenze nel sistema produttivo tardo-moderno una storica e ormai quasi insperata occasione di riscatto per la funzione intellettuale. I racconti consolatori hanno sempre un loro stanco fascino; ma che si qui si tratti di pure illusione metafisica, bastano a dimostrarlo schiere di laureati (non solo in Lettere) sottopagati o disoccupati.
Da punti di vista diversi, o perfino diametralmente opposti, De Mauro, Bloch, gli apostoli di Toni Negri e, in un contesto filosoficamente assai più raffinato, Citton perseguono in realtà strategie convergenti: volte a preservare uno spazio alla letteratura e alla filosofia all’interno di una logica utilitaristica. Si inseriscono cioè – più o meno inconsapevolmente – in quel filone di studi umanistici “post-critici”, le cui basi teoriche sono state gettate, fra gli altri, da Bruno Latour, partendo dalla constatazione di un paradosso insostenibile, discusso da Yves Citton in un altro libro sulle sorti dei saperi umanistici (molto più importante di quello di Nussbaum e per ora non tradotto in italiano: il che aprirebbe un discorso sulle strategie di mercato degli editori italiani: anche di quelli, come il Mulino, capaci in genere di garantire un livello di qualità elevato), L’avenir des humanités. Économie de la connaissance ou cultures de l’interprétation (La Découverte, Paris 2010): e cioè dalla constatazione della «schizofrenia di un’intera generazione di professori universitari nutriti di Bourdieu, Foucault e Deleuze che tentano […] di condurre una critica radicale della disciplinarità accademica a partire dalla posizione altamente istituzionalizzata e disciplinare di una cattedra accademica». Con il risultato «paradossale» di produrre «studi umanistici critici che acquistano in seno alle università una posizione maggioritaria che gli permette di promuovere un certo antiumanesimo».
Non c’è dubbio: nella genesi dell’attuale crisi hanno un’incidenza di qualche rilievo anche le vicende dello sviluppo interno di un campo di studi che, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha imboccato le opposte vie dello specialismo esasperato (che sceglie oggetti di studio sempre più irrilevanti, trincerandosi nelle certezze di metodi para- o pseudo-scientifici), e della radicale demistificazione di ogni sapere disciplinare (che dissolve le ragioni tradizionali di legittimità degli studi umanistici: se la storia non insegna niente, la letteratura indulge ai cattivi sentimenti anziché indurre all’amor di patria, la filosofia decostruisce ogni simulacro di verità, perché mai la politica dovrebbe foraggiare gli studi umanistici?). Le conseguenze sono brillantemente riassunte da Citton: «un deserto culturale», popolato di soggetti «abbastanza ingenui da credere di poter fare a meno di ogni credenza ingenua». Di qui, da questo feroce epitaffio sul pensiero critico del secondo Novecento, nasce dunque il progetto di un umanesimo “post-critico”, capace di «promuovere l’emergere di nuove credenze emancipatrici»: miti utili, nuove narrazioni condivise – socialmente spendibili e coerenti con quella “svolta etica” che ha segnato molta filosofia degli ultimi decenni.
Significativo che questa stessa strategia, difesa da studiosi di provenienza marxista, militanti nell’estrema sinistra e fautori di quella che ho definito “illusione analogica”, sia ostentata fin dal sottotitolo (Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica) del libro già citato di Nussbaum, autentico manifesto del “buon senso ancillare”. Le Humanities risponderebbero a un «bisogno» di un preciso modello di società. Del resto, anche nei saggi di Citton la presenza del lessico dell’utilitarismo è sintomaticamente pervasiva: «ruolo», «laboratori», «allenamento mentale», «terreno di esercizio», «gestire» le «crisi di senso», ecc. Di fronte a tagli finanziari, soppressione di dipartimenti universitari, perdita vertiginosa di prestigio sociale, sembra insomma essere ormai del tutto inefficace quella risposta che per secoli, dall’Umanesimo in poi, ha garantito legittimità agli studi filosofici e filologici: studiando l’uomo ci aiutano a vivere (per citare Spinoza) «una vita propriamente umana».
Il disincanto che ci domina consiglia di affidarsi piuttosto al pragmatismo esibito da Nussbaum nel suo accorato pamphlet. Identificando l’insegnamento umanistico con il “metodo socratico” (disamina critica sganciata da ogni autorità imposta dalla tradizione) e individuando nella capacità di empatia (assumere il punto di vista dell’altro, soffrire per il dolore dell’altro) la sostanza stessa dell’esperienza estetica, Non per profitto stabilisce una facile equazione fra democrazia liberale da un lato e studi filosofico-artistico-letterari dall’altro. La filosofia fornisce le «tecniche del ragionamento critico»; la letteratura (o meglio «l’immaginazione narrativa», di fatto identificata con il romanzo) un florilegio di situazioni che sollecitano una risposta etica (come mi comporterei se fossi al posto di quel personaggio?), capaci di sviluppare, per dirla con Tagore, «la sensibilità ai problemi altrui». Gli studi umanistici sarebbero insomma indispensabili per la formazione di cittadini dotati di spirito critico, tolleranti e solidali. Dovrebbero perciò essere obbligatori, come spesso accade negli Stati Uniti, per gli studenti dei primi anni di tutte le facoltà. (E questa, sia detto per inciso, non è affatto un’americanata. Da noi una proposta simile non è mai stata presa in seria considerazione perché – si dice – il buon vecchio liceo fornisce a tutti quelle basi culturali che mancano alla popolazione dei college sull’altra sponda dell’Atlantico. Purtroppo, spesso non è affatto vero. Anziché difendere retoricamente facoltà di Lettere troppo spesso sovradimensionate, che condannano migliaia di studenti alla frustrazione e alla disoccupazione, forse sarebbe tempo di imitare, per una volta, un aspetto non macchiettisticamente economicista del sistema universitario statunitense).
In quest’ottica, tuttavia, per essere davvero utili gli studi umanistici presuppongono «una certa selettività riguardo alle opere d’arte da utilizzare»: una selettività che Nussbaum non esita a rivendicare, rifiutando ogni valore pedagogico alle «tante opere d’arte che stimolano simpatie inopportune». Se è giusto che i programmi d’insegnamento vengano «sempre più modulati con un occhio alla buona cittadinanza in un mondo di diversità», conviene censurare – la parola è mia, non il concetto: lo ha visto bene anche Claudio Giunta – opere letterarie e modelli storici incompatibili con i valori di una democrazia liberale e multiculturale (non diversamente, in fondo, da come l’ortodossia sovietica censurava i prodotti dell’arte considerata “decadente”): perché è possibile – lo suggerisce Nussbaum: sia pure in una nota e in via ipotetica – che il piacere provato da tanti bambini tedeschi di fronte all’«incenerimento» della strega di Hänsel e Gretel li abbia predisposti a accettare, se non a approvare con altrettanta gioia, i fumi di altri e più sinistri forni crematori. Dove il cortocircuito fra immaginario e realtà non è meno sconcertante dell’esempio in sé: che la lettura di un testo di fiction abbia – di norma e per statuto, non in contesti di ingenua arretratezza – effetti diretti sui comportamenti del lettore era fino a pochi anni fa bestemmia per la teoria letteraria; oggi può esser dato quasi per scontato da una filosofa alla moda.
È forse meno grottesco, ma di certo ancor più preoccupante, che nei programmi liceali, di recente approvati dal governo di destra in Francia, l’insegnamento della storia sia volto a ricostruire una genealogia delle società democratiche: con incremento dello spazio dedicato alla democrazia ateniese e quasi completa cancellazione della storia romana (il cui sbocco imperiale è evidentemente considerato illiberale e colonialista). È evidente come simili scelte siano ispirate a una selezione dei «saperi che servono»: utili pedagogicamente a consolidare le strutture della nostra società. La «capacità di pensare criticamente» invocata da Nussbaum non può spingersi, cioè, a mettere in discussione i fondamenti stessi della democrazia liberale, le sue gerarchie assiologiche di bene e male. Verosimilmente, né di Dante, né di Machiavelli, né di Céline, tanto per fare qualche nome a caso, avrebbero «bisogno», secondo Nussbaum, «le democrazie».
Di là dagli esempi concreti, la possibilità stessa di simili argomentazioni è testimonianza di uno slittamento da un paradigma incentrato sulla linguistica (dominante, grosso modo, nella seconda metà del Novecento) a uno fondato sulle scienze della formazione: anche oltre le esplicite ammissioni di Nussbaum, alla cultura umanistica è demandato il compito di sollecitare comportamenti socialmente positivi; non quello di indagare disinteressatamente il funzionamento, i significati, le ambiguità delle attività umane e dei loro prodotti. La vera sfida sembrerebbe perciò quella di legittimare la cultura umanistica anche in quegli aspetti che con il nostro modello di società non hanno rapporto alcuno: saperi che non servono (né alle democrazie né al profitto); o che addirittura possono essere messi al servizio di cause che al discorso sociale dominante paiono aberranti, facendo il contropelo a ogni stereotipo politicamente corretto. Per un letterato, nella fattispecie, la sfida decisiva consiste nel (ri)legittimare la letteratura come scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana: di qua da ogni pratica utilità. A costo di sembrare elegiaco o magari reazionario, mi pare urgente – anziché rincorrere le scienze tecnologico-applicative, o la pedagogia, o il mercato sul loro stesso terreno: in cambio di poca elemosina – rivendicare le autonome peculiarità del sapere umanistico. E il valore in sé della conoscenza: non solo di quella umanistica; e perfino di quella che ai fini disciplinari dell’ordinata convivenza “democratica” può risultare nociva.
Al contrario, se è vero che le opposte prospettive che ho definito “miraggio analogico” e “buon senso ancillare” si fondano entrambe su un cortocircuito fra testo (letterario, filosofico, storico) e concrete pratiche sociali, non stupisce che in anni recenti gli studi tematologici e culturali tendano a ridursi a mera constatazione di un’evidenza contenutistica, per di più zavorrata di buoni sentimenti; o a semplice testimonianza di condizioni marginali (vittime del colonialismo, minoranze sessuali, ecc.). Il passaggio non mediato da un’esperienza immaginaria come la lettura e l’interpretazione dei testi di fiction a una sua applicazione pratica disconosce sia la natura ambivalente della letteratura, sia le leggi del mercato. Perché è vero: il listino di Wall Street, a suo modo, non è meno complesso della Recherche (e viceversa); ma funziona purtroppo diversamente. Se la letteratura servisse solo a fornire modelli pratici di comportamento o schemi interpretativi analogici, utili alla vita pratica, non si potrebbe dar torto a un legislatore che, in tempo di crisi, privilegiasse la formazione di pedagogisti e economisti.
Forse conviene correre un rischio di anacronismo. E ricordare, con Pierre Bourdieu[3] che l’intellettuale moderno (lo Zola dell’affaire Dreyfus, da cui il mio intervento è partito) prende la parola «appoggiandosi all’autorità specifica conquistata contro la politica dagli scrittori e dagli artisti puri»; e dunque «si costituisce come tale intervenendo nel campo politico in nome dell’autonomia e dei valori specifici» dell’arte e della letteratura; afferma «l’irriducibilità dei valori di verità e di giustizia e, nello stesso tempo, l’indipendenza dei custodi di quei valori rispetto alle norme della politica». Visione umanistica, datata? o perfino idealista, etnocentrica e alto-borghese? Può darsi. Di certo, chi oggi teorizza e pratica una sistematica confusione fra esperienze dell’immaginario e pratiche sociali, e insomma fra politica e letteratura, fra pedagogia sociale e studi umanistici, mentre dichiara (e spesso sinceramente crede) di incarnare con rinnovato vigore la funzione dell’intellettuale novecentesco, ne officia in buona coscienza la definitiva liquidazione.
[1] Ch. Newfield, Unmaking the Public University. The Forty-Year Assault on the Middle Class, Harvard University press, 2008.
[2] Cito le ottimistiche conclusioni di Yves Citton, in una delle più appassionate e intelligenti difese degli studi letterari prodotte in anni recenti (Lire, interpréter, actualiser. Pourquoi les études littéraires, Éditions Amsterdam, Paris 2007; ma anche Romano Luperini, in Italia, ha difeso a più riprese un’ipotesi simile).
[3] P. Bourdieu, Le regole dell’arte, Genesi e struttura del campo letterario, il Saggiatore, Milano 2005.
[Immagine: Bibliothèque Nationale de France, Foto di Daniele Balicco].
Molto stimolanti le considerazioni e le provocazioni dell’articolo, grazie Pierluigi. Mi riservo la possibilità di fare qualche considerazione, ma intanto mi fa piacere segnalare che la traduzione italiana de L’avenir des humanités di Y. Citton uscirà nella collana “Posizioni” dell’editore :duepunti tra qualche mese.
Questo articolo ha molti meriti e spunti di riflessione. Leggendolo, e continuando a ripensarci, mi sto chiedendo se e quanto il destino dell’intellettuale umanistico e quello dei saperi umanistici vadono sovrapposti. In America, mi pare, sono due livelli molto separati, talvolta fin troppo; in Italia invece restano troppo spesso ridotti a un’unica dimensione, con esiti comunque distruttivi o autodistruttivi – come spiega bene Pellini.
Da un po’ di tempo poi Andrea Inglese scrive post o interventi a mio avviso molto interessanti sull’intellettuale postuniversitario – svincolato cioè dall’accademia, o comunque dalle funzioni tradizionalmente riferite ad essa.
grazie intanto.
Molto interessante, e soprattutto lucido nell’articolare le questioni. Mi limito a due annotazioni a margine, perché mi manca il tempo per fare di più, e mi scuso subito per l’effetto di groppo e il parziale fuori-tema. Primo: tanto la forte enfasi sul versante pedagogico degli studi umanistici, quanto l’idea di una “selezione” delle opere da proporre basata sull’utilizzabilità sociale, si ritrovano, espresse con piglio, profondità e intenzioni ben diverse da quelle della “filosofa alla moda” Nussbaum, nell’ultimo libro grosso di Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Lì sloterdijk parla senza mezzi termini della “disfunzionalità” sociale di tante “singolarità” – così si esprime – artistiche di epoca contemporanea, e tesse un elogio del museo come istituzione in grado di ritirare dalla circolazione queste singolarità, lasciando libero il campo a pratiche artistiche più “integrabili”. Di questo libro notevolissimo e a tratti geniale del più intelligente filosofo conservatore europeo si è parlato, da noi, troppo poco. Secondo: se è vero che la grande diffusione di un lessico utilitaristico e economicista negli studi umanistici o più propriamente letterari è sintomatico e preoccupante, mi pare altrettanto vero che alcuni tentativi di escludere l’utilità, la produzione, o anche semplicemente l’attività, dal cuore della letteratura si rivelino, con passare degli anni e l’evolversi degli scenari sociopolitici, sempre più chiusi in sé stessi e improponibili per qualsiasi cosa che non sia una ricerca personale e privatissima. Penso, per esempio, ad Agamben e al suo peculiare addentellato di concetti: inoperosità, profanazione, eccetera. Le poche pagine su Kafka in Devi cambiare la tua vita, o – se vi piace di più – le due pagine su Moby Dick che si leggono in Crisi della ragione cartografica di Franco Farinelli, surclassano e lasciano sul posto quanto scritto da Agamben e emuli negli ultimi 20 o 30 anni. E si tratta di pagine che senza tanti riguardi usano la letteratura per altri scopi.
Vorrei prendere spunto dai commenti fin qui pubblicati, per lasciare tre note su un articolo bello e importante, su cui bisognerebbe riflettere a lungo. Mi scuso se quello che dirò può sembrare brusco e affrettato; ciò che mi interessa davvero è che vi siano una discussione e un confronto pubblici su questi temi.
La prima nota è sullo stato attuale delle discipline umanistiche, così come sono praticate nelle università (non solo italiane). Accanto alla tradizione storico-filologica che continua un modello di umanesimo come “scienza storica” o al modello di umanesimo come prosecuzione della scienza tout court (filosofia analitica e cognitivismo), esiste una vera e propria scolastica del pensiero critico (basta pensare ai cultural, gender e post-colonial studies) che non è certo in posizione minoritaria, né sul piano accademico né su quello culturale. Questo per dire che non sono sicuro che la marginalità delle discipline umanistiche venga dal fatto che non sono abbastanza critiche; lo sono state negli ultimi cinquanta anni (fatta esclusione per le scienze storiche, la filosofia analitica e il cognitivismo). Mi chiedo se allora non si sia trattato di un pensiero critico vittima di un “miraggio analogico” o “metaforico” speculare a quello individuato da Pellini: le discipline umanistiche come metafora della politica; di una politica che era fuori della loro portata. Mi sembra insomma che la pratica delle discipline umanistiche possa sempre diventare consolatoria e sostitutiva: sia se la si intenda come contributo alla costruzione di un senso comune civile, sia se la si intenda come critica della società e dei suoi valori dominanti.
Mi sembra poi importante distinguere il progetto di educazione umanistica affidata alle istituzioni educative (scuole, università, musei, conservatori, ecc.), dall’arte e dalla cultura umanistica che circolano nella società (industria culturale intesa in senso ampio, cioè includendo gallerie d’arte, editoria, giornalismo, case discografiche e cinematografiche, ecc.). Non sono sicuro che si possa chiedere all’una e alle altre la stessa cosa. Limitandomi a parlare di università, mi chiedo anzi se quello fra istituzioni educative pubbliche e pensiero critico non sia stato un abbraccio mortale, per entrambi.
Resto comunque convinto (e con questo chiudo) che la marginalità delle arti e delle discipline umanistiche tradizionali provenga da fuori: dall’emergere della “terza cultura” delle scienze sociali da una parte, dall’emergere della “seconda cultura umanistica” affidata ai media audio-visivi dall’altra. Non ho idea di come si possa rispondere a questo.
Ringrazio molto quanti sono intervenuti. Credo che tutti, in materia di ruolo degli studi umanistici, abbiamo oggi solide convinzioni relative alla pars destruens, e idee molto problematiche e a volte vaghe per un’eventuale pars construens: che infatti non c’era quasi nel mio intervento; e che anche nella interessantissima discussione che si è sviluppata intorno al precedente intervento di Giunta (mi sento molto in sintonia, in particiolare, con le considerazioni fatte da Raffaele Donnarumma in quella sede) finisce per attestarsi su posizioni di minimo buon senso (finanziamo la scuola secondaria superiore: certo!).
Analoga incertezza sulla pars construes mi pare si sia verificata durante il convegno bolognese (“Saperi che servono”, 14 settembre 2011), dove ho letto una versione più ampia del mio pezzo (colgo l’occasione per ringraziare Giuliana Benvenuti, che mi ha autorizzato a pubblicarne una parte su “Le parole e le cose”).
Proprio perché mi trovo molto d’accordo con quanto dice Alessio Baldini, e in particolare con il sospetto (terribile) che l’abbraccio fra istituzione e pensiero critico sia (stato) mortale, vorrei pntualizzare una cosa: mi pare che i cultural studies, in particolare nella versione casereccia che va per la maggiore nei nostri dipartimenti di lingue straniere, non siano affatto una “scolastica del pensiero critico” (bella definizione, che però s’attaglia forse meglio a certo Agamben maltrattato da Francucci…), ma piuttosto una benintenzionata palestra di buoni sentimenti di sinistra, che riduce la letteratura a mero contenuto e il dibattito politico a ovvietà corrette e inutili (non basta citare meccanicamente Foucault o Said per essere ‘critici’).
Sono convinto che con la letteratura si possano e debbano fare molte cose (anche ideologicamente e pedagogicamente orientate); non ho mai pensato di rimpiangere l’art pour l’art o il fortino teorico della ‘letterarietà’. Dico solo che sia Nussbaum, sia i cultural studies, impongono alla letteratura (e in genere gli studi umanistici) un ruolo ancillare a priori perdente.
Finisco augurandomi che la discussione possa proseguire (qui, o quando uscirà per l’ottimo :duepunti il libro di Citton, tradotto da Isabella Mattazzi); e scusandomi se nei prossimi tre giorni non risponderò: sarò off line, in montagna.
Teatro Di Guerra (1998) – Mario Martone – estratto
Vorrei portare l’attenzione di tutti su un aspetto della discussione che non mi sembra sia stato messo in luce.
Finora la questione dell’utilità degli studi umanistici si è limitata a quella dell’utilità di questi studi per gli studenti. Ma ciò che è in gioco in ogni trasmissione culturale è anche l’eredità culturale di una comunità, letteralmente la sua “tradizione”, ovvero ciò che merita di essere trasmesso per conservarsi. I programmi scolastici sono la formazione di compromesso tra due diverse istanze ugualmente legittime: il bisogno degli studenti (l’utilità e il danno della cultura per la loro vita individuale), ma anche il bisogno della comunità di conservare e tramandare ciò che ritiene più importante e significativo della propria identità, della propria storia (anche qui è in gioco l’utilità per la vita, ma si tratta di quella del corpo collettivo). E questa seconda istanza, che è di natura politica, mentre la prima è più di natura etica o morale, non deve necessariamente coincidere con la prima e può persino trascenderla: qualcuno potrà anche dimostrare che lo studio del latino o di Dante non servano più a nulla per la vita del singolo (cosa di cui personalmente dubito), ma resta il fatto che la cultura italiana dispone di questa eredità come del suo patrimonio più proprio e più caratterizzante. Se si arrivasse, come spero, alla conclusione che rinunciarvi è un suicidio politico, si farebbe bene a imporre per programma questi studi fin dalle scuole superiori, e, nei limiti del possibile, per il pubblico di studenti più largo, in modo che un maggior numero di cittadini possa avere a disposizione gli strumenti minimi di accesso alla PROPRIA identità culturale. Per le stesse ragioni estenderei il discorso allo studio della storia dell’arte: non è accettabile che degli italiani vivano circondati da un mondo di opere e di immagini di cui non conoscono il linguaggio e che non sono in grado di comprendere né di valorizzare.
La cultura umanistica è un patrimonio estremamente prezioso per l’Italia: la considerazione non ha nulla di retorico, e anzi vale anche in termini molto brutali di politica economica e di marketing, come è emerso ampiamente nel dibattito sulla conservazione dei beni culturali e come si potrebbe argomentare a proposito dell’industria della moda o del design. Esiste un Italian Style riconoscibilissimo persino nelle discipline più alte: i nostri classicisti, medievisti, italianisti, storici sono molto apprezzati nelle università straniere, dove trovano facilmente posto, e chi ha vissuto all’estero sa che il successo di alcuni dei nostri intellettuali più tradotti, i nostri “prodotti nazionali da esportazione” come Ginzburg o Agamben, deriva soprattutto dal loro essere “eruditi”, cioè ancora capaci di proporre genealogie storiche di lunga durata e di interpretare testi greci e latini in funzione del presente, ovvero di far parlare una tradizione che per gli intellettuali stranieri è ormai muta.
Paradossalmente, gli studi umanistici sono proprio ciò che ci serve di più. Ma la questione dell'”utilità” va intesa in un senso che non sia solo privato e soggettivo, ma anche collettivo e oggettivo. Anche il problema della definizione di canoni e programmi, ossia della decisione di ciò che conta, che merita di essere conservato trasmesso, non può essere liquidato in una chiave morale: è un compito fondamentalmente e imprescindibilmente politico. Il confronto con tradizioni culturali e politiche diversissime dalla nostra, come quella americana, può dunque servire solo da spunto.
(@ Pierluigi Pellini)
Sono d’accordo con quanto osserva Pellini. Quello che scrive nel commento mi ha chiarito meglio il suo intervento e molte altre cose. Mi sembrerebbe già un ottimo risultato essere d’accordo sulla pars destruens. In effetti, se penso agli interventi pubblicati su LPLC (oltre a Pierluigi Pelllini e Claudio Giunta, penso Pippo Ciorra http://www.leparoleelecose.it/?p=1192) è l’impressione che si ricava: e questo è confortante (è terribile dirlo). Sulla pars costruens avrei qualche idea che alla fine del commento vorrei sottoporre ad attenzione.
(@ vladimir d’amora)
Se capisco bene il senso dell’intervento di vladimir d’amora, ciò che intende suggerire è il carattere problematico e forse fatuo di discutere del senso dell’arte e delle discipline umanistiche. Questo può essere in parte vero, se si pensa all’arte e al sapere che circolano nella società. Quando si tratta di risorse private, gli individui come singoli rispondono alla propria coscienza. È un problema morale, come mostra bene l’estratto che ci ha proposto d’amora.
(@ Signorina Else)
Quello su cui credo sia interessante e urgente discutere è però un problema politico, che in Italia riguarda anzitutto le istituzioni educative pubbliche: penso in particolare alle scuole secondarie e all’università.
Questo problema politico mi sembra che abbia due aspetti. Il primo è bene individuato da Signorina Else: è un problema di contenuti e competenze. La domanda è quali arti e quali discipline umanistiche devono fare parte dei curricula delle scuole secondarie e delle università. Personalmente credo che Signorina Else abbia ragione nel dire che l’Italia debba scommettere sulla propria tradizione. Quello di cui sono convinto però è che bisognerebbe fare di più per rendere esplicito e per spiegare come mai quella tradizione è un punto di forza: non si può più credere che questa consapevolezza si imponga da sé. Proprio perché poneva questo problema, ho trovato importante l’articolo di Andrea Cortellessa su De André (http://www.leparoleelecose.it/?p=1630).
Il secondo aspetto è quello del potere sociale delle istituzioni educative. L’efficacia delle istituzioni educative nel tramandare una cultura è misurata anche dal loro potere sociale. Su questo punto devo dissentire da Signorina Else. Quando si tratta di arte e discipline umanistiche, il compito delle scuole mi sembra trasmettere delle competenze linguistiche e culturali di base; quello delle università è preparare lavoratori e funzionari addetti alla trasmissione e conservazione della cultura (insegnanti, ricercatori, bibliotecari, sovrintendenti, restauratori, ecc). Le società non sono corpi collettivi; sono aggregati di individui, le cui traiettorie sociali possibili sono disegnate da interventi sistemici (di natura economica e politica). Le vorrei chiedere chi dovrebbe conservare e trasmettere una cultura: un esercito di disoccupati? Questo è un problema politico.
Vorrei chiudere con due suggerimenti sulla pars costruens (qui penso sopratutto alla situazione italiana). (1) Il primo punto è ridare potere sociale alle scuole, quindi all’educazione linguistica e culturale di base (ma anche a quella matematica e scientifica di base): bisognerebbe introdurre un sistema di accesso all’università selettivo, regolato e trasparente; come accade negli altri paesi europei (almeno nelle intenzioni).
(2) Per quanto riguarda le università ci sono, mi sembra, altre due cose urgenti da fare. La prima è limitare l’accesso ai curricula umanistici (almeno al livello di laurea specialistica o master), perché non siano uno strumento perverso che danneggia gli individui e nasconde le statistiche della disoccupazione giovanile. La seconda è ri-orientare i curricula umanistici sull’insegnamento (penso ancora alla laurea specialistica): credo che l’Italia sia l’unico paese europeo a non avere da una parte un curriculum per l’insegnamento e dall’altra un sistema trasparente e omogeneo di accesso alla professione di insegnante della scuola secondaria.
@Baldini
«Quando si tratta di arte e discipline umanistiche, il compito […] delle università è preparare lavoratori e funzionari addetti alla trasmissione e conservazione della cultura (insegnanti, ricercatori, bibliotecari, sovrintendenti, restauratori, ce)»
«Quando si tratta di arte e discipline umanistiche» c’è chi, a sinistra, riesce ad avere uno sguardo più liberista ed economicista di un amministratore della Bocconi. Il compito dell’università non è “creare funzionari”, che siano burocrati statali o impiegati di imprese private. Se si cede su questo punto tanto vale chiudere le università, che non saranno mai capaci di formare lavoratori, anche perché la vera formazione sul lavoro si acquisisce molto meglio direttamente sul lavoro (Jobs docet). E le grandissime aziende preferiscono assumere persone giovanissime per far fare loro carriera all’interno. Dal punto di vista economico e di quello che si fa nel proprio lavoro l’università non serve proprio a nulla. Io insegno e posso dire che anche per l’insegnamento l’università non mi è servita a nulla e non avrebbe potuto insegnarmi nulla.
«Bisognerebbe introdurre un sistema di accesso all’università selettivo […] Per quanto riguarda le università ci sono, mi sembra, altre due cose urgenti da fare. La prima è limitare l’accesso ai curricula umanistici (almeno al livello di laurea specialistica o master), perché non siano uno strumento perverso che danneggia gli individui e nasconde le statistiche della disoccupazione giovanile»
E’ curioso: si parla di crisi degli studi umanistici e poi alla fine tutti, ripeto tutti, sembrano pensare che la soluzione sia il Numerus Clausus. Perché cullarsi in questa illusione? Se ci sono disoccupati in Italia non è certo colpa dell’università, men che meno delle facoltà umanistiche. Lasciamo le questioni economiche agli economisti, altrimenti ci rendiamo ridicoli.
Come ha detto giustamente @Signorina Else l problema dei curricula umanistici non è né economico, né sociologico, ma politico perché riguarda la decisione sovrana che uno stato prende a proposito della sua identità più profonda, quella culturale.
E ci sono problemi epistemologici da risolvere molto più seri. Non ci sono due “umanisti” in grado di accordarsi su quali materie debbano essere insegnate nei curricula umanistici, né sul peso da accordare alle diverse discipline, né sull’appartenenza della propria disciplina alle scienze umane o a quelle naturali (vedi i filosofi analitici o i sociologi che fanno ricerca statistica). Tanto per fare un esempio banale, chi è iscritto ad una facoltà di lettere può uscirne senza aver mai letto la bibbia e senza aver la più pallida idea di quando i singoli testi che la compongono sono stati scritti. Questo significa, tanto per citare di nuovo @Signorina Else, che i laureati in lettere «vivono circondati da un mondo di opere e di immagini di cui non conoscono il linguaggio e che non sono in grado di comprendere», visto che metà dell’iconologia ha temi tratti dall’immaginario biblico. Questo è quello di cui dobbiamo parlare, non del tasso dei laureati disoccupati o del numero chiuso. Lasciamo questi dettagli ai burocrati e agli amministratori.
«Credo che l’Italia sia l’unico paese europeo a non avere da una parte un curriculum per l’insegnamento e dall’altra un sistema trasparente e omogeneo di accesso alla professione di insegnante della scuola secondaria»
Falso. La Francia, tanto per fare un esempio, non ce l’ha. La Germania ce l’ha, ma funziona molto male, perché il curriculum per l’insegnamento è un corso di studi di livello decisamente inferiore sia per quantità che per qualità.
Per favore finiamola di parlare dell’Italia con questo assurdo complesso di inferiorità. Nelle altre nazioni il sistema non è affatto migliore: il sistema universitario tedesco per le scienze umane è molto peggiore di quello italiano, quello francese (con il doppio binario ENS per l’élite, università per la massa e lo scoglio dell’agrégation) è pieno di problemi drammatici. Quello spagnolo è semplicemente ridicolo. Basta con questa forma di snobismo da provinciali invidiosi e complessati. L’Italia ha i suoi problemi (niente affatto superiori a quelli di qualsiasi altro paese) ma anche e soprattutto risorse che vanno messe in risalto.
@ Baldini, Averroè
Un appunto minimo: la riforma Gelmini prevede appunto l’istituzione di corsi di laurea magistrale per l’insegnamento, e le università si stanno muovendo (di fatto, pensando a sostituti delle vecchie SSIS). Ora, anche i funzionari e i consiglieri della Gelmini, ogni tanto, possono averla vista giusta; però…
@ Averroè
“Dal punto di vista economico e di quello che si fa nel proprio lavoro l’università non serve proprio a nulla. Io insegno e posso dire che anche per l’insegnamento l’università non mi è servita a nulla e non avrebbe potuto insegnarmi nulla.”
Per prima cosa vorrei chiedere ad Averroè dove ha imparato a insegnare, visto che dichiara di insegnare. Perché mi auguro che sappia insegnare e non ho motivo di dubitarlo. Io ho in mente due risposte. La prima: ha imparato a insegnare dai suoi insegnanti, ad esempio per imitazione (come spesso accade) e non se ne rende conto o non vuole ammetterlo. In questo caso, le consiglio sia di riflettere meglio su quello che fa, sia di mostrare più gratitudine per le istituzioni e le persone che le hanno permesso di avere una cultura e un lavoro. Non è forse questa la “tradizione”? Mi auguro poi che i suoi studenti impareranno a insegnare per imitazione, se avranno la fortuna di insegnare. Oppure (ed è la seconda risposta) ha imparato a insegnare da qualche altra parte; dovrebbe allora dirlo ai suoi studenti, o almeno a quelli che vogliono diventare insegnanti. Ma forse a lei tutto questo non interessa, forse lei pensa che non valga pensare agli studenti e preferisce pensare alla cultura.
“«Credo che l’Italia sia l’unico paese europeo a non avere da una parte un curriculum per l’insegnamento e dall’altra un sistema trasparente e omogeneo di accesso alla professione di insegnante della scuola secondaria»
Falso. La Francia, tanto per fare un esempio, non ce l’ha.”
Quello che dice è scorretto. Intanto la Francia ha l’agrégation, come lei stesso ricorda. Poi in Francia l’école normale supérieure (ENS) ha proprio la funzione di preparare insegnanti e ricercatori. Ed è attraverso questa istituzione e quel concorso che la Francia prepara e recluta il corpo insegnante; come lei sa meglio di me. Poi l’Europa non è solo Francia e Germania: c’è l’Inghilterra, ci sono i paesi scandinavi, ecc. E comunque sia, non le sembra grave che l’Italia non abbia né un curriculum, né un sistema di reclutamento pubblico del corpo docente? Ma forse questo non le interessa.
“Per favore finiamola di parlare dell’Italia con questo assurdo complesso di inferiorità.”
Non so se lei si riferisca a quanto ho scritto. Mi sembra di avere detto quello che l’Italia dovrebbe puntare sulla propria tradizione e valorizzarla. A lei, come a Signorina Else, interessano sopratutto i contenuti e le forme della didattica e della ricerca. Concordo pienamente con l’importanza di questo punto, che era già stato sollevato giustamente da Signorina Else. Ma non crede che questioni politiche e sociali che riguardano l’educazione siano altrettanto importanti? Lei pensa che le scuole e le università che lei ha frequentato non siano state oggetto di progettazione pubblica? E quello che mi interessa è proprio la discussione e la progettazione delle istituzioni educative pubbliche, il rafforzamento del loro potere sociale. E non mi risulta che questo punto sia al centro dell’agenda economica e politica del liberismo o del neo-liberismo, ma piuttosto di correnti politiche (di destra o di sinistra) attente alla cosa pubblica. Sono convinto anch’io che bisogna anche andare “oltre l’utilitarismo”; ma buttare a mare la prospettiva utilitarista vuol dire condannare interamente il progetto della modernità: scienze sociali, welfare state e la tradizione del socialismo.
Caro Averroè, ma non sarà mica che lei vuole tornare al Medioevo dei monasteri?
Mi permetta poi un’ultima battuta: ma lei pensa di essere l’unico italiano che vive all’estero e che ha scoperto che in Italia non era tutto così male come sembrava? Sa che temo che a volte la nostra (mi permetta di farle compagnia) sia solo nostalgia? E poi scusi: come mai se ne è andato?
@ Alessio Baldini
«A lei, come a Signorina Else, interessano sopratutto i contenuti e le forme della didattica e della ricerca. Concordo pienamente con l’importanza di questo punto, che era già stato sollevato giustamente da Signorina Else. Ma non crede che questioni politiche e sociali che riguardano l’educazione siano altrettanto importanti? Lei pensa che le scuole e le università che lei ha frequentato non siano state oggetto di progettazione pubblica?»
Vorrei solo precisare che il mio discorso riguardava proprio l’educazione, nelle sue implicazioni morali e politiche. Sulla formazione di professionisti della ricerca, come ho già scritto, la penso sostanzialmente come Giunta. http://www.leparoleelecose.it/?p=1559
Io che credo nella forza della parola sono stata zittita da amanti disamorati, nipoti in preda a deliri giovanilistici, e una buona musica e un’ottima lettura al mattino non mi hanno salvaguardata da un litigio al pomeriggio, vorrei dire che la Cultura mi rende più forte, roflessiva, mi dà la capacità di scegliermi un lavoro migliore (non lo fa) ma invece la realtà è molto più deleteria, in realtà nulla mi conforta nella desolazione quotidiana, leggere sì, finché i miei occhi ce la faranno e son contenta di aver accumulato libri piuttosto che dibiti, resta il fatto che sentendo in tv una che dice “ho riuscito a comprare” vien da ridere ma se non si riesce a comporare neppure da mangiare, allora son dolori..forse gli stessi della Germania weimariana, con tutto ciò che ne seguì…
Scusate l’ortografia, ho scritto in fretta, riflessiva non roflossiva, debiti e non dibiti, comorare e non comporare…vendetta dell’ho riuscito!
@Baldini
«Per prima cosa vorrei chiedere ad Averroè dove ha imparato a insegnare, visto che dichiara di insegnare»
Ho imparato insegnando, facendo un mucchio di errori nei primi anni, anche a spese degli studenti.
«Le consiglio sia di riflettere meglio su quello che fa, sia di mostrare più gratitudine per le istituzioni e le persone che le hanno permesso di avere una cultura e un lavoro»
Ho imparato molto dai miei docenti, ma purtroppo non l’arte di insegnare: non perché non fossero bravi, ma perché la tecnica dell’insegnamento non è “insegnabile”. Uno può avere avuto gli insegnanti più bravi del mondo, essere un grande studioso, ma un pessimo insegnante. E con tutta la buona volontà, chiunque inizia a insegnare sbaglia mille cose, perché non ha gli occhi per vedere. Poi pian piano si migliora.E’ un problema di pratica, di esperienza, qualcosa che si affina nel tempo con molta fatica, con moltissima passione, e sempre e solo a proprie spese, perché gli studenti non perdonano così facilmente gli errori che si fanno. E non c’è un metodo, non c’è nessuno che ti può davvero “insegnare”, dire quello che devi fare, perché molto dipende anche dal tuo carattere, e dalla maniera in cui riesci a gestire la parola pubblica. Al massimo può scambiare due chiacchiere con chi lo fa da tanto tempo, ma non basta. Anche perché ogni volta in classe la situazione cambia ed è importante evitare di pensare di avere già ricette pronte. Ed è proprio questo uno degli aspetti più belli di questo mestiere!
«Ma forse a lei tutto questo non interessa, forse lei pensa che non valga pensare agli studenti e preferisce pensare alla cultura»
Per nulla. Io adoro insegnare e credo che l’insegnamento sia molto più importante della ricerca e persino della “cultura”. Ma è è così, non avrei potuto impararlo altrimenti che cominciando a farlo. E del resto mi sembra che per quasi tutti i mestieri sia così: quanto l’esperienza di campo ti può dare è infinitamente più grande di quello che ti può insegnare qualcun altro.
«Quello che dice è scorretto. Intanto la Francia ha l’agrégation, come lei stesso ricorda. Poi in Francia l’école normale supérieure (ENS) ha proprio la funzione di preparare insegnanti e ricercatori.»
Lei aveva parlato di un curriculum di studi separato per l’insegnamento: è qualcosa di molto preciso che esiste, per esempio, in Germania, ma non in Francia. L’agrégation non è «un curriculum per l’insegnamento», è un concorso, ed è una cosa molto diversa. E sul fatto che l’agrégation «prepari» il corpo insegnante ho più di un dubbio. Quanto all’ENS, non prepara affatto insegnanti: senza passare l’agrégation o il CAPES in Francia nessuno ha il diritto di insegnare nel secondario, almeno per ora.
«E comunque sia, non le sembra grave che l’Italia non abbia né un curriculum, né un sistema di reclutamento pubblico del corpo docente?»
No, non mi sembra grave che l’Italia non abbia un curriculum di insegnamento. Non credo che un insegnante debba essere preparato in modo diverso da altre persone, perché l’esperienza che ho avuto di curricula separati non mi ha convinto. Se ne può discutere, ma volevo dire solo che non mi sembra questo il problema fondamentale del curriculum umanistico. Anche perché la questione del curriculum per l’insegnamento non è un problema che riguardi in modo specifico il curriculum umanistico, ma la configurazione globale del sistema educativo di uno stato. E su questi massimi sistemi le opinioni sono molto varie.
Sul sistema di reclutamento pubblico del corpo docente (scolastico e universitario) in Italia c’è poco da dire: è un disastro, ma anche qui, non si tratta un problema specifico del curriculum umanistico. E’ un problema nazionale, che in realtà non è concerne nemmeno solo la scuola o l’università, ma tutto il mercato del lavoro e che non ha le sue radici in disfunzioni di natura tecnica, ma in due cardini dell’identità italiana: la tradizione picaresca dell’esaltazione della corruzione pubblica e privata e il familismo amorale.
«Non crede che questioni politiche e sociali che riguardano l’educazione siano altrettanto importanti?»
Sì, ma sono molto più importanti ed urgenti le questioni interne alla stessa legittimità delle scienze umane. Anche se l’università avesse un numero chiuso, un sistema di reclutamento perfetto, un curriculum separato per l’insegnamento i problemi relativi alla legittimità del curriculum umanista resterebbero intatti.
Stessa cosa per il «rafforzamento del loro potere sociale»: il «potere sociale» delle università è in declino ovunque in Europa, e non credo che un sistema di accessi controllati, numero chiuso, curriculum separati ecc. possa risolverlo. Mi scusi se le sono parso troppo deciso, ma volevo dire solo questo: parliamo di cose un po’ più centrali e soprattutto di quello di cui possiamo parlare, non degli accidenti tecnici di cui si curano i ministri dell’educazione di ogni santo governo che cade. Ripeto: nessuno in questo spazio sarebbe d’accordo su una definizione minima di «scienze umane». Questo mi sembra una questione più importante del problema del numero chiuso, no?
Intervengo dopo aver letto “perché gli studi umanistici 1/2”.
Mi sento di contestare (rispettosamente) l’affermazione di Averroè: «Riforma del tutto inutile, anzi dannosa, perché il sistema secondario italiano (liceo classico, liceo scientifico, istituti tecnici) era il migliore d’Europa, senza ombra di dubbio». Ovviamente lo faccio da un punto di vista generale e politico, non avendo conoscenze specialistiche in merito e tagliando con l’accetta.
Mi dico: quella gerarchia scolastica gentiliana era funzionale ad un ordine politico fascista e ad una modernizzazione dell’economia organica a quel potere. Entrambe sono saltate con la Seconda guerra mondiale e la sconfitta dell’Italia. Il passaggio dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale (ai tempi del “boom”) ha imposto un mutamento, delle “riforme”. Il fatto poi che siano falliti sia i tentativi “rivoluzionari” del ’68 (“università critica”, ecc.) sia i tentativi di riforme o pseudoriforme correttive non vuol dire che quell’Ordine ( come minimo classista) fosse il «migliore» (per chi?). E se ne può avere nostalgia solo perché siamo finiti in una palus putredinis da cui non sappiamo più come uscire: imitando gli Usa? la Francia? la Germania?
Riduttiva mi pare anche l’affermazione: « La letteratura deve essere studiata perché l’uomo fa letteratura. Punto. Poi ognuno con la letteratura fa quello che vuole: autori, lettori e insegnanti. E’ stato sempre così ed è giusto che sia così. Anche con la chimica ognuno farà nella vita quello che vuole».
La letteratura, la chimica (o l’agricoltura o tante altre cose) si trasformano nel tempo. Non sono “sempre così”. E bisogna pur vedere come si trasformano e chi delle trasformazioni di quel sapere viene avvantaggiato e chi invece no. I saperi (ma anche i linguaggi) – avevo imparato decenni fa – non sono neutri in sé. Non sono disponibili per tutti nella stessa misura. Non sono un tesoro che sta lì e basta scovarlo con un po’ di fatica (maggiore e a volte insopportabile per i provenienti da famiglie poco acculturate; minore o minimo per chi già in casa quel tesoro l’ha usato come “bene quotidiano” e facilmente disponibile). E non parliamo della trasmissione dei saperi ( Ah, la tradizione!) dagli adulti ai giovani. Che è sottoposta a censure, autocensure, rimozioni, accanimenti e sadismi pedagogici di ogni tipo. E come dimenticare le strutture – aule, attrezzature scolastiche, biblioteche, ecc- che in pochi casi sono d’avanguardia, mentre nella scuola pubblica sembra si sia tornati per alcuni versi alle ottocentesche “società di mutuo soccorso”.
Quanto ottimismo astratto in quell’ «ognuno farà nella vita quello che vuole» della letteratura o della chimica, una volta che le ha apprese! Che se ne fanno i disoccupati, i precari, gli stessi insegnanti? Non è proprio vero che «ognuno con la letteratura (o con il cinema, o con la filosofia, o con la poesia), nel tempo, ha fatto quello che gli garbava». L’incrudimento della crisi che l’Italia ( e non solo) sta sopportando, concede a un numero sempre più ristretto della popolazione di fare quel che gli garba e alla massa di arrangiarsi e smarrirsi. E se posso concordare che « la scuola mica è il catechismo» e che «mica dobbiamo diffondere i valori di cristo», perché sacche di laicismo (spesso vile e opportunista) ancora non sono del tutto scomparse, come non vedere che nuovi catechismi vengono soavemente riproposti, come si desume dall’articolo di Giunta?
Che «lo scopo di un’educazione umanistica sia quello di far fiorire la «cultura aziendale» non è forse una proposta di “catechismo aziendale”? E se questa « Nussbaum sostiene che i buoni libri servono a formare dei buoni cittadini democratici», non è segno che molti sono purtroppo propensi a diffondere un “catechismo democratico” ( magari contro altri catechismi: islamici, fondamentalisti, “terroristi”) e che la democrazia da processo (conflittuale!) ha già adottato (o sta adottando, ad essere ottimisti) metodi un po’ “dittatoriali”? E che la «più raffinata cultura umanistica» si presta volentieri alle catechizzazioni, tanto che « ha spesso prosperato nelle dittature», come alcuni hanno opportunamente ricordato?
«Un insegnante è un impiegato statale» ovvio. E «non un profeta», ovvio. E tuttavia c’è distinzione tra ruolo e funzione. Quando i tempi si fanno davvero bui e lo Stato, di cui è impiegato (ricordate Kant!) e il senso comune di presidi e colleghi lo incitano nuovamente a «credere obbedire combattere» (democraticamente, s’intende!) senza pensare per che tipo di democrazia sta lavorando, può forse districarsi (magari solo di una virgola da circolari e decreti, dal ruolo) per assolvere una funzione intellettuale critica (una volta si diceva “universale”, insomma che andasse al di là dei propri annusamenti specialistici).
Dissento in parte anche da Donnarumma: non credo che in questa società, in questa scuola, si possa «impiantare stabilmente un terreno in cui una classe ha gli strumenti per interpretare un testo, e far sì che ciascuno si dìa le sue risposte da sé». Un tale progetto è al massimo un ideale regolativo kantiano (debole, se individuale) che resterà sempre una (buona, rispettabile, circoscritta) utopia. Il problema più arduo è come contrastare sul serio (politicamente, secondo me) quel senso comune (costruito dall’alto e dal basso) che richiede, appunto, «una letteratura immediatamente educativa» (=conforme ai valori ufficiali e acquisiti) e più in generale di non smuovere poteri e privilegi acquisiti. Questa non è solo la richiesta di «una via facile». E’ conformismo, è regressione ( che oggi si presenta in vesti addirittura “democratiche”, quelle stesse che addobbano le guerre di “umanitarismo”, surrogato degenere dell’umaniesimo di cui qui si parla). Non me la sono mai sentita di oppormi a «qualunque forma di autorità». Neppure nel ’68-’69. È doloroso, ma devo dar ragione ad Averroe su questo punto:”il potere è una dimensione umana, necessaria”. Non in eterno, come egli sostiene, ma no so per quanti secoli ancora. Se ad un’autorità preesistente non si riuscirà a contrapporre un’altra autorità più alta, coerente, rigorosa di quella (magari collettiva, un partito insomma) finiamo per rimanere nella palus putredinis. Non sarà mai possibile che « ciascuno si dìa le sue risposte da sé». Per mettere gli individui in una condizione del genere, bisogna prima costruirla.(Lo si è tentato con un secolo di “socialismo” ma non si è riusciti). Bisogna accettare la scommessa, correre ancora tutti i rischi di affidarsi a « Maestri, Legislatori, Semafori dello Spirito», aumentando se possibile gli antidoti per non farsi schiacciare. (Cfr. il rompicapo irrisolto tra movimentismo e partitismo, a cui ho accennato nel post di De Carolis).
«Chi ha vissuto all’estero sa che il successo di alcuni dei nostri intellettuali più tradotti, i nostri “prodotti nazionali da esportazione” come Ginzburg o Agamben, deriva soprattutto dal loro essere “eruditi”, cioè ancora capaci di proporre genealogie storiche di lunga durata e di interpretare testi greci e latini in funzione del presente, ovvero di far parlare una tradizione che per gli intellettuali stranieri è ormai muta».(signorina Else). Questa posizione mi pare sorvoli sul significato politico da dare al « successo di alcuni dei nostri intellettuali più tradotti». Perché certuni e non altri? E in quali paesi “esteri” hanno successo? Ci fosse in questa discussione sulla «cultura umanistica» una riflessione sul contesto storico in cui la stiamo facendo! Ma qui il discorso si complicherebbe troppo e smetto.
P.s.
Nel 1998 Romano Luperini pubblicò “Il professore come intellettuale” (lo lessi nell’edizione Lupetti) dove trattò molti dei temi qui affrontati. Come insegnante (allora) di italiano e storia in un ITIS di Milano gli scrissi una lunghissima lettera: http://immigratorio.blogspot.com/2011/08/su-romano-luperini-il-professore-come.html#more
Mi permetto di segnalarla come “reperto archeologico” a quanti avessero curiosità di come la pensavano certi “antenati” marchiati dal ’68 e di non restare in recinti generazionali o “attuali”.
e voglia die di non restare in recinti generazionali o “attuali”.
Ho letto un po’ velocemente… la questione se non ho capito male è su chi debba salire sull’arca e attraversare i disastri di un capitalismo ormai troppo maturo (marcio?)?
Mi pare una discussione già sentita e letta un po’ di volte nella storia… purtroppo non mi ricordo mai come va a finire quella discussione…
Ciaooooooo!
@Baldini
Avevo dimenticato la sua ultima domanda:
«Pensa di essere l’unico italiano che vive all’estero e che ha scoperto che in Italia non era tutto così male come sembrava? Sa che temo che a volte la nostra (mi permetta di farle compagnia) sia solo nostalgia? E poi scusi: come mai se ne è andato?»
Io non ho nostalgia dell’Italia. Ma non c’entra nulla il fatto di vivere o meno in Italia. La questione è solo quella di parlare di un paese (del proprio o degli altri) con lucidità, perché «la lucidità, in politica, è tutto» (@Piras). E a me sembra che il sistema italiano non sia affatto il peggiore in Europa. Ha i suoi difetti ma anche molti pregi, come qualsiasi altro paese. E comunque, ripeto, la questione non sta lì, perché non è di natura tecnica. E’ un problema politico e culturale (@Else), e non può essere risolto con un dibattito sul numero chiuso.
@ Raffaele Donnarumma
… potrebbe non bastare o addirittura rivelarsi un errore, o una trappola. Non c’è una singola soluzione legislativa, amministrativa o tecnica che possa risolvere una questione così complessa come lo stato delle discipline umanistiche in Italia. È possibile che una proposta come questa (che in teoria e senza avere visto i documenti mi sembra sensata) si riveli una follia. Di certo non basta.
@ Signorina Else
Volevo solo distinguere i problemi “interni” (contenuti e forme) delle discipline e della cultura umanistica, da quelli “esterni” (condizioni sociali ed economiche in cui si praticano). Avevo pensato che intendesse dire che i problemi veri siano solo interni o che una volta risolti quelli i problemi esterni si risolvano da soli. Ma vedo che non è così. Condivido anch’io quanto dice Claudio Giunta.
@ Averroè
Ora capisco meglio quello che intendeva dire; e capisco anche che non sono stato chiaro su un punto. Ma andrei con ordine:
1. Sull’insegnamento ha perfettamente ragione: si impara insegnando, attraverso errori. Ma penso che almeno alcuni degli insegnanti che ha incontrato (che magari ha ascoltato solo una volta durante una conferenza) le abbiano trasmesso (anche non intenzionalmente) un repertorio di tecniche e risorse a cui lei può attingere, combinandole con la sua personale creatività. O comunque è il fatto stesso di avere vissuto in un ambiente accademico (fatto di conversazioni, biblioteche, rituali, ecc.), ad averle dato la sicurezza e ad averle consegnato i riferimenti necessari per diventare un buon insegnante. Sono convinto insomma che si diventi buoni insegnanti attraverso un ambiente costruito da altri, anche se certo spesso sono le qualità individuali a distinguere un buon insegnante da un cattivo insegnante (che può poi essere un ottimo ricercatore).
2. Sul curriculum di insegnamento non sono stato chiaro. L’interesse di un curriculum per l’insegnamento non sta tanto nei contenuti e nelle forme della didattica, che spesso sono identici, se non peggiori (lei ricorda giustamente il caso della Germania). Sono d’accordo con lei anche quando dice che un curriculm per l’insegnamento non è di per sé necessario. Necessari mi sembra siano: (i) un sistema di reclutamento pubblico omogeneo del personale docente, sia dell’università sia delle scuole secondarie; (ii) un minimo di progettazione quantitativa e qualitativa in campo educativo (quanti insegnanti potenziali formare? Cosa insegnare loro? ecc.). Non capisco perché una forma di numero chiuso la sconcerti così tanto: è una realtà in Inghilterra, in Germania e nei paesi scandinavi (per citare i paesi di cui ho qualche esperienza diretta).
Certo lei ha ragione a ricordare che non c’è da farsi troppe illusioni. La crisi del modello sociale europeo e l’anomalia o crisi italiana sono due fenomeni di lunga durata. Ma non pensa che una proposta come una qualche forma di numero chiuso (ce ne sono di tanti tipi: si vedano ancora la Germania, i paesi scandinavi, ecc.) possa aiutare a mettere un poco di ordine in un microcosmo sociale allo sbaraglio come sono le facoltà umanistiche italiane (e anche alle altre facoltà, alcune delle quali hanno già il numero chiuso) e ridare un poco di credibilità e potere alla scuola secondaria?
3. Concordo con lei (e con Signorina Elsa e Claudio Giunta) anche su altri due punti: (i) la questione dei contenuti e delle forme della didattica è centrale; (ii) l’arte e la cultura umanistica sono importanti per molte ragioni e sono ben vive fuori dalle scuole e dalle università. Anche qui, quante cose da dire!
Per affrontare i problemi sulla scala politica generale che lei pone, ci vorrebbe un programma di governo. Per esempio, nessun numero chiuso ha senso se non si aboliscono gli ordini professionali e il controllo delle famiglie sulle professioni liberali. Se vuole quindi chiudiamo la discussione qui e torniamo a parliamo di filosofia analitica, “social sciences vs humanities”, “cultural studies”, tradizione e cultura contemporanea ecc.; tutte cose importanti, ma non meno importanti delle condizioni sociali e politiche in cui si lavora.
Mi lasci stilare la sezione che riguarda l’educazione pubblica di un mio piccolo personale “programma di Erfurt”: (i) rilanciare con argomenti all’altezza dei tempi l’educazione umanistica italiana, nelle forme e nei contenuti didattici, con qualche aggiustamento. Penso che per questo aspetto le discipline umanistiche italiane siano nella stessa condizione dell’architettura italiana descritta da Pippo Ciorra: bisogna spiegare a noi stessi e agli altri altri perché abbiamo risorse importanti e innovative (sono d’accordo con lei, lo apprendo da Ennio Abate, quando dice che “il sistema secondario italiano era il migliore d’Europa”; aggiungerei le elementari e le lauree umanistiche, oggi le lauree di base); (ii) forte riduzione dei dottorati (già in corso); (iii) accesso regolato a tutte le facoltà universitarie (una forma di numero chiuso), comprese quelle umanistiche (per esempio in base ai risultati scolatici, con possibilità di recuperare: è il modello svedese), sia al livello delle lauree di base, sia (e sopratutto) al livello delle lauree specialistiche (i master sono già a pagamento); (iv) costruzione di un sistema omogeneo di reclutamento del personale docente della scuola secondaria.
Forse lei ha ragione nel dire che non ha senso o che non abbiamo diritto di discutere di queste cose.
Suo Hilferding
@Donnarumma, e a tutti
… e però, per esempio, io non riesco a farmi persuaso che un biennio specialistico appositamente dedicato, dopo un triennio “generico” (e non, come accadeva ancora con le SISS, dopo un percorso universitario intero), riesca a produrre insegnanti validi e formati. Qualche didattica – spesso nient’altro che corsi di letteratura travestiti, e anche malamente – e un’infarinatura pedagogica, cosa possono su studenti che spesso, non dico all’immatricolazione ma al giro di boa del triennio, faticano a seguire un testo con una sintassi mediamente complessa e si trovano diciamo eufemisticamente a disagio nella confezione di qualsiasi scritto?
Forse i grandi orizzonti politico-culturali – la trasmissione, la tradizione – hanno bisogno di essere anche trascritti in chiave più pragmatica. Forse si deve parlare anche di cose meno “nobili” e accattivanti ma altrettanto, se non più, in questo momento, importanti. Non credo sia possibile distinguere, oggi, sull’argomento, i discorsi di grande respiro da quelli puntati sul particolare.
Ho dubbi, e non certezze; e un paio di questi dubbi passo ad esporvi.
Tutti sappiamo che alla gran parte dei neoiscritti alle facoltà umanistiche bisognerebbe innanzitutto (re)insegnare l’italiano. (Siete d’accordo?) Dicendo questo non voglio fare nessuna geremiade indiscriminata né contro la scuola superiore né tantomeno contro il panorama elettro-acustico-visuale in cui gli studenti e ormai già qualche professore hanno vissuto e vivono. Dico solo, per il momento, che la situazione è questa, e che, per fare un esempio, una facoltà di Lettere che in nome della trasmissione di contenuti (o forme) “alti” si disinteressa, nella sostanza, di questa situazione è come se in tal modo sottoscrivesse l’irrilevanza che da più parti le viene imputata. Semplicemente, lì dentro non passa nulla. Non è possibile formare nessuno se manca la confidenza e la consapevolezza della e nella lingua che si parla e, soprattutto, si scrive; e una confidenza di questo tipo in media non c’è.
Ora, per reinsegnare la lingua italiana (la grammatica, la sintassi, l’ordine logico) la struttura dei corsi non va bene: è troppo rigida, i mezzi di verifica non sono adeguati, eccetera. Si potrebbe pensare (ma ci si potrebbe pensare davvero, o è una pia illusione?) a un sistema misto di lezioni ed esercitazioni (tenuti dai docenti e non dai laureandi o dottorandi) da impartire nel primo semestre, o addirittura nel primo anno, o più. O si potrebbe pensare ad altri metodi, ma una questione si presenterebbe comunque: che testi utilizzare, che testi proporre, agli studenti? è tradizione anche questa, o no?
Se pensiamo che l’obiettivo più urgente sia – lo dico in modo semplice e fors’anche semplicistico – proporre un criterio d’ordine, un po’ di sintassi, che funzioni come orientamento, e insieme a questo degli strumenti di decifrazione non della “complessità del mondo” o della Borsa di New York, ma di un articolo di giornale, di uno spot pubblicitario, del discorso di un politico, allora i testi letterari devono essere usati in maniera quasi puramente strumentale, e devono essere il più lineari, scorrevoli, “medi” possibile. E’ tremendo, ma credo non ci sia altro modo. Per spiegare meglio ciò di cui parlo faccio un esempio. Per uno scritto di italiano a una classe di matricole di una facoltà umanistica è stato assegnato (ho assegnato) Luna e gnac, di Calvino, con la consegna di riassumerlo. Luna e gnac, non L’incendio di via Keplero, non Morte del re di Francia. Più della metà della classe non è riuscita a dar conto correttamente nemmeno del profilo referenziale del testo. In parole povere, leggevano un altro racconto. Numerosi sono stati i casi in cui, dove il racconto diceva “soltanto metà della scritta luminosa era visibile dalla finestra, perché la parte restante era coperta da un palazzo”, il riassunto recitava “solo metà della scritta si illuminava”. La situazione di cui l’episodio testimonia è, credo, diffusissima. Questo non mette a repentaglio l’idea stessa di una trasmissione dei saperi (umanistici), dato che la trasmissione passa soprattutto, tolta la parte importantissima ma quantitativamente minoritaria della parola dell’insegnante o dell’amico o di chi volete voi, attraverso il testo scritto? Badate bene che non sto parlando di sordità ai registri stilistici, alle sfumature linguistiche, o di cecità agli accorgimenti costruttivi; sto parlando di settanta studenti universitari incapaci di capire, come si diceva una volta, “quello che dice” la pagina che stanno leggendo. Una pagina semplice, per di più
Naturalmente ripartire, con la didattica, da un livello tanto elementare significherebbe un ulteriore crollo della ricerca, che diventerebbe, più di quanto sia già, un affare da curarsi negli scampoli di tempo, nei mesi estivi, gettando all’intorno occhiate sospettose, tenendo aperto Marcovaldo per coprire La Scienza Nuova.
Ma se si vuole sperare che un progetto di conservazione e trasmissione del patrimonio culturale (e lo so anch’io che i distinguo e le obiezioni possibili sono moltissimi) funzioni, cioè faccia quel che promette, credo fermamente che si debba cominciare da qui. Devo dirlo? Dalla rialfabetizzazione. E non sarebbe un inizio breve, né facile.
@ Federico Francucci
Sono d’accordo con lei. Rilanciare una educazione umanistica basata sulla lettura dei testi scritti, sulle competenze linguistiche di base della lingua scritta (lessico e grammatica) e su quelle stilistico-retoriche (la sintassi al di là della frase, uso della lingua a fini persuasivi): questo significa rilanciare la componente di base del modello di educazione umanistica italiana (= cultura scritta + storicismo).
In Inghilterra (dove lavoro) e in altri paesi europei, quello di cui lei parla non è più al centro dell’educazione umanistica: né nelle scuole secondarie, né nelle università.
Proprio thread appassionanti come questo mi fanno vedere tutti i limiti della discussione in rete, e il capestro della sua natura ibrida fra oralità e scrittura (Averroè).
Mi limito a poche osservazioni, a volte laterali:
1. Il testo di Pellini mi è piaciuto molto, soprattutto quando rivendica l’ambiguità della letteratura, il valore della conoscenza in sé, anche fuori di qualunque utilità, e la necessità di un passaggio dal proprio sapere specifico al dibattito pubblico e comune.
2. I due filoni che ha preso il discorso (uno sulle istituzioni della trasmissione del sapere, l’altro sulla libertà del ricerca in campo umanistico) siano intrecciati, ma distinti. Che la scuola debba cooperare a formare cittadini della repubblica, in quanto istituzione pubblica e obbligatoria, è fuori di dubbio; che a questo cooperino le humanities, è invece per lo meno dubbio, o comunque è una strada o troppo tortuosa, o che impone di abbattere intere foreste amazzoniche. Non a caso, l’educazione civica sarebbe materia a sé: alla quale, onestamente, non soccorrono né Shakespeare, né Michelangelo, né Beethoven, né, forse, Spinoza o Hegel. In questo momento, caricare la cultura umanistica e, più specificamente, le arti, dell’educazione civica, è un tentativo maldestro di salvarla proprio quando la si sente più minacciata. «Voi dite che non serviamo a nulla? Invece serviamo a tutto!». Capirai…
Però, a dispetto di tutti e tre i pericoli che Pellini individua così bene, la cultura umanistica dovrebbe pur sempre servire anche a farci capire cosa siamo: ma non ci dà nessuna risposta garantita – e anzi, a volte, e grazie al cielo!, ci dà risposte perniciose, impolitiche, perturbanti. In ultima analisi, la responsabilità sta sempre fuori, è questione di morale o di politica (i filosofi si sentiranno chiamati in causa ma io, in quanto letterato, vedo le cose molto più obliquamente). Magari, anziché girarci intorno, sarebbe opportuno cercare di riscattare la politica per quello che le compete, piuttosto che gli studia humanitatis per quello che non è bene competa loro.
(P.S. Ma perché mai la collaborazione scientifica (tutti gli scienziati lavorano sempre in gruppo) dovrebbe essere meno educativa dell’ermeneutica letteraria?)
3. L’ipostasi ‘cultura umanistica’ è ridicola: lì dentro c’è tutto e il contrario di tutto. Addomesticarla, e far finta che al suo interno non si combattano battaglie all’ultimo sangue, significa essere, in petto, dispotici (e un po’ ottusi, come tutti i despoti).
4. Ogni tanto, come sempre nelle discussioni accese, vedo opposizioni polari in cui, suppongo, nessuno creda davvero. P. es., Averroè-Baldini: esiguità delle questioni burocratiche vs altezza dei Veri Problemi. I veri problemi si risolvono, anche se non solo, a colpi di decreto legge (e il destino dei laureati presso le facoltà umanistiche è un vero problema). Mi sembra che la questione politica sia stata richiamata nei giusti termini da Else: infatti, non parliamo di studenti, ma di cittadini.
Il problema della formazione degli insegnanti esiste, e i nuovi corsi magistrali lo risolveranno (se lo risolveranno) per la piccola parte che possono: quello della materia di insegnamento (visto che esistono programmi ministeriali). Al resto, dovrebbero servire i tirocini in classe. Ma qui, ho perplessità averroiste. Sono cose che non si insegnano: per certe cose o uno è portato di suo, o si fa col tempo, o imita. Non l’ho mai letto, ma dubito molto nell’efficacia del Kamasutra.
5. Non credo, come teme Abate, che ci si debba sbarazzare di qualunque forma di autorità – e non solo per dare l’occasione a chi vi è soggetto di ribellarsi edipicamente. Nell’insegnamento, ci sono ambiti in cui l’autorità non può che essere ferrea – ambiti così vasti, che semmai il problema è individuare gli spazi che vi si sottraggono. Non c’è discussione democratica o nobile pedagogia che tenga: nel Due-Trecento, «gentile» non vuol dire «che rispetta le buone maniere»; il Rinascimento non data al XVIII secolo; Giotto vale più di Giovanni del Ponte. Tutto quanto ha a che fare con la filologia (in senso lato) e la ricostruzione storica non è soggetto a negoziazioni – a scuola, naturalmente: al convegno dell’associazione dei medievisti, poi, si possono scannare su quel che gli pare. Se invece l’autorità è quella che mi ci vuole per insegnare ai miei studenti a pagare le tasse o a non impasticcarsi con l’extasy, beh, siamo onesti: posso giocare la carta del mio coinvolgimento personale di essere umano, ma non di professore di lettere (infatti, lì possono agire anche professori di scienze o educazione fisica, oltre a genitori o amici ignari tanto di scienze quanto di lettere e ginnastica). Continuo a rifiutare il Culto dei Maestri, e mi rifiuterò sin che campo di fare il Maestro io (il professore, invece, lo farò come meglio posso sino a che non mi mandano in pensione).
6. Una pars costruens, di cui Pellini richiama la difficoltà, credo noi tutti un po’ ce la siamo fatta – e appunto insegnando. La sua forza è proprio che si fonda sulla pratica, sul buon senso (di cui, certo, è sempre bene diffidare) e sulla mobilità, gli aggiustamenti di tiro, i cambi di direzione che l’insegnamento chiede. Qui, per fortuna, i decreti legge non arriveranno mai. Resta il fatto che, senza decreti legge, manuali e canoni non ci sono le possibilità di parlare sensatamente, e neppure di essere liberi (sono d’accordo con Abate).
Certo, meriterebbe esplicitarla, questa pars costruens: le magagne si nascondono dove uno meno se l’aspetta.
7. @ Francucci (che leggo in extremis).
Non posso che essere d’accordo con lei, ahimè: se già le SSIS funzionavano in modo insoddisfacente, non ci si possono aspettare miracoli dai nuovi corsi magistrali (cfr. punto 4). Ma questo è quello che la Gelmini impone. L’educazione linguistica (come si chiama in gergo ministeriale) è un problema vero. In alcune università, si cerca di risolverlo in modo convincente (io insegno in una facoltà di lingue, e ho una collega di linguistica italiana che fa un lavoro insostituibile; le tesi triennali – pardon, gli elaborati finali – sono utili anche a questo). A scuola, pensare di insegnare a scrivere con la letteratura è come allattare un neonato a Moët & Chandon (se si tratta di insegnare a leggere, invece, è un po’ un altro paio di maniche). Inutile prenderla alla larga. Fatti tutti i distinguo degli ordini e dei gradi di scolarizzazione, meglio davvero un articolo di giornale (scritto come si deve) che Calvino. Nessuno impara l’inglese su Chaucer o il francese su Rabelais. Ignoro però come vadano precisamente le cose alle elementari e alle medie, e quindi taccio.
8. Beh, diciamocelo: questa volta Nussbaum – che, come ricordava Else, ha scritto anche dei gran bei libri – ha toppato. Non so se solo in caricatura, ma, per zelo umanitario, sembra prospettare un sistema scolastico censorio, perbenista, castrante, stolido. Una bella metafora delle schifezze che gli Usa hanno legittimato in nome della democrazia e del suo export.
@ Raffaele Donnarumma e a tutti
Avevo dei forti dubbi sulla discussione on-line. I dubbi sono stati confermati e chiariti. E’ un problema di media. Le discussioni on-line attirano e decollano solo quando scorre sangue virtuale. Qualcuno lancia una provocazione; qualcun altro cade in trappola, cercando di difendere il buon senso; parte l’aggressione personale, ecc., a questo punto il meccanismo è già avviato e non se ne esce più. Se ci si pensa, si capisce che il meccanismo psicologico è simile a quello dei video giochi; quelli non violenti sono noiosi.
I blog letterari sono utili quando funzionano come riviste on-line: una raccolta di articoli e notizie, per sapere di cosa si discute pubblicamente e cosa può essere importante. I commenti invece dovrebbero essere vietati o fortemente moderati.
Un cordiale saluto a tutti
@ Baldini
No, per carità. Non mi tolga i commenti. Non mi faccia questo dispetto. Se no io dove scrivo più!
@ Baldini
Ma perché fa così? Io ho proprio l’impressione contraria: raramente ho partecipato a una discussione di questa qualità, sto imparando e pensando nuove cose. Per mia esperienza, ci si accapiglia di più nelle discussioni live in cui mancano molte delle mediazioni e delle distanze offerte dal blog.
Tra l’altro, rileggendo gli ultimi interventi non riesco a trovare particolare violenza o aggressività ad personam.
Suvvia, torni tra noi, che abbiamo bisogno di lei.
@ Baldini
Nella mia inesperienza di videogiochi, avevo sempre pensato ai talk show. Ma paragonata ad altre che avevo in mente, questa è stata una discussione da salotto gozzaniano. Mancavano solo il tè e il rosolio. Vedo che anche tu, quindi, vuoi abolire i forum dei blog letterari. Il problema è che ora sono perplesso io, felice di essere stato smentito da molte delle cose che ho letto su LPLC.
Invece le riviste on-line come le prospetti sono davvero soporifere: ti impediscono persino di fare due passi in biblioteca, con conseguente accumulo di cuscinetti adiposi sul giro-vita. Usare il web così sarebbe come invitare Ruby Rubacuori a casa, e mettersi a parlare di Tremonti.
@ Baldini/ Hilferding
Grazie mille della sua risposta. In realta’ sottoscriverei immediatamente il suo programma di Erfurt. Sono solo scettico sulla sua realizzabilita’: lei giustamente dice che bisognerebbe abolire gli ordini professionali. Ma per farlo e dare coerenza bisognerebbe allora abolire anche i sindacati, e questo, in Italia, mi sembra ancora una prospettiva da romanzo di fantascienza.
Il problema che lei formula e’ importantissimo: “spiegare a noi stessi e agli altri altri perché abbiamo risorse importanti e innovative”. Il mio voleva essere un invito a porre questo problema non solo sul piano della gestione tecnica (su cui in realta’ siamo perfettamente d’accordo) ma su quello dei contenuti, su cui mi sembra che il disaccordo sia maggiore tra tutti.
Piu’ in generale (per rispondere anche a @Abate) vorrei sollevare il dubbio sul fatto che il numero chiuso possa davvero risolvere la questione della precarieta’ in Italia. Dove ad essere precari non sono solo i letterati, ma anche i medici, gli ingegneri, gli architetti, gli avvocati. La crisi del mercato del lavoro non e’ stata prodotta dall’universita’ e non sara’ risolta da una riforma dell’universita’.
@ Francucci
E se invece si cominciasse a bocciare tutti e settanta gli studenti? Potrebbe essere una soluzione per invitarli a leggere con un po’ piu’ di attenzione la prossima volta. Ci sono limiti che non possono essere superati, credo. Non ho mai sentito professori universitari di Matematica preoccuparsi di insegnare di nuovo le tabelline. Va benissimo andare incontro agli studenti, ma si puo’ anche dargli una ragione in pie’ per impegnarsi un po’ di piu’. Nelle facolta’ umanistiche (in molte parti d’Europa) bocciare, dar voti bassi, cacciare e’ ancora un tabu’. E uno studente medio sa che in ogni caso una laurea riuscira’ a prenderla. Ecco, cambiare questa immagine produrrebbe gia’ un innalzamento del potere sociale delle scienze umane.
@ Averroè
perché “e se invece…”? è quel che ho fatto. non si poteva fare altro, ovviamente. il problema è: come insegnare a leggere e scrivere a quei settanta, e agli altri?
perché io non credo si possa dire semplicemente “arrangiatevi”.
@ Tutti
Penso anch’io che la discussione sia stata interessante e utile. Mi ha chiarito e fatto capire molte cose. Mi è dispiaciuto per lunghi tratti il tono: il mio in primo luogo. Mi chiedo se in questo “media” e in questo genere discorsivo si possano dire cose sensate e sollevare obiezioni, senza che il tono si inasprisca e la discussione deragli (caro Ennio Abate, lungi da me l’idea di volerla censurare!). Fatto tesoro delle vostre osservazioni, vorrei riassumere quello che penso. Vorrei toccare due punti (I. – II.), che sono legati (mi ispiro liberamente a Christopher Prendergast, un autore che ho scoperto leggendo Pellini).
I. Il primo punto riguarda una “idea di letteratura”. Partirei da qui:
“ (Donnarumma 1) Il testo di Pellini mi è piaciuto molto, soprattutto quando rivendica l’ambiguità della letteratura, il valore della conoscenza in sé, anche fuori di qualunque utilità, e la necessità di un passaggio dal proprio sapere specifico al dibattito pubblico e comune.”
“ (Donnarumma 8). Beh, diciamocelo: questa volta Nussbaum – che, come ricordava Else, ha scritto anche dei gran bei libri – ha toppato. Non so se solo in caricatura, ma, per zelo umanitario, sembra prospettare un sistema scolastico censorio, perbenista, castrante, stolido.”
(Su 8.) Sono d’accordo. La Nussbaum sbaglia e con lei tutti i moralisti catechizzatori; anche per me lei resta la giovane accademica che, travolta dalla nascita di una figlia, arriva a pubblicare “la fragilità del bene” (a voi che nascondete a ragione il vostro nome sotto nickname, per difendervi dal gesto dello storicismo risentito: sappiate che c’è uno storicismo dell’Erlebnis).
(Su 1.) Sono d’accordo in parte. Pellini puntava certo (e a ragione) sul carattere impolitico, inutile e regressivo della letteratura. Questo tratto “esoterico” della letteratura è una delle sue ragioni d’essere: un lato esoterico che non va nascosto; “la letteratura e il male” sono uniti. Ma citando Citton (che non ho letto e vorrei leggere: mi ricorda molto Vincent Descombes), ho creduto che Pellini alludesse anche alla possibilità che non solo la letteratura come educazione civica, ma anche la letteratura come critica del senso comune possa rivelarsi consolatoria e perdente (lo hanno ricordato Daniela Brogi e Federico Francucci, poi lo stesso Pellini).
Questa illusione che la letteratura possa essere solo esoterica, solo una critica della società, è tipica della posizione estetica e morale della “teoria cinica” della letteratura (uso “cinismo” nel senso della filosofia antica): la letteratura è contro il senso comune e le convenzioni sociali – “full stop”. Questa idea è forse già quella di Flaubert; di certo è quella non solo di molti autori di destra o impolitici del Novecento (come ricordano Pellini e Donnarumma), ma anche quella dei surrealisti. Per quando ne so, uno dei più noti teorici “cinici” della letteratura è Deleuze (ma ce ne sono molti altri, prima e dopo di lui). Per Deleuze la vera letteratura è solo una “letteratura minore”: un toro scagliato a testa bassa contro il senso comune. I cultural, gender e postcolonial studies partono da qui, per poi certo costruire un inerte e fastidioso buon senso critico (Pellini).
Ma c’è un’altra idea di letteratura, in cui si incarna una posizione estetica e morale di tipo “scettico” (ancora una metafora dalla filosofia antica). La letteratura non rompe con il senso comune e le convenzioni sociali: li rispetta e li trasmette persino (è il suo lato “essoterico”); ma insieme permettere di distaccarsene e guardarli dall’esterno. La letteratura è un’esperienza di libertà radicale di un lettore che decide di restare comunque dentro le convenzioni sociali e linguistiche della vita associata, che rendono possibile il commercio umano della vita ordinaria.
II. Passerei così al secondo punto, che è legato al primo (I.).
La letteratura scettica è dunque come Arlecchino, servo di due padroni. È una sfida morale ed estetica alla società e al senso comune, di cui però vuole anche trasmettere l’identità (anche trasformandola).
(2.a) Ecco il compito politico individuato da Signorina Else (ripreso da Averroè e Donnarumma): la letteratura, le arti e le discipline umanistiche fanno parte di identità di lunga durata e profonde e collettive. Sono identità da preservare, come “gli alberi” di cui parlava Daniele Balicco in un altro post. Bisogna lottare per una ecologia della cultura. La tradizione italiana è ben attrezzata da questo punto di vista: bisogna rilanciarla (storicismo + lunga durata).
(2.b) Ma questo compito politico non si può assolvere senza potere sociale. Resto convinto che le istituzioni educative pubbliche debbano avere potere, nel quadro di una teoria politica dell’equilibrio dei poteri (che mi rendo conto, non è rivoluzionaria e comunque difficile da realizzare in Italia: accolgo tutte le obiezioni e osservazioni di Averroè e di Federico Francucci). Pensavo quindi non tanto in termini di morale soggettiva agli studenti (anche se un poco di morale non guasta di questi tempi!), ma pensavo a loro in termini utilitaristici (pensavo ad aggregati di individui) e quindi politici: pensavo agli studenti che aspirano giustamente a diventare insegnanti o altre figure professionali che hanno il compito di tramandare la cultura, l’arte e la letteratura nazionali. Se questi studenti non diventano i futuri ecologi della cultura, ci sarà poco da conservare.
@ Baldini
No, niente full stop: e fai benissimo a ricordare l’aspetto essoterico della letteratura (scettico, se capisco bene, vale un po’ anche come straniante: e non è certo poco). Debbo però ammettere che mi sembra un bottino un po’ magro. Continuo a pensare che attribuire alla letteratura il compito da institutio humanae societatis, tanto più oggi, sia prenderla piuttosto di traverso. Suppongo che la mia resistenza maggiore sia alla delega delle responsabilità: sono uno sdegnoso modernista, penso che ciascuno si debba dare le sue leggi da sé, e che quelle che trova già fatte valgono come pietre di paragone, ma non possono avere piena giurisdizione sui nostri (talora miseri) regni. Che poi le genti abbiano bisogno di miti & favole & precetti & direzioni spirituali è tanto vero, quanto è un segno dell’umana fragilità.
Dunque, non mi illudo affatto che le arti siano solo critica della società e del senso comune: mi emoziono quando leggo l’Infinito, e piango come un vitello se ascolto il finale di Madama Butterfly. Ma se ascolto il finale della Nona e mi viene da abbracciare tutta l’umanità, è perché lo desideravo già da prima.
Per il resto, accolgo senz’altro il tuo invito a un atteggiamento meno da come-si-filosofa-col-martello. Resta il fatto che l’insalata mi piace forte d’aceto.
Ho letto con estrema attenzione e crescente angoscia tutto il dibattito seguito al post di Pellini. Devo confessare che, nella mia stolida ingenuità e ignoranza, molte volte ho perso il filo del discorso e non mi ci sono più raccapezzata. La questione nodale, lo scopo, il senso del dibattito, a un certo punto, mi sono sfuggiti completamente di mano.
Forse sono stupida – mi sono detta – forse vivo fuori dal mondo. Anzi, non forse. Sicuramente. In mezzo a questi vasi di ferro io, povero vaso di coccio, sarò certo destinata alla discarica in cui finiscono tutti i cocci rotti di chi non partecipa alla vivace vita culturale che, in rete e fuori dalla rete, nei salotti e negli atenei, sui quotidiani e tra le pagine delle riviste letterarie, anima la nostra letteratura, in particolare grazie ai preziosi contributi della critica militante; quella che ci dice cosa sia e non sia la letteratura, chi e cosa sia o non sia scrittore, se serve o non serve, se abbia compiti politici e sociali o meno, se vada abolita o mantenuta o ribaltata o rivisitata,… se ha senso ancora il romanzo e come e perché e per chi…. insomma, come se l’esistenza o meno della letteratura davvero potesse essere decisa da chi ne parla a posteriori.
Come se la letteratura non fosse, insieme a tutte le forme di creatività umana, un dato di fatto, l’insieme di tutto quello che l’uomo crea attraverso la parola per rappresentare i mondi visibili e invisibili, invece che un progetto a tavolino, come un meccanismo da poter regolare, azionare, modificare, mettere in moto e fermare a piacere.
Come se la letteratura non andasse dove le pare e piace.
Nella mia stolida ingenuità e ignoranza pensavo che la letteratura fosse nata nel momento in cui l’uomo scopre il potere della memoria, il piacere del narrare e la bellezza di fare qualcosa senza altri scopi che il piacere che essa procura. Così come pensavo che letteratura e arte fossero linguaggi diversi espressione di una medesima necessità umana: creare mondi. Su cui poi, ovviamente, si sono innestate un sacco di altre cose. Potere, manipolazione e simili facceduole. Ma questo avveniva e avviene quando alla letteratura si mischia dell’altro. Quando cessava di essere letteratura e iniziava ad essere voce di regime. Così credevo io, che sono stolida e ottusa.
Chi ha detto che arte e letteratura hanno cessato di essere libere quando sono stati necessari i critici che venissero a spiegarci cosa volessero dire? Sono ignorante, non ricordo.
Nella mia stolida ingenuità e ignoranza credevo che porsi una domanda come: perché gli studi umanistici oggi? fosse un assurdo. (Ma forse: credo, quia absurdum). Perché: perché? Perché: oggi? Solo perché siamo sotterrati da una tecnologia tale che ci fa credere di aver raggiunto un progresso tale nelle scienze quale mai l’uomo prima? Nella tecnologia forse, ma nelle scienze, non sarei tanto sicura. Forse in quella che in occidente chiamiamo scienza, dimenticando che il nostro approccio non è l’unico possibile. La vicenda del genio matematico Ramanujan, narrata da David Leavitt, insegna che si può arrivare a risolvere problemi matematici quasi irrisolvibili per vie che la matematica occidentale non conosceva.
Eppure nei Veda è accuratamente calcolata la velocità della luce.
L’unità di tempo si chiama in sanscrito Nimisha. Corrisponde, secondo i calcoli riportati nei Veda, a 0.21 secondi. In India questa espressione è usata oggi comunemente nel senso di “batter d’occhio, il tempo di un batter d’occhio”. L’unità di distanza è lo Yojana e corrisponde a 9.09 miglia. Calcolando la velocità della luce nello spazio usando queste unità, risulta che la velocità della luce, così come nei Veda è riportata, è di 189.547 miglia al secondo. La velocità della luce che abbiamo calcolato oggi è di 186.000 miglia al secondo. I matematici che hanno eseguito questi calcoli di recente, hanno attribuito la lieve differenza a una imprecisione dei Veda. E ora si scopre che i neutrini superano la velocità della luce.
Che senso ha separare ciò che separato non è? Tornare alle arti del trivio e del quadrivio? Proprio gli umanisti mi avevano insegnato che la conoscenza non ammette separazioni o sezionamenti. Pensavo che, se esiste una filosofia della scienza, questo costituisse un buon passo avanti verso il superamento della separazione pericolosissima tra scienza e studi umanistici.
Certo, nell’estrema complessità con cui il panorama del mondo oggi ci abbaglia e ammalia, non è facile e forse nemmeno del tutto possibile abbracciare con un unico sguardo la direzione verso cui stiamo andando. Ma, sempre nella mia ignoranza, non supponevo che la conoscenza dovesse avere uno scopo pratico immediato (e nemmeno mediato). Pensavo che insegnare prima di tutto a leggere e scrivere, poi a capire un testo (antico o contemporaneo) o un’opera d’arte (antica o contemporanea), cioé apprenderne il linguaggio, decifrarne la struttura e darne una lettura critica, capirne il senso per i contemporanei e per noi oggi, insieme a un panorama di quanto l’umanità ha fatto nel tempo, fossero i rudimenti per aiutarci a trovare una nostra identità, per capire il mondo, per entrare in possesso di strumenti che rendessero meno difficile decodificare, almeno in parte, la realtà in cui siamo immersi. Per non affondare nel caos e per non essere sempre e solo strumenti nelle mani di chi ci dice come dobbiamo pensare e agire. Almeno per non esserlo proprio del tutto e in modo passivo.
Credevo, con Fiedler (sarà un po’ datato, ma non meno di Proust, che qui ho imparato essere molto amato) che “l’arte non contiene idee, ma è essa stessa un’idea”. “Che l’arte è un linguaggio, che non significa un essere, ma è un essere.”
Fiedler si occupava di arti visive ovviamente. Ma io, sempre nella mia stolida ingenuità e ignoranza, l’estendevo ad ogni forma d’arte. Letteratura inclusa.
Ora ho imparato che porsi una questione come da titolo non è cosa peregrina. Come sia arrivata a capirlo, francamente non lo so. Nessuno me ne voglia.
Forse ci sono arrivata per magia imitativa.
In fondo, “l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”. (Adorno)
@ Alessio Baldini
“per me lei resta la giovane accademica che, travolta dalla nascita di una figlia, arriva a pubblicare “la fragilità del bene” (a voi che nascondete a ragione il vostro nome sotto nickname, per difendervi dal gesto dello storicismo risentito: sappiate che c’è uno storicismo dell’Erlebnis)”
Credo che l’appello si rivolga a me. Preferisco non valutare i libri in base alle esperienze biografiche che ci sono dietro, e così vorrei che fossero sempre valutate le mie idee. Lo storicismo dell’Erlebnis potrà forse servire un giorno allo storico dell’opera nussbaumica, o a chi si interroga sul suo percorso di femminista o di intellettuale; ma in questo momento serve solo ad alimientare i tratti più narcisisti del personaggio e a risolversi in storicismo del gossip. (Pe la cronaca, nel 1986, quando esce The Fragility, la figlia della Nussbaum aveva quasi la patente).
Tornando ai libri, penso come tutti gli intervenuti che sull’educazione (a partire da Coltivare l’umanità, che era più centrato sui Cultural Studies) la Nussbaum dica cose sbagliate ma anche meno edificanti di quanto sembri: l’idea di portare l’educazione umanistica a futuri manager e grandi avvocati è in realtà la risposta liberale al progetto straussiano del Committee on Social Thought. Alcuni anni fa (qui il riferimento biografico è importante) la Nussbaum ha lasciato la cattedra al dipartimento di filosofia dell’università di Chicago per quella alla Law School, adducendo proprio il pretesto che in questo modo, come Aristotele, avrebbe educato futuri leader.
Insisto sul fatto che ho trovato la discussione estremamente interessante, grazie anche alla diversità di punti di vista e di esperienze personali che sono emerse a proposito dell’insegnamento e dell’idea di letteratura (mi ha molto impressionata il racconto di Franco Francucci).
@ un appello ai “lenzuolisti” (Abate, Diano, Donnarumma, Averroè, Baldini, etc.)
Se potete, moderate la lunghezza dei post: va bene che ci sono le vacanze e c’è più tempo per leggere, ma a volte questi enormi lenzuoli stesi ad asciugare sono scoraggianti, e se si cerca di seguire la discussione facendo, purtroppo, anche altro, ci si perde.
Ma concludendo mi rendo conto di non aver postato un fazzolettino…
Che la Nussbaum non si limiti a proporre o ad auspicare di portare l’educazione umanistica ai futuri manager, ma in realtà registri semplicemente un dato di fatto, che è già realtà negli USA e da tempo, non è stato ancora da nessuno notato.
Lo dimostra l’esistenza di ciò che si chiama “storytelling in business” o “Effective storytelling: strategic business narrative techiques” (Stephen Denning 2006) . E’ una tecnica insegnata già da oltre un decennio nelle maggiori aziende americane e profumatamente pagata, da gruppi o individui, che offrono strumenti tratti dalla più antica delle pratiche umane, la narrazione orale, seguendone fedelmente la struttura, per affrontare e risolvere problemi interni ed esterni dell’azienda. Ma anche per creare dei leader businessmen, capaci di influenzare manager e dipendenti al punto da indirizzare le loro azioni verso una precisa direzione. Ricordo che lo storytelling è qualcosa di molto presente nel mondo anglosassone, importato dai più grandi storytellers tuttora esistenti: gli irlandesi. Si è notato l’enorme potere che simili tecniche narrative possiedono, attingendo dunque da una tradizione letteraria millenaria gli strumenti che, usati in questo modo, producono effetti per lo meno biechi, puntando sulle emozioni che la tecnica narrativa produce.
In genere lo “skilled storyteller” segue una rigorosa scaletta, che parte sempre dall’approccio personale. Di fatto racconta delle personali esperienze, o aneddoti, (rendendo apparentemente umano e “intimo” il discorso), che verranno poi trasformate in exempla. Ma il punto focale che non viene mai abbandonato è quello che Denning, appunto uno dei padri dello storytelling in business, definisce “the business purpose”, da “perseguire con tale strumento, quanto con le diverse strutture narrative associate a diversi fini”.
Xerox, Jonson&Jonson, Apple, solo per citarne alcune, lo usano da tempo.
Pochi sanno che il famosissimo discorso che Steve Jobs tenne a Stanford, quello che tanto efficace si è rivelato per crearne un’immagine intrisa di Verità e Umanità, pur nell’apparente tono emozionato e colloquiale, era un discorso minuziosamente elaborato seguendo tale tecnica. Passo per passo.
Leggendone il testo alla luce di quanto ho detto, si scoprirà di cosa parla la Nussbaum.
@Signorina Else
Chiedo umilmente venia se distendo le mie lenzuola all’aria. Al punto da suscitare le sue rimostranze. Mi emenderò per il futuro. Ma una cosa credo non mi si possa contestare: i miei discorsi, pur se TALVOLTA si dilungano, non sono né fumosi né contorti. (absit injuria verbis) Cerco, per rispetto del lettore, di essere sempre chiara. Se non ci riesco, ciò non è da ascriversi a cattiva volontà, ma, come ho già detto, alla mia stolida ingenuità e ignoranza.
Non posso certo competere con lei, giovane, irrequieta, leggera e volatile fanciulla.
@ Francesca Diano
Ammetterà che il suo intervento notturno tendeva al genere del monologo interiore (lo dice una signorina che se ne intende!) e fosse per questo poco adatto ad alimentare la discussione di un forum.
Grazie invece per le interessantissime riflessioni sullo storytelling.
Resta il fatto che se tale tecnica produce capolavori di retorica come il discorso di Stanford (la retorica è sempre una tecnica sofistica, come Platone insegna, ed è nella sua natura quella di sedurre) faccio tanto di cappello ai maestri di Jobs.
@ Signorina Else
Le faccio i miei complimenti! Si è accorta che, nel mio intervento notturno, ho usato esattamente la tecnica dello storytelling! (non in business) Non solo lo ammetto, ma la cosa era voluta. Ma non sapevo se qualcuno se ne sarebbe accorto.
Sehr gut Else!
Di storytelling – o meglio di tecniche della narrazione orale, in particolare irlandese – mi occupo da vari decenni ed ecco perché mi ha entusiasmata scoprire, già da tempo, come un’arte tanto antica, a cui ho potuto assistere di persona con immensa emozione, fosse stata riscoperta nella sua potenza. E, come lei osserva, le confermo che il suo potere è davvero enorme.
Non mi è piaciuto però affatto l’uso che se ne fa, il modo in cui viene intesa la trasmissione dei saperi.
Posso tranquillamente dirle che in Italia nessuno si era accorto delle origini e della genesi del discorso di Jobs. Dunque, questa su LPLC è un’anteprima assoluta.
A proposito della sua osservazione sul potere di seduzione della narrazione orale codificata, posso dirle che l’arte retorica degli antichi celti, da cui deriva la raffinatissima capacità narrativa dei più recenti seanchaì (storytellers) irlandesi, fluita nella moderna e contemporanea poesia e narrativa irlandese, era talmente sofisticata e complessa, da far impallidire quella dei contemporanei.
Quanto alle lenzuola, mi sovviene ora che la mia bisnonna abruzzese vendeva corredi agli emigranti che andavano “all’America”. Io non l’ho conosciuta, ma sa com’è? Il DNA agisce in modi strani.
@ Francucci
Ha ragione, il problema è enorme e non è facile risolverlo. E forse la soluzione è quella che lei stesso propone: bisogna separare chiaramente il corso di lingua dal corso di letteratura. Il primo potrebbe tranquillamente essere tenuto da studenti più anziani (di laurea magistrale per esempio) o dottorandi. In Germania c’è qualcosa di simile (non per la lingua, ma per i fondamenti di base in tutte le discipline) e funziona molto bene. Perché poi davanti ad un docente non-professore, gli studenti sono molto più liberi.
Però bocciare è importante. Perché è vero che gli studenti non possono arrangiarsi da soli, ma è anche vero che non bisogna trasformare l’università in un asilo-nido, tanto più se si sostiene l’introduzione di un numero chiuso generalizzato (ovvero una nuova forma di università di élite). Se lo studente vuole ottenere un titolo qualche sforzo, anche da solo, deve pur farlo.
@Baldini
Continuo a credere che sia sbagliato porre la questione solo in termini professionalizzanti. Gli studenti e la morale c’entrano poco. Le facoltà di lettere non devono trasformarsi (interamente) in centri di formazione di curatori di musei, insegnanti, sovrintendenti, giornalisti o quant’altro. Altrimenti è ovvio (e giusto) che siano gradualmente divorate dalle Facoltà di Scienze della Comunicazione o di Arte e Spettacolo: la cultura da amministrare oggi sta altrove. Il problema sta altrove: uno stato, per poter esistere e mantenersi in vita deve coltivare e conservare al suo interno alcuni saperi nella loro forma pura, non applicata, e indifferentemente dall’uso che se ne fa’ nel mondo del lavoro. Tra questi saperi ci sono anche alcune discipline umanistiche. Il problema è capire quali siano e in che forma debbano essere preservate. L’uso di questi saperi nel mondo del lavoro è e deve restare in questo contesto una questione del tutto secondaria.
@ Francucci e tutti gli altri
In realtà la cosa più bella di Sloterdijk su questi argomenti è nel suo penultimo libro (in Italia appena tradotto con il titolo di “Stato di morte apparente”). Sarebbe bello che se ne discutesse anche qui in LPLC. E’ sicuramente il contributo più interessante della filosofia degli ultimi anni al problema discusso da Pellini e da tutti gli altri qui.
@ Francesca Diano
“Posso tranquillamente dirle che in Italia nessuno si era accorto delle origini e della genesi del discorso di Jobs. Dunque, questa su LPLC è un’anteprima assoluta”
Purtroppo non è vero, il Corriere della sera ha pubblicato un libretto (“Steve Jobs”) che contiene un articolo di Alessio Ribaudo: “Il narratore delle emozioni. Il guru e i segreti dello storytelling”, che analizza la carriera di Jobs e il discorso di Stanford proprio in questa chiave.
Il problema comunque è importantissimo, perché tocca una questione che abbiamo affrontato solo lateralmente, liquidandola come se fosse un’ingenuità innocua: quella dell’uso strumentale dei saperi umanistici. Chi è favorevole a questa soluzione, non propone in realtà agli intellettuali di addomesticare manager e avvocati trasmettendo loro una patina di buoni sentimenti e valori umanistici, ma di vendere a chi realmente comanda strumenti retorici di enorme potenza. È quello che già facevano sofisti e retori. L’intellettuale è concepito come un comunicatore che offre il suo sapere come un arsenale di mezzi psicagogici, che altri usano per i loro fini.
Consiglio, oltre a quanto scritto da Francesca Diano, il libro di Christian Salmon: http://books.google.com/books/about/Storytelling.html?id=UURfPgAACAAJ, recensito ad esempio su Fabula: http://www.fabula.org/actualites/christian-salmon-storytelling-la-machine-a-fabriquer-des-histoires-et-a-formater-les-esprits_20511.php
P.S. Il libro di Salmon è tradotto in italiano, da Fazi
P.P. S. Il problema del rapporto fini/mezzi rilancia la questione politica
@ Signorina Else
Grazie, non avevo letto l’articolo di Ribaudo. Lo cercherò. Avevo iniziato un anno e mezzo fa a scrivere un post sul mio blog sull’argomento (storytelling in business e discorso di Jobs), poi per vari motivi contingenti è rimasto in bozza. Silly me!
Ma sono ben contenta che questo uso turpe di un’arte nobile stia venendo alla luce e che si inizi a capire in che modo la truffa viene messa in atto.
A me dà la stessa sensazione di quei ricercati che si fanno la plastica per non essere beccati e per seguitare a delinquere tranquillamente con una faccia nuova e priva elle vecchie cicatrici.
Conoscevo il saggio di Salmon, di cui avevo pensato di proporre la traduzione, quando poi ho saputo che era già in traduzione per Fazi.
Chi ha immediatamente colto la palla al balzo però, è stata la Scuola Holden, che da un po’ tempo si sta prestando a scrivere testi di questo tenore per le aziende:
Progetto “Navigare sicuri” per la Telecom, Fondazione Istud (la Holden ha creato un’autobiografia dell’azienda), Progetto per Unicredit Group (intervento di storytelling per UniManagement), poi per Cisco System ecc. ecc. Più una serie di iniziative di stampo, diciamo così, “culturale”.
Non stupisce che la parola chiave della Holden dunque sia “storytelling”.
Ora, è chiaro il VERO senso del saggio della Nussbaum?
P.S. Forse queste ultimi commenti possono rispondere alla domanda del titolo: Perché gli studi umanistici oggi? Per individuare e snidare le truffe di chi, approfittando della relativa dimenticanza a cui sono stati condannati (come negli USA e tra un po’ anche da noi) modifica la destinazione d’uso degli antichi saperi, manipolandoli al punto da renderli, mai come nella storia, strumento di strapotere economico e non solo. Jobs docet.
Questa discussione è diventata così ricca e interessante, che ci vorrebbe un libro per rispondervi. Ringrazio Signorina Else per la preziosa indicazione bibliografica.
@ Raffaele Donnarumma
Capisco quello che dici. Ci sono altri fenomeni e altri punti di vista da cui osservarli (la mia è una idea).
@ Averroè, Signorina Else, Francesca Diano (in ordine alfabetico)
Scusate se vi rispondo congiuntamente, ma è per risparmiare spazio (l’obiezione di Signorina Else è giusta) e perché ai miei occhi avete un tratto in comune. Ed è questo forse a rendere diversa la mia esperienza della letteratura dalla vostra – e a rendere diverso quello che dico.
La idea di letteratura (e forse, in parte, la vostra forma di vita), assomiglia a quella che Descombes attribuisce a Proust. Proust vive in una società in cui «l’istituzione della letteratura permette a qualcuno di rivendicare e di ottenere, a certe condizioni, lo statuto di individuo autonomo» (Descombes, Proust, pp. 294-95). Ho inseguito questa idea e questa esperienza (ed è ancora possibile che lo facciano oggi persone giovani), ma oggi non più. Per questo ho un atteggiamento più laico (o anglosassone, se volete) nei confronti di arte e letteratura. Signorina Else ha ricostruito bene tutta la vicenda di Nussbaum (vorrei solo aggiungere: ci vuole molto per scrivere un libro come quello e avere un figlio cambia la vita. So che mi dirà che è solo gossip).
@Baldini
“So che mi dirà che è solo gossip”
No, e’ solo misoginia!
@ mulier
Perché lei pensa che non direi la stessa cosa di Bernard Williams (pensi alla sua teoria di Gaugin).
Se qualcun altro vuole attaccarmi, non so, perché a questo punto discriminerei chi non ha figli, o per altro, vorrei dire: le opere sono frammenti e proiezioni di vite. Lo ho già detto che sono uno storicista. Ogni vita può essere interessante. Non so come essere più chiaro di così.
@ Alessio Baldini
Premetto che lungi da me qualsiasi forma di attacco personale, o di giudizio personale, cose che qui invece ogni tanto spuntano, e ritengo piuttosto di cattivo gusto.
Però vede, caro Baldini, lei i giudizi personali li dà. E, temo, non proprio a ragion veduta. Non certo per quanto mi riguarda.
Tutto posso accettare, ma non che mi si associ in alcun modo a Proust, autore di cui riconosco dal punto di vista critico la grandezza, l’acutezza ecc. (non il genio. Balzac ha dato della Francia, ma anche dell’umanità, un’immagine infinitamente più spietata e comunque leggibile con feroce e disperato piacere, di quanto abbia mai fatto Proust) ma che, a livello estetico (vale a dire secondo la percezione assolutamente personale, di aisthesis, che è il significato originario di estetica) mi è, sia dal punto di vista umano che letterario, insopportabilmente antipatico e intollerabile.
Se davvero quanto dico può dare adito all’idea che “la mia forma di vita” assomigli a quella che Descombes attribuisce a Proust, due sono le cose: o chi lo dice non ha del tutto chiaro quello che ho detto, e di certo comunque nulla sa della mia “forma di vita”, lontana le mille miglia, se non diametralmente opposta a quella di Proust, o devo precipitarmi dal primo strizzacervelli libero, perché in tal caso devo essere afflitta da disturbo delle personalità multiple.
Si ma leggere cosi’ opere filosofiche significa contraddirle non interprretarle. E il suo voleva essere un giudizio riduttivo: The Fragility non e’ un classico della filosofia del Novecento ma la reazione della “giovane accademica travolta dalla nascita di una figlia,”. Il che ammettera’ e’ un riduttivo. E soprattutto, visto la particolare situazione delle donne nelle universita mondiale, poco delicato.
E poi, sia detto sottovoce e tra noi, ma che vuol dire la frase di Descombes? A me pare piuttosto oscura e fumosa. Ma che la letteratura è “un’istituzione”? Ma sa, io sono stolidamente ingenua e ignorante…
@ mulier
Ormai siamo, credo, fuori tema. Forse non avrei dovuto sollevare l’argomento. Credo di avere sbagliato genere letterario: mi scuso di questo (probabilmente in forma narrativa si possono dire queste cose, ma non in forma discorsiva).
Comunque il giudizio non era affatto riduttivo, al contrario. E’ vivendo che si scopre la fragilità del bene; ed è questa esperienza che quel libro vuole salvare. Ripeto: non esiste solo uno storicismo risentito (scrivi A1, perché sei solo A2), dell’erlebnis (puoi scrivere A2, perché hai fatto l’esperienza A1). Lo so che lo storicismo e la filosofia non vanno molto d’accordo (la storia della filosofia è sempre stata la bestia nera dei filosofi).
Poi guardi, è la stessa Martha Nussbaum in una intervista a sollevare la questione: la mia è quasi una citazione letterale.
@ Francesca Diano
Certo che scrivo giudizi e non mi nascondo quando la penso diversamente. Ma mi scusi, conta la misura: non credo che associare qualcuno a Proust possa essere considerato un insulto, nemmeno lontanamente. Sulla forma di vita: se non potessimo immaginare forme di vita a partire da linguaggi (da testi, se vuole), molto del lavoro delle humanities non avrebbe senso. Immaginare certo non è conoscere.
@ To Whom It May Concern
Non si può essere tutti d’accordo. C’è un momento in cui “la vanga si piega” e non si possono trovare più ragioni, per parlare o ascoltare. Non è sempre un momento triste.
Personalmente gongolo per essere stata associata a Proust… ma interverrò solo sulla questione vita e pensiero (o donne filosofe intellettuali).
Credo che la frase di Baldini fosse carica di buone intenzioni. Ma in realtà confonde due problemi diversi e finisce per produrre il risultato opposto a quello che si prefiggeva. L’esempio della gravidanza vorrebbe portare un valore aggiunto a un’opera che non ne ha affatto bisogno perché si impone da sola, ed è un po’ ridicolo per la proporzione del suo presunto “eroismo”.
La Nussbaum non è fuggita dalla Germania nazista come Hannah Arendt e ha avuto una vita piuttosto facile (è una wasp americana di origini alto borghesi convertitasi all’ebraismo con il matrimonio) anche se immagino che non sia stato facile gestire un figlio e un dottorato ad Harvard e sentirsi chiamare “etera” dai colleghi in quanto unica donna al dipartimento di Classics. Questi aneddoti sarebbero materiale prezioso per considerazioni sociologiche e politiche sulla condizione delle accademiche e delle intellettuali e sulla fenomenologia del dominio maschile (inizialmente li collezionavo per questo), ma a patto di rispettare i limiti del buon senso. Non so se Alessio Baldini conosce questo documento imbarazzante (http://bostonreview.net/BR28.5/nussbaum.html) il discorso funebre che la Nussbaum ha tenuto per il maestro Bernard Williams. Mostra alla perfezione come la retorica dell’esemplarità personale giustificata a fini politici possa dar luogo a un’autocelebrazione di pessimo gusto (la parte critica è nel paragrafo IV, la vedova di Williams era presente). Il testo è girato per mesi nelle mailing list di vari dipartimenti americani, confermando il cliché della donna di successo più aggressiva degli uomini e con protagonismi da diva hollywoodiana.
Proprio per la Nussbaum, insomma, caro Baldini, mi sembra che il parallelismo opera-vita sia scivolosissimo. Le assicuro che è molto meglio restare ai libri sia per valutare la sua figura intellettuale sia per nutrire l’autostima e l’identificazione delle donne. La Fragilità del bene, come ho già scritto infastidita dalla sufficienza con cui sia Giunta che Pellini liquidavano la “filosofa alla moda” giustifica pienamente un’intera carriera filosofica e legittima l’autrice a intervenire con assoluta autorevolezza su problemi che riguardano l’educazione e la morale. Ai miei occhi contano il valore intrinseco di questo e di un paio di altri libri, le sue competenze di filologa, e persino il tentativo di dare vita a un modello alternativo di educazione delle élite (qui devo dissentire da Francesca Diano: la Nussbaum in realtà vorrebbe scippare gli straussiani, lavorando più a sinistra, cioè non fornendo ai leader solo mezzi retorici ma anche contenuti di umanesimo liberale e metodi di auto-riflessività. Che il progetto non regga, è un altro discorso. Ma bisogna riconoscere che insegnare Aristotele alla Law School di Chicago ha un valore di posizione molto particolare nel sistema americano, che a molti dei commentatori che sono intervenuti sembra sfuggire completamente.
Infine, per rispondere a un altro commento un po’ supponente di Pellini, non vedo cosa ci sia di scandaloso nel fatto che il Mulino, l’editore che ha pubblicato tutte le opere della Nussbaum a partire dal primo libro, lanci un pamphlet evidentemente destinato a vendere molto e che, anche questo va riconosciuto, ci sta facendo discutere da settimane. Leggeremo Citton e giudicheremo se la scelta editoriale sia stata così sconsiderata.
Un saluto a tutti.
@ Alessio Baldini
Ci mancherebbe che fossimo tutti d’accordo o che avessimo le medesime idee. Oltretutto sarebbe noiosissimo.
Il mio riferimento al suo dare giudizi non si riferiva all’esercizio di quelle che lei chiama “humanities” e che hanno un nome anche nella nostra lingua dato che da essa il termine è tradotto, (discipline umanistiche, studi umanistici ecc.), ma al fatto che lei più volte nei suoi commenti lamenta o paventa attacchi personali che non mi pare abbia subito. A meno che lei non ritenga che il dissentire dalle sue idee e metterle in discussione, non sia un attacco a lei invece che un confronto puro e semplice.
All’opposto, dal canto suo, lei dà dei giudizi addirittura sulla vita e sulla personalità di chi non conosce nemmeno di sfuggita. E questo, sa, non parrebbe un percorso esegetico del tutto corretto, soprattutto per chi, come lei, di ermeneutica se ne intende di sicuro.
A me non verrebbe mai in mente di dire che forma di vita è la sua (o di chiunque altro in un forum). Non ho a disposizione né sufficienti elementi, né sufficienti categorie per farlo. Posso, questo sì, farmi un’idea della sua personalità, dopo quanto ha osservato sulla Nussbaum e su me e altri, ma mai penserei di manifestare quella che potrebbe essere solo un’impressione superficiale. Se qualcuno lo ha fatto, l’ho trovato di cattivo gusto.
Inoltre trovo per lo meno bizzarro che chiunque possa ritenere di capire la forma di vita di chicchessia a partire da qualche commento. A meno che lei non intenda forma di vita animata o inanimata. Organica o inorganica. Su questo posso convenire. La mia è animata e organica.
Non so immaginare cosa lei intendesse per forma di vita: stile di vita? visione del mondo? inclinazioni?
Per fortuna che usa il termine “immaginare”. Come lei dice: conta la misura.
Mi dispiace poi che lei, nel momento in cui le vengono contestate delle affermazioni che esulano da una serena, seppur animata discussione critica, non trovi più ragioni per parlare o ascoltare.
@ Alessio Baldini
Siamo tutti d’accordo: la letteratura plasma il nostro modo di essere – però, almeno quanto ne è plasmata. Resto comunque, oltre che flaubertiano, freudiano e orlandiano: la letteratura è una formazione di compromesso, e i modi di quel plasmare sono enormemente ambivalenti. Ho l’impressione che in questo riscatto del valore formativo della letteratura e della verità romanzesca, se ne dimentichino le volontà seduttive, gli inganni, le croste ideologiche, gli intenti politici, le menzogne romantiche. Mi parebbe una fasullaggine: siamo tutti falsi per metà, e lì sta il bello. O se vuoi metterla giù più paludata: civiltà e barbarie – mica solo civiltà.
L’impostazione di Nussbaum con cui se la prende Pellini sembra avere applicazioni davvero insoddisfacenti: o si tratta di educare i sentimenti (e sino a che punto può essere questo il compito di istituzioni pubbliche come sono, almeno da noi, le scuole?); o di offrire strumenti retorici di persuasione (come notava Else: solo che i capolavori della sofistica non hanno fama di essere testimonianze di verità); o di educare a un senso democratico-filantropico (un piffero! quelli, quando esportano democrazia, si sa cosa combinano). Personalmente, preferisco i vecchi barboni/baffoni della scuola del sospetto. Aforisma: l’onore della letteratura è riconoscersi insufficiente di fronte alla vita.
Dopo l’insalata forte d’aceto, come avrai capito, prendo anche il caffè amaro.
@ Signorina Else
Visto che lei, quanto a nussbaumologia, ci mangia in testa a tutti, volevo chiederle un paio di cose. Per come lei pone la questione della posizione femminile, sembrerebbe esserci una doppia verità: da un lato, i condizionamenti che l’essere donna comporta, e che sono oggetto di studi sociologici e politici; dall’altro, il valore dell’opera, che è transindividuale, e va liberato da ombre biografiste. Ma in questo modo lei salta il problema vero, che è, appunto (e non occorre Bourdieu) capire come l’elaborazione di un pensiero abbia a che fare con l’essere donna – o con l’essere in qualunque altra posizione storica, sociale, antropologica.
Baldini ha ragione: è ingiusto scambiare i dissensi con la singola persona con accuse rivolte all’intero genere, come fa @mulier (non è neppure la prima volta che accada, qui su LPLC). È come se io accusassi di omofobia chi non è d’accordo con me – allora, già che ci sono, posso urlare alla misantropia. Qui gioca una retorica vittimaria (da cui Else, per altro, è immune – come anche, direi, Francesca Diano) che deriva proprio da un’incompleta assunzione di carico del proprio essere donna. Che ne pensa?
P.S. Ma dove le compra queste lenzuola di seta? Sono una favola!
@ Raffaele Donnarumma
Sì sì sono immune, le confermo. immunizzata da un’intera vita di frequentazioni accademiche letterarie e artistiche. Capirà, uno si fa la corteccia. Meglio di una Vergine di Norimberga (ma solo all’esterno, sia chiaro! Che dentro sono uno zucchero) Infatti io me lo assumo tutto il piacevolissimo carico di essere donna.
P.S. L’associazione storytelling in business – Nussbaum era mia. Diamo a Else quel che è di Else e a Francesca quel che è di Francesca. Signorina Else ha avuto il grande merito di riconoscere immediatamente l’impatto e le implicazioni enormi della questione.
@ Diano
Sullo storytelling: certo, mi scusi. Avevo in testa la frase «la retorica è sempre una tecnica sofistica, come Platone insegna, ed è nella sua natura quella di sedurre» (Else). Ho letto Salmon ma, purtroppo, non Denning, che lei segnala. E sicuramente la questione è enorme.
Lasci stare le vergini, per carità! Son capaci di tutto, persino di partorire.
@ Raffaele Donnarumma
Il problema che lei pone è cruciale, e può essere esteso, dalla considerazione femminile o omosessuale, a una riflessione generale sulla genealogia del pensiero, intendendo genealogia nel senso di Nietzsche, come origine di un valore dalle forze, dagli interessi, dalle esperienze della vita. Che rapporto c’è tra una persona e le sue idee, tra una soggettività desiderante, sofferente, chiusa nella sua finitezza, preda delle sue idiosincrasie, e l’oggettività di un valore, di una credenza sul mondo?
Come lei ha colto, penso davvero che si dia una doppia verità, e che tra la vita e il pensiero si dia un rapporto, a un tempo, di generazione, di differenza essenziale e di determinazione reciproca.
In attesa di portarle qualche argomentazione, le cito una frase molto bella di Paul Bénichou, scritta a proposito un autore, Rousseau, che questo problema lo poneva in modo particolare:
Entre notre expérience d’être vivant et nos pensées sur le bien et le mal, il existe donc à la fois une continuité et un état de rupture. On ne saurait ni voiler cette contradiction, ni la résoudre. […] Qu’une souffrance ou un espoir aboutissent à une idée du bien ; qu’ils s’identifient à elle au point qu’après les avoir distingués nous les fondions invinciblement l’un dans l’autre ; que l’homme qui vit et l’homme qui pense, distincts en principe, ne soient qu’un ; que nous devions pourtant avoir sur cet être unique deux points de vue dont aucun n’est entièrement réductible à l’autre, et que nous ne puissions en sacrifier aucun sans nous mentir, – telle est la condition qui nous est faite et qu’il nous convient d’accepter telle quelle. […] Aussi n’avons-nous d’autre recours que de tenir à la fois les deux vérités dont la jonction nous est obscure, et de nous exercer à n’en renier aucune.
Un’esperienza semplice, caro Donnarumma. Quando lei fa da referee per un articolo della sua disciplina, si chiede se è un buon articolo, o se il suo autore è donna, omosessuale, o figlio di papà? (Proprio perché riconosciamo la differenza tra i due piani, abbiamo inventato per concorsi e valutazioni scientifiche dei dispositivi di anonimato. Che poi vengano disattesi è un altro problema: l’esigenza di oggettività però parla da sola).
Quanto a Mulier, credo che si sia offesa perché ha frainteso il senso del commento di Baldini, intendendolo in senso riduttivo (la FG conta perché l’ha scritta una madre e non perché è un gran libro).
Per ora lascio cadere solo questo fazzolettino di pizzo (touchée!), ma le risponderò più approfonditamente nei prossimi giorni.
@ Signoria Else
Quello che scrive su Nussbaum è giusto e vero. I libri sono spesso migliori dei loro autori.
Se avessi detto quello che lei mi attribuisce, me ne vergognerei. Le assicuro, volevo dire una cosa diversa. Credo che lei mi abbia frainteso e la colpa è mia: non ho capito che non si possono cercare di dire alcune cose in modo cursorio su un forum. Faccio a mie spese l’esperienza del carattere ibrido di questo genere discorsivo, a metà fra scritto e orale (come già osservavano da Averroè e poi Donnarumma). Se potessi, ritirerei quello che ho detto/scritto. Era fuori luogo e sbagliato nella forma (ed è grave). Le questioni che lei pone sono importanti. Sarebbe bello discutere di questo (biografia e opere): perché non pubblica un post?
@ Francesca Diano
Credo, ancora, che lei mi fraintenda e che i fraintendimenti siano legati al carattere ibrido di questo genere discorsivo. Mi scuso se la ho offesa in qualche modo. Non sono esperto utente di forum, come si vede: spero almeno di imparare sbagliando.
@ Raffaele Donnarumma
Ti devo una risposta, anche dal post precedente (ancora sempre lo stesso problema di genere discorsivo). Sono d’accordo con quello che scrivi qui e con quello che scrivevi nell’altro post – la letteratura è anche il male. Credo ci differenzino solo sfumature – ma sarebbe lungo parlarne.
@ Signorina Else
Inutile nasconderlo ancora: attendo di infilarmi tra quelle lenzuola – metaforiche, per carità. Chiamiamo anche Diano, e Baldini, e Pellini, e chi ne abbia voglia, che si fa una bella ammucchiata.
Attendendo sue nuove, le dico: credo che i punti di vista parziali e determinati siano un ricchezza – precisamente perché entrano obbligatoriamente in dialogo (o in lite). Lei, per la sua storia e la sua posizione, può farmi vedere quello che io, per la mia storia e la mia posizione, non riesco a vedere. Il punto da cui guardiamo e pensiamo è sempre limitato, ma non è solo un limite: allora, tanto vale saperselo giocare.
P. S. Non occorre accenda il camino: vedrà che calori!
Torno dalla montagna (magari prima o poi provo a scrivere per LPLC qualcosa sulla situazione dei Parchi Nazionali, peggiore se possibile, in Italia, di quella degli studi umanistici: e a questa forse legata da affinità profonde…) giusto in tempo per accogliere con entusiasmo l’invito di Donnarumma all’ammucchiata fra lenzuola di seta.
Evito però la lenzuolata – anzi il libro, come dice giustamente Baldini – che s’imporrebbe non dico per tirare le fila dei molteplici discorsi che si sono intrecciati (non mi spetta, e in ogni caso non ne sarei capace), ma anche solo per sottolineare le cose a mio parere più importanti che i commenti hanno saputo sottolineare.
Se la letteratura è un’esperienza che affonda le sue origini in una necessità antropologica probabilmente ineliminabile (diciamo così, senza approfondire la questione), gli studi letterari (come in generale quelli umanistici) non sono sempre esistiti: la critica letteraria come la intendiamo noi, per esempio, nasce a fine settecento, e potrebbe benissimo morire fra qualche decennio, o almeno essere espulsa dall’insegnamento (scolastico e universitario). Per questo vale la pena di parlarne; per questo è urgente chiarirci le idee sulla sua legittimità e (eventuale) utilità. Mi piace la posizione “scettica” evocata da Baldini; anche se resto convinto, come Donnarumma (di cui condivido gran parte degli interventi), che un attaggiamento di critica radicale (non per forza ‘modernista’) sia irrinunciabile.
Altra cosa è dare per scontata la sopravvivenza degli studi umanistici (in nome della tradizione, della memoria, dell’identità culturale: tutte cose sacrosante, che però poi ognuno declina a modo suo), e riflettere sui modi, le tecniche, le forme dell’insegnamento. Qui vorrei dire solo due cose. Massima diffidenza nei confronti delle lauree magistrali per l’insegnamento invocate da Baldini e realizzate (male) dalla legge Gelmini: danno uno spazio esorbitante ai veri intellettuali organici della normalizzazione aziendalista di scuola e società (i pedagogisti); naturalmente potremo cercare di migliorarle (sabotandole) dall’interno, ma sarà difficile. Secondo: il numero chiuso. Basta vedere quel che succede a medicina, per capire che, almeno in Italia, è soluzione insensata. Quando non favorisce la corruzione, penalizza comunque le provenienze svantaggiate (scuole peggiori, regioni depresse, ecc.). E tuttavia anche secondo me la trasformazione delle facoltà di lettere in degradato parcheggio per futuri disoccupati senza qualità non ha nulla a che vedere con una missione critica, non ha nessun valore sociale e civile. Credo che sarebbe sensato, per una volta, copiare dalle facoltà di medicina francesi (non da quelle di Lettere: più degradate delle nostre): accesso libero, ma selezione alla fine del primo anno (con percentuale di bocciature vicina all’ottanta per cento).
Altra cosa: è vero che anche un libro pessimo (come quello di Nussbaum) può suscitare riflessioni interessanti – se così non fosse, né io né Giunta ci saremmo presi la briga di parlarne. Ed è comprensibile che il Mulino l’abbia pubblicato, se non altro per fedeltà all’autrice e per fare cassetta. Quello di Citton è un libro molto più complesso, intelligente e ricco – da cui peraltro nel mio pezzo prendo spesso le distanze – ma non è certo una pietra miliare della filosofia o della critica. Nulla di scandaloso, dunque se esce per un piccolo editore: succede ben di peggio. Resta però il problema dell’editoria di cultura: che non dovrebbe stampare sulla fiducia, né su meri calcoli commerciali. La scomparsa della critica letteraria – che poco sopra ipotizzavo per un prossimo futuro da scuole e univeristà – è già realtà nell’editoria. Ci consoliamo con i blog, infatti. Forse non è un male, però…
Ultima cosa: sono un po’ stupito che nessuno mi abbia tacciato di supponenza per quel che scrivo – con cattiveria molto superiore a quella riservata a Nussbaum – su un altro filosofo alla moda (soprattutto fuori d’Italia), Toni Negri. Lo noto con divertimento. E torno a ringraziare tutti gli intervenuti.
Criticare Toni Negri è come sparare sulla Croce Rossa. E a volte le cose alla moda lo sono anche per ragioni oggettive, che sarebbe sempre bene conoscere prima di liquidarle con un’alzata di spalle.
Grazie per la risposta.
«sono un po’ stupito che nessuno mi abbia tacciato di supponenza per quel che scrivo su […] Toni Negri.
…forse perché criticare Negri in filosofia è come criticare l’operato di Berlusconi in politica. Una trivialità da bar.
La moda è un fenomeno molto eterogeneo. Mettere assieme Negri e Nussbaum e Negri sotto la stessa etichetta di “filosofo alla moda” equivale, con tutto il rispetto, a chi in letteratura parlasse di Moccia e Zanzotto come “letterati alla moda”.
a volte la Croce Rossa (non solo quella metaforica: anche quella ‘vera’, in specie italiana) assume posizioni di potere che giustificano qualche sparo (solo metaforico, per carità): l’influenza del pensiero negriano nella redazione di due dei luoghi cuturali che – piacciano o no – più contano per quel che resta della cultura di sinistra in Italia, il manifesto e alfabeta2, è molto forte; evidentemente i lettori di LPLC e quelli di manifesto e ab2 non sono gli stessi…
e all’estero (che ci piaccia o no) Negri è, fra i filosofi italiani attivi, secondo, credo, solo a Agamben per importanza oggettiva (cioè, se volete, per moda; e certo che le mode hanno le loro ragioni: che possono piacere o no)
segnalo un libro molto bello e sfortunato di Raul Mordenti, L’univeristà struccata, in cui – parlando di riforme universitarie – l’autore distrugge (in modo convincente, a mio avviso) due opposti feticci: quello dell’economista bocconiano Roberto Perotti, che si atteggia a fustigatore dell’accademia italiana ma è incapace di fare due conti correttamente; e appunto quello del Negri maitre à penser del ‘movimento’
@ Alessio Baldini – La ringrazio. In realtà non ero affatto offesa, ma volevo solo farle notare come a volte, sicuramente senza volerlo, come dice, e le credo, capita di adottare comportamenti che non ci piacciono siano usati con noi. Riguardo a Proust, a parte la mia boutade, proprio non ha le mie simpatie. Che ci vuole fare, preferisco roba più forte e concentrata.
@Raffaele Donnarumma – Beh, delle vergini che partoriscono lo si dice a posteriori che lo fossero. E poi, ci sono quelle sagge e quelle folli. Io preferisco le seconde.
@Pellini
«L’influenza del pensiero negriano nella redazione di due dei luoghi cuturali che – piacciano o no – più contano per quel che resta della cultura di sinistra in Italia, il manifesto e alfabeta2, è molto forte»
Anche l’influenza di Moccia è molto forte, «piaccia o no», in molti luoghi culturali che contano. E «evidentemente, i lettori di LPLC e quelli» di Moccia non sono gli stessi. Quanto alla fama, potrei ancora una volta risponderle a tono: anche Moccia è uno degli scrittori italiani più famosi all’estero, e anche la Mazzantini è conosciuta, «cioè, se vuole, per moda; e certo che le mode hanno le loro ragioni: che possono piacere o no». Potrei andare avanti. E lei può citarmi tutti gli studi sociologici che vuole: la mia obiezione (come credo anche quella di @Signorina Else) non riguardava il peso sociologico di Toni Negri.
La questione è molto semplice mi sembra: un filologo deve saper distinguere tra un fenomeno di costume e di consumo e un fenomeno di vera ricerca. In questo sito lo si fa’ per la letteratura, e per la musica, perché mai per la filosofia bisognerebbe essere tolleranti anche di fronte agli strafalcioni?
E chiamare Negri e Nussbaum “filosofi alla moda” è un errore storico-filologico molto grossolano. Si possono criticare entrambi, ma non si possono mettere sullo stesso piano una delle esponente più raffinate (e contestate) della ricerca filosofica del Novecento e un sottoprodotto della morente “cultura” di una certa sinistra italiana. E’ inutile appellarsi al Manifesto o ad Alfabeta2: non vedo che a cosa possano servirmi questi due giornaletti per ricostruire la storia della filosofia in Occidente. E’ come se volesse convincere i suoi studenti dell’importanza di uno scrittore perché se ne parla molto in un’emittente televisiva molisana. Capirai…
Mi permetto di allargare la questione, perché, con tutto il rispetto che ho per questo mondo, continuo a non capire perché la critica letteraria, forse per senso di colpa, forse perché va di moda essere contro lo stato delle cose, accorda a un certa tradizione “filosofica” marxista un’autorità decisamente eccessiva.
Dagli anni settanta a questa parte il marxismo in Italia, in tutte le sue forme, in tutte le sue colorazioni (negrismo, il trontismo, l’adornismo di seconda mano, il benjamismo di seconda mano ecc. ecc. ecc.) ha costituito un enorme fenomeno di costume e di consumo (e sottolineo, di facile consumo), che ha influenzato in vastissima misura il clima culturale del paese. Ma non devo certo spiegarle che non tutto quello che esercita un’influenza culturale è oro.
Negri è sicuramente un fenomeno culturale e politico che ha la sua importanza. Se ne può parlare ma facendo le dovute distinzioni. Non è un problema di gusti, è una questione di rigore e di filologia.
E in senso strettamente filologico la produzione di Negri (tanto per fare il suo nome) è un fenomeno di chiaro e dichiarato epigonismo: si tratta di pastiches, di ripetizioni più o meno fedeli di presupposti altrui. E il loro scopo è un uso locale, pastorale, strumentale, di tesi filosofiche che sono altri ad aver elaborato. E sono testi che presuppongono sempre una fede: è una forma di “riflessione” a cui si può aderire grazie ad un’adesione arbitraria, ideologica e quasi religiosa alle idee professate
Possiamo discutere anni sulla definizione della filosofia, ma non si può mescolare tutto. Altrimenti dobbiamo cominciare a parlare anche gli scritti di Ratzinger e Wojtyla. Che sono intrisi di riferimenti filosofici e, sa, hanno un’enorme influenza su «due dei luoghi cuturali che – piacciano o no – più contano per quel che resta della cultura» di destra in Italia: l’Avvenire e su Famiglia Cristiana. E chissà se i lettori di LPLC leggono anche questi giornaletti.
@ Averroè
Invidio le sue certezze, anche laddove con più violenza confliggono con le mie conclusioni provvisorie.
Potrei insinuare che, quanto a epigonismo, il mix di liberalismo americano e suggestioni indiane (da Tagore a Sen) che si ritrova in tanti libri di Nussbaum poco ha da invidiare alle stanche glosse di “certa sinistra” italiana (di cui lei parla con sufficienza e disprezzo a mio parere non sufficientemente motivati). Ma non è questo il punto: il problema è che brandire la filologia per delimitare il campo dei discorsi ammissibili è quanto di meno filologico (diciamo pure che è procedimento autoritario e antistoricista: soprattutto – e mi perdoni se lo dico, tornando su una vexata quaestio: sono un novizio della critica 2.0 e la cosa proprio mi disturba – se l’ingiunzione viene da chi non si prende la responsabilità delle proprie affermazioni, rifiutando di firmare con nome e cognome).
Dell’importanza relativa e assoluta di Negri, Agamben, Nussbaum e quant’altri, deciderà la storia. A noi compete discuterne le idee, approvarne o denunciarne influenze e conseguenze. E’ quel che ho provato a fare, mostrando (come Giunta) che un singolo libro di Nussbaum non brilla certo per raffinatezza di pensiero e contiene tesi che, all’analisi, si rivelano fragilissime, o addirittura scivolano nella censura, negando gli stessi presupposti liberal-democratici dell’autrice. Tutto qui.
Peraltro, i buoni filologi sanno che l’esercizio della critica è utile sempre. E dunque l’esempio su cui lei conclude è particolarmente infelice: sarebbe alquanto opportuno che studiosi seri affrontassero il pensiero dei filosofi alla moda nella cultura di destra, per mostrarne, se del caso, pochezza e contraddizioni: a cominciare proprio dal pensiero di Ratzinger. Lo ha fatto per esempio un grecista e arabista fra i migliori, Marwan Rashed, su Micromega 2008, 5: un esempio di buona filologia, appunto.
E quanto ai “giornaletti” – su cui a volte anche a me è capitato o capita di scrivere, pur vedendone molti limiti -, eviterei di bollarli con tanto disprezzo: è quel che passa il convento; mi indichi lei luoghi cartacei di discussione pubblica più validi e liberi, se ce n’è. O conviene dar ragione a Tremonti, e tagliare i fondi a tutta quell’editoria che non si regge sul mercato?
@ Averroè
Ho una brutta impressione: le si sta italianizzando troppo. La preferivo arabo.
lei si sta…
@Pellini
La discussione mi sembra si stia incartando: io le rimprovero di disprezzare Nussbaum, lei si inalbera perché io disprezzo Negri. Proviamo a ridefinire i termini della questione?
Provo a spiegarle cosa, nel suo commento, aveva irritato me e credo altri lettori. Tutto è nato dalla sua espressione, un po’ goffa, di «filosofo alla moda», e dalla sensazione, confermata anche dalle sue risposte (specie l’ultima), che lei sembra non voler riconoscere una linea di separazione tra livelli assolutamente «ammissibili», ma ben distinti e separati per valore, durata e natura del discorso. Toni Negri può scrivere quello che vuole, e lo stesso possono fare Ratzinger, un giornalista di Alfabeta, e Marwan Rashed (ma deve sempre citare i suoi amichetti?). Ma non può mettere sullo stesso piano la “Critica della ragion pura” e un articolo del Manifesto senza non suscitare nel suo interlocutore un po’ di ilarità.
Allo stesso modo, non può permettersi di giudicare l’intera opera di un filosofo (che da quello che scrive dimostra di non aver letto) a partire da un suo testo dichiaratamente divulgativo. Nessuno in questo sito ha difeso il libro di Nussbaum. Qualcuno (@Else) ha fatto notare a ragione che sia lei che Giunta avreste dovuto prendere in considerazione il ruolo attuale dell’autrice, il contesto, e soprattutto il fatto che si tratta di un’opera di divulgazione (un po’ di accessus sarebbe stato opportuno da parte di un critico). Ma tutti, anche @Baldini, che ha espresso legittimamente i suoi dubbi sul valore di Nussbaum e che ha anche una grande conoscenza della filosofia del Novecento, l’ha fatto con la chiara consapevolezza di una linea di separazione molto netta tra due livelli che non coincidono e non possono coincidere.
A prescindere di quello che si pensi dei due «filosofi alla moda» di cui ha parlato, nessuno dei libri di Negri è e vuole essere al livello di The Fragility o di Terapia del desiderio. Si possono criticare anche questi due libri (come ha fatto @Baldini, con le sue ragioni), ma sono a un livello diverso di quello in cui si muove Negri. Volevo solo dire questo: di là dalla mediocrità di questo o quell’autore, esistono piani diversi su cui si muovono alcune indagini. E chi ha il coraggio di fare filosofia sul piano più alto, ha agli occhi di un filosofo un merito che un giornalista, un sociologo, un politico o un attivista non avranno mai.
Il problema, probabilmente nasce dalla sua strana identificazione tra filosofia e discussione pubblica. Ci sarebbe molto da dire sul tema, ma lei sa meglio di me che una lunghissima e antichissima tradizione filosofica è molto scettica sulla possibilità di fare filosofia in forma di discussione pubblica. E se può certo succedere che ci sia filosofia nella discussione pubblica, è innegabile che non ogni forma di discussione pubblica è filosofia. Negare questa distinzione significa, di fatto, negare la separazione tra filosofia e sofistica. Cioè distruggere la filosofia. Lei ha tutto il diritto di farlo, ma non pretenda che gli altri non si irritino.
E può continuare a sfogliare il Manifesto, Alfabeta, il Giornale, Micromega e tutti i giornaletti pubblici che vuole, ma non mi chieda di considerarli come organi della filosofia. Non può pretendere che si guardi al Manifesto per capire chi sono i grandi filosofi oggi. È come chiedere di considerare Ballarò come la nuova Accademia platonica. Non confonda l’esigenza di serietà (che lei non prova a quanto pare per la filosofia) con l’«autoritarismo» e l’«antistoricismo». Volevo solo dire questo: noi arabi abbiamo l’idea che la filosofia sia una cosa un po’ più seria, più faticosa, e più importante di un intervento su Micromega o su Alfabeta e comunque qualcosa di diverso da un’analisi sociologica del presente o da un appello alla rivoluzione. Tutto ha un valore, tutto ha un significato, ma non annulli le diversità. Da noi, come da voi, ci sono grandissimi filosofi che non si sono mai sognati di intervenire nel dibattito pubblico.
Sul marxismo aspetto ancora la sua risposta.
Quanto ai nomi e cognomi: per quanto ne so Pierluigi Pellini potrebbe essere un nickname, come lo è Averroè. E in Italia per ora non c’è bisogno di presentare la carta d’identità o un documento anagrafico per discutere di filosofia. Se vuole proporre un’estensione della Legge Pisanu, provi a lanciare la proposta sul Manifesto.
E per capire «dell’importanza relativa e assoluta» di questo o quell’autore, non è certo necessario aspettare la storia. Chi pensa e scrive ha occhi per vedere anche la grandezza di un nemico. La grandezza si impone immediatamente e in maniera evidente. A meno che, per chissà quale ragione, non si preferisca essere ciechi.
@Abate
Eh, su questo punto le relazioni arabo-italiane sono un po’ complicate. Ma le assicuro che la mia osservazione sulla cultura marxista deriva dal mio retroterra arabo.
@Averroè
La filosofia sta messa male, se i suoi criteri di giudizio sono l’evidenza della grandezza (stabilita apoditticamente da un’autoproclamata autorità anonima) e l’incertezza dell’identità (quel poco che ho fatto sta nel mio cv, sono il Pierluigi Pellini che insegna all’università di Siena, il cv sta sul sito istituzionale dell’ateneo – naturalmente lei potrà citarmi fior di testi filosofici, in specie di Derrida, sulla firma, il nome ecc., che revocherebbero in dubbio questa mia banale affermazione: li conosco, perché la mia cultura filosofica non è scarsina come lei ha la maleducazione di insinuare, ma sarebbero fuori proposito, qui: la questione è molto più terra terra).
In ogni caso, mi rifiuto di discutere con chi si permette – senza conoscermi, giacché Averroè, di persona, proprio non lo conosco – squallide insinuazioni personali. Non sono miei “amichetti” né Citton, né Mordenti, né Rashed, né quanti altri ho citato. Rashed è ordinario all’Ecole Normale Supérieure, e lo cito come chiunque lo può citare: come l’autorità che è. Che sia o no mio amico, lei non lo può sapere, e in ogni caso non conta. Ho poche convinzioni solide, ma su questa non transigo: non parlo con chi si concede simili cadute di stile. Et de hoc satis.
@Pellini
Mi spiace che abbandoni la discussione: il problema mi sembrava centrale per la questione che lei ha sollevato dal suo post.
Respingo ogni sua accusa. Non ho insultato nessuno: mi sono solo permesso di fare dell’ironia sul fatto che lei accusa me di autoritarismo, poi però sente sempre il bisogno di proteggere sue affermazioni con auctoritates. E ha continuato a farlo anche ora. Se lei conosca o meno Rashed mi interessa anche molto poco. Come mi interessa molto poco il suo cv: qui nessuno chiede a nessuno di palesare le proprie generalità e il proprio cv, e non mi sembra di essere l’unico a usare un nickname.
E mi sono limitato a constatare che da quanto ha scritto su Nussbaum, non ha lasciato trapelare alcuna reale conoscenza del resto della sua opera (anche @Else le aveva mosso la stessa critica, ma lei ha l’ha ignorata). Il problema, le ho già spiegato, non è il modo in cui giudica il libro (su cui tutti siamo d’accordo) ma il modo in cui posiziona personalità, opere e scritture che appartengono a registri separati. E il modo in cui lo fa sembra ignorare troppe cose.
Infine sulla grandezza: che la grandezza sia un’evidenza è un’evidenza. Scusi, ma in una commissione di concorso secondo lei i commissari cosa fanno, si dicono: «Sarà la storia a giudicare il migliore?». Tutti nei commenti al suo post si sono pronunciati per l’affermazione della meritocrazia. Che facciamo, aspettiamo che la storia ci dica chi è il migliore? Perché tutta questa mala fede?
Mi dispiace che questo dibattito stia degenerando nel personale, e che Pellini si senta offeso. Sentendomi parte in causa in quanto colpevole di nascondermi dietro un nick, me ne scuso sinceramente. Ma non cambio stile, e ne approfitto anzi per lanciare la proposta provocatoria di provare una volta l’esperimento di abbandonare i nomi veri TUTTI, autori dei post compresi, e di vedere se si riesce a parlare di cose e non del proprio ego o del proprio CV. L’io è odioso!
Dunque mi scuso con lei, Pellini; ma vorrei anche farle notare che prima del suo intervento al ritorno dalle vacanze la discussione stava proseguendo egregiamente e che, di fatto, è decollata quando lei ha smesso di intervenire. Non ci sarà davvero qualcosa nel suo atteggiamento che scoraggia e che è poco adatto allo spirito di un blog? Io credo di sì, per almeno le seguenti ragioni:
– il “punto della situazione” che lei ci ha imposto non corrispondeva all’andamento reale della discussione, e non a caso l’ha immediatamente castrata;
– fino a quando lei non si è rifiutato di rispondere ad Averroè e alla sottoscritta perché offeso dal nostro anonimato, i nomi e cognomi per giorni avevano dialogato con i nickname in modo pacifico e assai divertito. Le segnalo tra l’altro che la questione è stata oggetto di un altro interessante dibattito di “metablogghismo” su questo stesso sito: e alle discutibili ma certo non insensate ragioni degli mascherati si riferiva la provocazione sullo storicismo biografico da parte di Alessio Baldini, che a sua volta ha suscitato la questione sul rapporto tra soggettività e pensiero: questioni profonde e appassionanti, che hanno suscitato l’entusiasmo di chi interveniva;
– il suo tono è, a tratti, quello arrogante e paternalistico di chi pensa di saperla lunga e deride l’ingenuità di chi si fa domande diverse;
– prima che lei ritornasse a dirci con condiscendenza di cosa valeva o meno la pena parlare, si discuteva liberamente di argomenti molto seri, dai programmi ministeriali ai massimi sistemi, senza che si fosse lontanamente ventilata la balcanizzazione tra letterati e filosofi che lei è riuscito a creare con poche battute. A nessuno sono stati richiesti diplomi per intervenire in questo forum. E mi sembra, anzi, che le sollecitazioni teoriche più interessanti siano venute proprio da suoi colleghi disciplinari.
Personalmente, non ho mai messo in dubbio l’ampiezza delle sue letture, ma confesso che il sospetto che la filosofia le piaccia pochissimo mi è venuto subito, indipendentemente dalle osservazioni di Averroè. Mi sembra che quello che le piace sia assumere la posizione da “intellettuale giustiziere” sparando a vista su chiunque sia portatore di un discorso sul mondo e abbia successo, senza mai entrare nel merito delle questioni e senza quella capacità di ammirazione che distingue gli amanti del pensiero (un abisso separa Toni Negri da Derrida o dalla Nussbaum, che possono non piacere e devono essere criticati, ma anche rispettati: la cosa è di una tale evidenza che davvero non mi capacito che si debba discuterne!). Per non parlare dei canoni sempre alternativi, che insospettiscono un po’: non so se sia snobismo o insicurezza, ma il libro migliore lo conosce sempre solo lei e lo ha letto solo lei, mentre il resto è mainstream da demistificare.
Che dirle? Leggeremo. Ma in attesa di illuminarmi, io resterei volentieri tra le oscure coltri del lettone preparato da Donnarumma, sempre che sia ancora caldo.
@signorina Else
Mi dispiace molto di aver dato a lei – che la espone con garbo – un’impressione di castrante supponenza che non credo mi appartenga e che in ogni caso era lontanissima dalle mie intenzioni; come ogni partecipante al blog, sono intervenuto sottolineando aspetti di mio interesse: non intendevo affatto scoraggiare filoni diversi del dibattito – svuiluppatisi (come è bello e giusto in un blog!) anche indipendentemente dal mio post; mi piace pensare che la discussione si sia fermata anche per naturale esaurimento, e non per mia involontaria censura (che lei abbia visto condiscendenza paternalistica nel dire di cosa vale o non vale la pena di parlare, onestamente faccio fatica a capacitarmene: ma se lei l’ha davvero vista, quella condiscendenza arrogante, bisogna proprio che io rifletta sulla postura elocutoria, diciamo così, dei miei post: lo farò); in ogni caso, la prossima volta cercherò di prolungare le ferie in montagna: che, sia detto senza il minimo snobismo, come mera verità esistenziale (e se vuole anche come ammissione di un limite), mi appassionano molto più di molte discussioni (fra l’altro, lontano dai computer si ha anche più tempo per leggere, letteratura e altro).
Quanto all’anonimato, non mi disturba affatto (semmai mi incuriosisce, o mi lascia leggermente perplesso) in chi soavemente argomenta, come fa di norma lei: mi dà fastidio in chi fa quello che lei imputa a me (e io imputerei piuttosto a altri): spara giudizi da giustiziere, tira sassi, e nasconde la mano. E qui soccorrono non citazioni filosofiche (per inciso: della grandezza di Derrida non dubito nemmeno quando la sua prosa mi irrita; di quella di Nussbaum sì, e ne dubitano peraltro anche molti filosofi – nell’appellarmi alle auctoritates, per me, non c’è nulla di prevaricatorio: quando una cosa non la so tanto bene, cerco di farmela spiegare da chi la sa meglio), ma un banale ricordo liceale, dal buon Manzoni: chi il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare. E con questo definitivamente mi taccio (purtroppo senza tornare in montagna). Ancora grazie a chi mi ha voluto leggere.
In questo post tira una brutta aria. Ho notato che oltre a “far fuori” Pellini, che non conosco ma di cui ho apprezzato il post, o a spingerlo a ritirarsi in montagna (il confronto poteva forse essere più fraterno …), alla mia “lenzuolata” nella fase iniziale non è stato indirizzato né un ah! né un boh! Come se non l’avessi scritta.
Ora sulla liquidazione che Averroè fa non solo di Negri o de “il manifesto” ecc, che pur non suscitano i miei entusiasmi, ma del “marxismo in Italia, in tutte le sue forme, in tutte le sue colorazioni (negrismo, il trontismo, l’adornismo di seconda mano, il benjamismo di seconda mano ecc. ecc. ecc.) come mero “fenomeno di costume e di consumo” qualcosina avrei da obiettare.
Ma vale la pena che mi sprema il cervello, se una “lenzuolata” in merito me la snobberete come la prima applicando la strategia del silenzio?
O il sole è già al tramonto anche qui?
@ Pellini
Guardi, sono così stupita dai miei poteri orfici (soave non me lo aveva mai detto nessuno), e grata dell’ammansimento, che le concedo volentieri di mettere la Nussbaum parecchi punti sotto Derrida (ma pur sempre un po’ sopra Negri). Soprattutto: anch’io ho apprezzato il posto, e non volevo assolutamente ricacciare il gatto in montagna, come ha capito: piuttosto invitarlo a ballare un po’ coi topi.
@ Abate
Ma stenda, stenda! Per quanto mi riguarda, la leggerò attentamente, perché anch’io, come Averroè, sarei contenta che si facesse un bilancio teorico e non solo politico del marxismo. Non disdegnerei però, al suo posto, la pratica formula per tesi: da quelle parti si è sempre venduta bene.
@Abate
Sarei felicissimo se rispondesse! E sarebbe importante! Era un’invito alla discussione, che nessuno ha colto finora. Quanto al suo primo commento, mi scuso di non averle ancora risposto, visto che mi aveva interpellato direttamente. Ha tutte le ragioni a lamentarsene!
Ma il Prof. Pellini ha letto una versione ridotta del volume di Nussbaum o le sue omissioni sul contenuto del testo sono volontarie? Mi spiace di avanzare questo dubbio, ma quanto scrive fa più di un torto al reale contenuto del libro, tanto che mi ha sfiorato l’idea che si sia limitato a leggere l’introduzione di Tullio de Mauro.
C’è in più di un capitolo tutta una antropologia dell’educazione, e una riflessione abbastanza profonda sul senso e lo scopo dell’educazione, e quelle pagine possono essere ridotte all’idea di un «buon senso ancillare» di cui @Pellini parla solo con molta violenza. Tra l’altro se l’autore del post avesse provato a riassumere o menzionare anche questi argomenti il livello della conversazione sarebbe stato decisamente più alto.
E’ anche molto spiacevole che nessuno dei “filologi” e professori qui presenti abbia preso in considerazione il fatto che NON si tratta di un libro rivolto a degli umanisti. Il che cambia completamente la questione della valutazione sul senso dell’intervento di Nussbaum,
Come promesso, ritorno sul tema del post di Pellini, fidando almeno nell’attenzione di Averroè e signorina Else, e vado per punti:
@ Pellini (anche se non seguisse più…)
Avevo apprezzato il suo post perché riportava in termini aggiornati i problemi affrontati da Romano Luperini ne «Il professore come intellettuale» del 1998. Se la discussione non si fosse interrotta, avrei aggiunto nei commenti delle obiezioni, che in parte ricalcavano quelle della mia lettera-commento a Luperini (qui). Le riassumerei ora così:
1. Il «disegno neo-liberista e oligarchico di destrutturazione», di cui lei ha parlato, non ha mirato a destrutturare soltanto «la classe media occidentale», ma l’intero “mondo del lavoro” e l’intera società messa “sotto controllo” e oggi del tutto depoliticizzata;
2. Avendo ristretto il suo campo di riflessione al solo peggioramento della condizione della classe media – operazione a cui, secondo me, è stato spinto proprio dall’eclissi totale del pensiero di Marx nella sinistra italiana -, lei può permettersi soltanto una mezza critica all’«umanesimo “post-critico”». Se la prende, infatti, con «De Mauro, Bloch, gli apostoli di Toni Negri», la stessa pragmatica Nussbaum e Citton, che si sforzano di «dimostrare – alla politica, al mercato – l’utilità pratica dei nostri studi», ma può poi contrapporgli soltanto una cultura umanistica idealizzata, dedita esclusivamente a «indagare disinteressatamente il funzionamento, i significati, le ambiguità delle attività umane e dei loro prodotti».
[continua 1]
3. Non è forse la sua una riproposizione della solita “torre d’avorio”? Che venga fatta nell’epoca delle «città di quarzo», rimodellate dagli immobiliaristi, in preda alle ossessioni securitarie nei confronti di disoccupati, immigrati, nuovi poveri e ceto medio in via d’impoverimento, la rende a mio avviso particolarmente miope ed elitaria. «(Ri)legittimare la letteratura come scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana: di qua da ogni pratica utilità», coltivare in chiostri appartati dai conflitti quei «saperi che non servono (né alle democrazie né al profitto)», mentre attornoa lei le “democrazie del profitto” proseguono indisturbate la loro opera di mistificazione e di distruzione (come mostrano le “guerre democratiche”), è davvero una scelta datata, «perfino idealista, etnocentrica e alto-borghese», come lei in fondo ben sa, pur facendo spallucce («Può darsi»).
4. Diventa inevitabile chiedersi: per quanti anni o decenni si potrà prolungare questo «scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana»? ed è poi vero che questi «saperi che non servono né alle democrazie né al profitto» non servono davvero a qualcuno? Magari – risponderei – servono a quegli umanisti che si adatteranno a una condizione da “specie protetta in estinzione”. E per farli durare nel tempo, bisognerà pure che qualcuno li finanzi. E sarà poi davvero disinteressato questo Mecenate (pubblico e/o privato) che decidesse di farlo?
[continua 2]
5. I valori in sé, al di fuori dai conflitti sociali reali, non esistono. L’umanesimo (post-critico o “disinteressato”) non è un valore in sé. È stato storicamente valore concreto quando era veicolo (in parte ideologico) di classi o gruppi sociali inquieti e in cerca d’espressione simbolica dei loro interessi e bisogni. Diciamocelo: lo è stato ai tempi del fascismo o quando c’era la sinistra più o meno nazional-popolare e “comunista”. Ma quella “classe operaia” o quel “movimento operaio”, che avrebbe dovuto, secondo il vecchio Lukács, essere l’«erede della filosofia classica tedesca», non s’è mai fatto davvero avanti. Ed oggi, purtroppo, l’umanesimo è valore per un gruppo ristretto di docenti e forze politiche di apparente “opposizione”. Non lo è neppure, ad esempio, agli occhi degli studenti massa delle facoltà di lettere, di cui, mi pare, anche lei si lava le mani dicendo che sono “in esubero”.
[continua 3]
UMANESIMO POST-CRITICO, “DISINTERESSATO” E “CULTURA MARXISTA”
Come promesso, ritorno sul tema del post di Pellini, fidando almeno nell’attenzione di Averroè e signorina Else, e vado per punti:
@ Pellini (anche se non seguisse più…)
Avevo apprezzato il suo post perché riportava in termini aggiornati i problemi affrontati da Romano Luperini ne «Il professore come intellettuale» del 1998. Se la discussione non si fosse interrotta, avrei aggiunto nei commenti delle obiezioni, che in parte ricalcavano quelle della mia lettera-commento a Luperini (qui: http://immigratorio.blogspot.com/2011/08/su-romano-luperini-il-professore-come.html). Le riassumerei ora così:
1. Il «disegno neo-liberista e oligarchico di destrutturazione», di cui lei ha parlato, non ha mirato a destrutturare soltanto «la classe media occidentale», ma l’intero “mondo del lavoro” e l’intera società messa “sotto controllo” e oggi del tutto depoliticizzata;
2. Avendo ristretto il suo campo di riflessione al solo peggioramento della condizione della classe media – operazione a cui, secondo me, è stato spinto proprio dall’eclissi totale del pensiero di Marx nella sinistra italiana -, lei può permettersi soltanto una mezza critica all’«umanesimo “post-critico”». Se la prende, infatti, con «De Mauro, Bloch, gli apostoli di Toni Negri», la stessa pragmatica Nussbaum e Citton, che si sforzano di «dimostrare – alla politica, al mercato – l’utilità pratica dei nostri studi», ma può poi contrapporgli soltanto una cultura umanistica idealizzata, dedita esclusivamente a «indagare disinteressatamente il funzionamento, i significati, le ambiguità delle attività umane e dei loro prodotti».
3. Non è forse la sua una riproposizione della solita “torre d’avorio”? Che venga fatta nell’epoca delle «città di quarzo», rimodellate dagli immobiliaristi, in preda alle ossessioni securitarie nei confronti di disoccupati, immigrati, nuovi poveri e ceto medio in via d’impoverimento, la rende a mio avviso particolarmente miope ed elitaria. «(Ri)legittimare la letteratura come scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana: di qua da ogni pratica utilità», coltivare in chiostri appartati dai conflitti quei «saperi che non servono (né alle democrazie né al profitto)», mentre attornoa lei le “democrazie del profitto” proseguono indisturbate la loro opera di mistificazione e di distruzione (come mostrano le “guerre democratiche”), è davvero una scelta datata, «perfino idealista, etnocentrica e alto-borghese», come lei in fondo ben sa, pur facendo spallucce («Può darsi»).
4. Diventa inevitabile chiedersi: per quanti anni o decenni si potrà prolungare questo «scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana»? ed è poi vero che questi «saperi che non servono né alle democrazie né al profitto» non servono davvero a qualcuno? Magari – risponderei – servono a quegli umanisti che si adatteranno a una condizione da “specie protetta in estinzione”. E per farli durare nel tempo, bisognerà pure che qualcuno li finanzi. E sarà poi davvero disinteressato questo Mecenate (pubblico e/o privato) che decidesse di farlo?
5. I valori in sé, al di fuori dai conflitti sociali reali, non esistono. L’umanesimo (post-critico o “disinteressato”) non è un valore in sé. È stato storicamente valore concreto quando era veicolo (in parte ideologico) di classi o gruppi sociali inquieti e in cerca d’espressione simbolica dei loro interessi e bisogni. Diciamocelo: lo è stato ai tempi del fascismo o quando c’era la sinistra più o meno nazional-popolare e “comunista”. Ma quella “classe operaia” o quel “movimento operaio”, che avrebbe dovuto, secondo il vecchio Lukács, essere l’«erede della filosofia classica tedesca», non s’è mai fatto davvero avanti. Ed oggi, purtroppo, l’umanesimo è valore per un gruppo ristretto di docenti e forze politiche di apparente “opposizione”. Non lo è neppure, ad esempio, agli occhi degli studenti massa delle facoltà di lettere, di cui, mi pare, anche lei si lava le mani dicendo che sono “in esubero”. Per cui alla drammatica domanda del post «Perché gli studi umanistici oggi» non mi sentirei di rispondere né facendogli indossare una divisa finto pragmatica né finto sacerdotale («scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana»). Direi semplicemente: per una scommessa. In attesa che i conflitti reali riportino in primo piano forze sociali e politiche simili a quelle che in un passato ormai lontano hanno tentato di praticare quei «valori di verità e giustizia» dell’umanesimo cristiano e poi socialista e comunista, anche se “ideologizzati”. Come accade per la poesia, oggi quei valori alludono, e per pochi soltanto, a una «promessa di felicità». Nulla di più.
@ Averroè
Non sono, l’ho già detto, un difensore del “ciarpame” messo in giro dall’editoria marxisteggiante degli anni Settanta, ma posso testimoniare che, allora, molti come me rovistando in quel ciarpame, che non era fatto solo di autori come Ljubosic (Einaudi 1955), si avvicinarono anche a Marx o ad autori marxisti degni di rispetto, che ora lei ammucchia con troppa disinvoltura nella discarica della storia. Trovo che la sinistra italiana non sia stata mai veramente marxista, ma al massimo liberal-marxista. O, ai tempi del PCI, liberal-comunista e filosovietica. Perrsonalmente oggi, dopo le batoste prese, mi presento nelle vesti dimesse di un isolato “esodante” dalla Sinistra (preciso: extraparlamentare degli anni Settanta). Sono, dunque, uno che ha scelto come “maestro a distanza” il marxista critico Franco Fortini; che si ricorda di libri come «Il marxismo introvabile» di D. Lindeberg del 1978 (che appunto cercava di dire che nella sinistra Marx era un po’ come l’araba fenice); che si è nutrito di tutto il dibattito sulla «crisi del marxismo» degli anni Ottanta-Novanta condotto in particolare da Preve e La Grassa; e che oggi di quest’ultimo teorico di scuola althusseriana condivide il tentativo di «uscire da Marx dalla porta di Marx». E perciò non sopporto l’odierno snobismo antimarxista dei letterati o filosofi umanisti che, come pare faccia lei, non distinguono Marx dal “Marx per tutti” degli anni Settanta. Non mi stanco poi di consigliare ancora la lettura di «Marx per letterati. Sconvenienti proposte» di Nicolò Pasero, ripubblicato tempo fa da Meltemi, un libro che – come annotava Cesare Segre (qui:http://archiviostorico.corriere.it/1998/agosto/07/Cari_critici_uscite_dai_testi_co_0_9808078512.shtml) – non solo fu un antidoto all’«idolatria del testo, comune allo strutturalismo e alla semiotica», ma aiutava a non leggere «il testo come un oggetto, separato dalla realtà, ma come elemento di una relazione non solo con gli altri testi, ma con le cose e gli uomini», salvando uno dei punti forti della lezione di Marx, per il quale anche il capitale non era un oggetto, ma appunto un rapporto sociale. Non so se Negri sia un esempio di epigonismo scolastico, come lei sostiene. Ma contesterei, invece, la sua affermazione che solo i suoi testi presupporrebbero sempre «una fede: è una forma di “riflessione” a cui si può aderire grazie ad un’adesione arbitraria, ideologica e quasi religiosa alle idee professate». L’ideologia si insinua dappertutto, persino nelle scienze e nella sua amata filosofia e nella Nussbaum, che si muoverebbe «a un livello diverso di quello in cui si muove Negri». E la sua determinazione nello stabilire «una linea di separazione tra livelli assolutamente «ammissibili» ed altri non ammissibili me la spiego in parte con una preferenza preventivamente accordata alla Nussbaum (davvero ha letto tutto di Negri per spazzarlo via così? ) e in parte, data la netta distinzione che lei fa tra filosofia e la “sofistica” , con una sua svalutazione, per me discutibile, dell’incontro tra il filosofo e l’uomo della strada (o lo sciocco, come diceva Fortini). (Se si vive più in mezzo agli sciocchi che ai filosofi, qualche dubbio viene nei confronti della sua difesa così intransigente della filosofia; o, per fare un altro esempio, su cui abbiamo duellato, di Proust rispetto ai giornalisti). E poi se ci «sono grandissimi filosofi che non si sono mai sognati di intervenire nel dibattito pubblico», viene da chiedersi, pur se la ritengo una felice contraddizione: allora perché lei interviene sul blog di LPLC? Un ultimo appunto: la liquidazione della « cultura marxista» in generale (e di Marx?) lei dice di derivarla dal suo «retroterra arabo». Le chiedo maliziosamente: arabo o liberal-anglosassone?
@ Signorina Else
«Un bilancio teorico e non solo politico del marxismo» non è cosa che s’improvvisa. Non so se lei ha mai letto o leggerà Cristina Corradi “Storia dei Marxismi in Italia” (Manifestolibri, 2011). Vi troverebbe autori completamente estranei a quella «editoria degli anni settanta, che ha inondato il paese con tutto il ciarpame su plusvalore, forza-lavoro ecc., forza operaia, unione sovietica ecc. ecc». O autori che questi stessi temi hanno trattato e trattano ancora oggi con rigore e spesso autocriticamente. E s’accorgerebbe che in alcuni di questi marxismi “carsici” o “residuali”, al di là di sterili scolasticismi e beghe di scuola che pur l’inquinano, si discute vigorosamente di un Marx umanista e di un Marx scienziato. Che è poi uno dei grossi problemi teorici sotto traccia e poco esplicito nel post di Pellini. La chiave di lettura marxiana, se ben usata, rende conto ancora meglio di altre chiavi delle forze più sotterranee che scuotano lo scenario visibile della società dello spettacolo e permettono di intravvedere cosa c’è sotto allo scontro tra umanesimo e utilitarismo. Una recensione del libro la trova qui: http://www.sinistrainrete.info/marxismo/1637-oscar-oddi-cristina-corradi-storia-dei-marxismi-in-italia.html.
@Abate
Una premessa. Ha sicuramente ragione lei: ho generalizzato in modo illecito, ci sono moltissime eccezioni.
Devo però correggerla:il mio non è (solo) «snobismo antimarxista da filosofo umanista che non distingue Marx dal “Marx per tutti” degli anni Settanta». E’ molto di più. E’ intolleranza. Lei mi invita a distinguere caso per caso, e potrei descriverle tutta una fenomenologia del marxismo “non eretico” che mi sembra intollerabile. Ci sarebbero figure soggettive, come
– lo storico della letteratura che per spiegare Dante o Goethe o Proust sa solo parlare della nascita della borghesia (che per lui nasce nel duecento, ma anche nel trecento, e soprattutto nel quattrocento, e certo, in modo vero e proprio nel seicento, anche se è nel settecento che assume la sua forma più autentica ma anche nell’ottocento nasce di nuovo)
– il profeta amatoriale della domenica, che non ha mai studiato diritto, mai messo il piede in parlamento, mai scritto o letto opere di teoria politica, ma si sentono autorizzati a dare previsioni sul prossimo governo Monti perché ha letto Debord, Benjamin e Adorno;
– il rabbioso risentito che vede nell’amore tutto umano per le cose quotidiane e per la loro bellezza solo l’immondo e riprovevole feticismo delle merci.
– il dilettante che non ha MAI, ma dico MAI aperto un libro di economia, perché non sa risolvere una equazione di secondo grado, eppure riduce tutto a fenomeno economico, e cita tutto il tempo Marx
– il puzzole, che odia il proprio corpo e che considera ogni cura per l’apparenza (e il design) in “pericolosissimo estetismo”.
– il disadattato adorniamo che pur di salvare se stesso fa del mondo il luogo di alienazione
– lo snob che appena vede più di quattro persone grida al «plebiscitarismo», senza capire che il politico è per definizione qualcosa che deve interessare le masse, e tutte le masse.
Ognuna di queste figure, mi dirà, è un’espressione non autentica di marxismo, perché il marxismo vero è altrove, nel’«isolato “esodante” dalla Sinistra». E ha perfettamente ragione: ammetto che la mia è un’intolleranza molto idiosincratica. Anche se qualche volta le distinzioni ingannano: moltissimi cattolici sono pronti ad assicurare che il Papa è una deformazione del cattolicesimo, che il cristianesimo vero sta nell’isolato esodante dalla Gerarchia. Ma non riesco a credere a queste distinzioni.
In ogni caso, di là dalle idiosincrasie personali, c’è una cosa che il marxismo (non Marx) ha reso comune, ed è forse la sua eredità più fastidiosa: lo sdoganamento del dilettantismo più amatoriale in politica. L’idea insomma che qualsiasi intellettuale possa permettersi di dare il suo giudizio sull’essenza della Politica, sui governi, sulla situazione del mondo e della società, anche se non ha mai messo piede in un Parlamento, non ha mai studiato diritto, non ha mai aperto un manuale di economia. E l’idea che per fare politica non serve nulla: nessuna competenza nemmeno una profonda conoscenza (e un profondo amore) dell’uomo, dei suoi amori, delle sue follie, delle sue esigenze. Non credo alla specializzazione del burocrate. Ma credo che per essere un politico (o per parlare di politica) siano necessari non solo un cammino di formazione ma anche una lunga serie di esercizi spirituali, di dominio di sé e delle proprie passioni. Lei mi dirà che non era così negli anni settanta, e sono pronto a crederle. Ma nei marxisti attuali, non ho mai potuto riconoscere né la conoscenza né la statura morale e affettiva che serve ad un uomo politico ed ho visto soprattutto pressappochismo, intellettuale e morale, e un enorme disprezzo e paura per l’uomo e per le masse. Meglio, per il popolo. E non capisco cosa abbia a che fare con la politica. Forse sono stato sfortunato, ma credo sia un’esperienza comune per chi ha aperto gli occhi a partire dagli anni ottanta
Per il resto:
«Davvero ha letto tutto di Negri per spazzarlo via così?»
Sì, ho letto tutta l’opera di Negri, altrimenti non ne parlerei. Da un punto di vista di storia del costume mi sembra del resto molto interessante. Ho detto solo che non appartiene alla storia della filosofia. E questa è un affermazione piuttosto ovvia per qualsiasi filosofo. E credo per lo stesso Negri, che per quanto ne so non si è mai pensato come filosofo.
«la sua determinazione nello stabilire «una linea di separazione tra livelli assolutamente «ammissibili» ed altri non ammissibili»
Sia più attento quando legge. Io non ho mai parlato di una separazione tra livelli ammissibili e livelli non ammissibili. Tutto è ammissibile, ma non tutto è filosofia, così come non tutto è politica e non tutto è poesia. Mi sembra l’ABC, non è il caso di parlarne troppo a lungo. Dire che Proust non è un fumetto, non significa esprimere un giudizio negativo nei confronti di fumetti. Ma pretendere di leggere Proust come un fumetto è un atteggiamento un po’ strano….
«Se si vive più in mezzo agli sciocchi che ai filosofi, qualche dubbio viene nei confronti della sua difesa così intransigente della filosofia»
Con questa logica dovremmo trasformare la poesia in pubblicità perché non tutti amano o capiscano la filosofia. Perché si può essere intransigenti per la poesia e non per la filosofia? Questo è snobismo.
«Se ci sono grandissimi filosofi che non si sono mai sognati di intervenire nel dibattito pubblico, viene da chiedersi, pur se la ritengo una felice contraddizione: allora perché lei interviene sul blog di LPLC»
Semplicissimo: io non sono un grandissimo filosofo.
«Le chiedo maliziosamente: arabo o liberal-anglosassone?»
Guardi: quello che mi porta a non tollerare il marxismo è solo l’amore per la vita. E mi scuso per questo lenzuolo. E’ l’ultimo che scrivo.
Caro Abate,
(e anche caro Rino Genovese, che potrebbe forse sentirsi indirettamente chiamato in causa nelle considerazioni finali)
sono così lontana dal considerare “ciarpame” il marxismo (perché mi si attribuisce una citazione non mia?) che l’ho studiato bene e coi maestri migliori: stavo per fare la mia tesi di laurea su Marx. Ma proprio perché penso che la filosofia sia anche il proprio tempo appreso nel pensiero, ritengo indispensabile adattare il pensiero alla realtà: non viceversa.
D’altra parte, è esattamente quello che fece ai suoi tempi Marx, e chi è fedele alla sua eredità dovrebbe in realtà rallegrarsi davanti alla constatazione che analisi e concetti pensati per la realtà di un secolo e mezzo fa, malgrado tutti gli aggiornamenti possibili, non funzionino più. Vuol dire che la storia si evolve davvero.
Il problema è che, con il marxismo, non stiamo parlando solo di una teoria: per gli intellettuali italiani di una certa generazione e con una certa storia, l’attaccamento a questa particolare spiegazione della realtà ha le proporzioni di una questione identitaria e religiosa. Per questo è così difficile parlare con loro; e per questo, a volte, chi non appartiene alla stessa generazione e alla stessa storia prova un senso di esasperazione.
Inoltre, (ma questo forse è un problema solo per i frequentatori del sito che si occupano di filosofia per vocazione): è piuttosto deprimente partire dall’ipotesi che le verità principali sul mondo e sulla vita siano già state dette, e che quello che resta da fare sia cercare di riadattare o rielaborare i dogmi di base, usando Adorno, Fortini o un Benjamin rigorosamente mutilato delle parti scomode, come faceva la scolastica con la teologia. Ai miei occhi, avere una spiegazione marxista della realtà significa accettare una filosofia della storia dell’alienazione, della rivoluzione, e della lotta di classe, una metafisica che presuppone la struttura fondamentalmente economica della realtà, un’antropologia incentrata sul concetto di lavoro, insomma, un pacchetto di assunti pesantissimi, ognuno dei quali mi procura enormi problemi. In questo senso non posso dirmi marxista: sarebbe come rinunciare al piacere di pensare e al sano scetticismo che ne è la premessa indispensabile. Al massimo, posso intendere il marxismo come una “politica provvisoria”, nel senso della “morale provvisoria” di Cartesio: la prassi infatti ha una sua temporalità propria che non coincide con i tempi lunghi della teoria, e, in attesa di trovare verità più convincenti, bisogna prendere decisioni, votare, schierarsi… Ma, forse, questo equivale semplicemente a tentare di essere di sinistra.
In conclusione, un appello anche ai Signori del Sito, così raffinati quando propongono musica, immagini e poesia, e così poco coraggiosi quando si toccano le visioni del mondo: finora in filosofia e politica abbiamo sentito solo l’equivalente di Guccini e degli Inti Illimani, con piacere e con il massimo rispetto: ma non sarà il caso di consultare anche un altro DJ?
@ Averroè
Ma l’Averroè defunto, del cui nome lei si fregia, non era contro l’intolleranza, visto che molta ne assaggiò sulla propria pelle? Battute a parte, credo che la sua intolleranza (lo dice lei…) le impedisca – questo ho notato leggendo la sua «fenomenologia del marxismo “non eretico”» – di capire che essa potrebbe essere estesa con minimi ritocchi a buona parte della cultura italiana (e non solo). Mi chiedo, però, perché perdere tempo a bacchettare la folla vociante dei “marxisti volgari” (si diceva una volta) o degli epigoni di Marx (tra i peggiori quelli che non s’accorgono d’esserlo), invece di porsi la domanda fondamentale e a trarne le dovute conseguenze: Marx (non il marxismo!) sta in qualche posto ragguardevole nella storia filosofica e culturale o no?
No, non sta nella mia saccoccia, piccola e magari bucata, d’esodante dalla Sinistra. Non sono un «grandissimo» esodante, come lei non è (dice…) «un grandissimo filosofo». (Il che forse permetterebbe di confrontarci senza prosopopea…).
Tutto il male (domostrato) del marxismo storico o del dilettantismo filosofico o politico o giuridico dei suoi nipotini, non dovrebbe, dunque, cancellare l’esigenza di discutere su MARX OGGI. Perché anche lei non s’impegna su questo? La sua idiosincrasia per il marxismo o i «marxisti attuali» (ma sarebbe bene fare dei nomi, come ho cercato di farli io, per evitare, appunto, le pericolose generalizzazioni) sarebbe, anzi, una freccia in più nel suo arco. E vede che qualche isolato – non so se eretico o esodante o ex – continua a farlo. Confrontarsi con loro le permetterebbe di ripensare al meglio anche alcune delle categorie (uomo, «l’amore per la vita», conoscenza, popolo), che lei usa e che a naso (la conosco solo per quanto scrive su LPLC) avrebbero bisogno forse di una messa a punto.
Per il resto anch’io e concludendo il discorso in questo post del silenzioso Pellini. Se ha letto tutta l’opera di Negri, ancor più risulterebbe utile confrontarla con quella di Marx per misurarne abbagli e/o incongruenze e/o furberie. Sul termine ‘ammissibile’/’non ammissibile’ forse sono stato poco attento, ma nella sua replica a Pellini (4 nov. 2011 ore 12,54 ) lei ha scritto e a questo io ho fatto riferimento:
«Tutto è nato dalla sua espressione, un po’ goffa, di «filosofo alla moda», e dalla sensazione, confermata anche dalle sue risposte (specie l’ultima), che lei sembra non voler riconoscere una linea di separazione tra livelli assolutamente «ammissibili», ma ben distinti e separati per valore, durata e natura del discorso. Toni Negri può scrivere quello che vuole, e lo stesso possono fare Ratzinger, un giornalista di Alfabeta, e Marwan Rashed (ma deve sempre citare i suoi amichetti?). Ma non può mettere sullo stesso piano la “Critica della ragion pura” e un articolo del Manifesto senza non suscitare nel suo interlocutore un po’ di ilarità».
Al di là dell’accertamento filologico, a me preme ancora sottolineare quel che pare allontanarci: lei mira o preferisce distinguere nettamente una disciplina (filosofia, poesia, politica) dai saperi – diciamo così – volgari o di massa, che volgarizzano, deformano, stravolgono quelle discipline; io, pur riuscendo ancora a distinguere la poesia dalla pubblicità o dalle canzoni di De Andrè (ha visto il post «Il più grande poeta degli ultimi cent’anni?» qui su LPLC) e non negando l’esistenza o la necessità di una gerarchia, non sopporto la rigidità penosa e a volte la dogmaticità autoritaria (e scarsamente motivata su un piano teorico) con cui essa viene difesa (e tutta la discussione su Pordenonelegge-Dedalus sempre qui su LPLC ne è un’ulteriore prova, sempre per me). Vorrei, come minimo, una “fluidificazione” della gerarchia. E ritengo auspicabile e non una perdita di tempo, come ho ribadito, il dialogo tra filosofo (anche grande o grandissimo) e l’ uomo della strada (o “lo sciocco” di cui parlava Fortini). Insomma, non sopporto una filosofia che per paura di sporcarsi o adulterarsi si arrocca tra gli specialisti. Il che non significa che vorrei ridurre la filosofia a pubblicità (come hanno fatto alcuni “professionisti” della politica). Certo non è facile o forse è quasi impossibile far quadrare il cerchio. Ma perché rinunciare?
@ signorina Else
Concordo quasi in pieno con le sue riflessioni. Effettivamente c’è uno scarto irrisolto. Da una parte un attaccamento identitario e religioso più che a Marx a una ideologia marxista ormai ossificata, ridotta a formule o slogan e a ripetizioni catechistiche (e usata politicamente in modi davvero dubbi e chiesastici). Dall’altra la proposta minoritaria e malvista di «uscire da Marx dalla porta di Marx», cioè aggiornando la sua teoria, proprio come fece Marx con quella dominante ai suoi tempi (l’economia classica). Quei pochi isolati (esodanti o meno dalla sinistra) che riconoscono ancora oggi il valore incontestabile dell’opera di Marx e la distinguono dai “marxismi”, si accapigliano purtroppo stancamente sul Marx umanista-comunista e il Marx scienziato. Anche questo è segno brutto della crisi in cui peniamo. Comunque, non posso che associarmi all’appello che lei rivolge a LPLC. Non è questione solo di coraggio ma anche di scelta da maturare. E ho appena chiesto ( nell’ultimo post di Rino Genovese) a chi giova la scissione evidente su LPLC tra post di cose letterarie, che pare attirino come il miele, e post vagamente politici, su cui si posano solo poche api volenterose e incerte sul “che fare”.
“Tutto il male (domostrato) del marxismo storico o del dilettantismo filosofico o politico o giuridico dei suoi nipotini, non dovrebbe, dunque, cancellare l’esigenza di discutere su MARX OGGI”
Sono assolutamente d’accordo con lei. Bisognerebbe farlo piu spesso (del resto anche qui e’ stato fatto: l’intervento di Riccardo Bellofiore andava in questa direzione, ed era interessante, di la’ dal fatto di condividere o meno quanto vi si sostiene). Ma magari si puo’ anche cominciare a osservare il mondo con i propri occhi, e si puo’ provare a pensarlo, di nuovo, senza trincerarsi dietro l’esegesi di un grande classico. Il mondo e’ cambiato. Anche gli intellettuali dovrebbero cambiare.
La mia critica che lei giustamente definisce un po’ bacchettona (non mi prenda troppo sul serio) era rivolta proprio a questa postura un po’ consolatoria del ripetitore che non vuole aprire gli occhi.
Ed era piu’ che altro l’espressione dello stupore per quello che ha notato anche lei ed @Else: su LPLC non c’e’ un grande equilibrio tra la cura per il livello medio degli interventi “letterari” e quelli “politici” o “filosofici”. Forse e’ per questo che, come lei dice, i primi “attirano come il miele” e gli altri no.
Sulla separazione delle discipline: sono stato poco chiaro. Per me le discipline potrebbero pure essere abolite. Ma questo non significa che le gerarchie non esistono. Un mondo senza gerarchie di valore sarebbe un mondo in cui sarebbe impossibile desiderare. Questo e’ quanto ci insegnano sin da bambini nella nostra felice Arabia.
Grazie infinite per la sua pazienza e per la sua disponibilita’ alla discussione “in questo post del silenzioso Pellini”
Se non è stato già segnalato, ecco un altro articolo riguardante il tema del valore degli studi umanistici che cerca di superare il solito discorso “scienze utilitaristiche e con valore solo strumentale – umanesimo inutile e con valore intrinseco” :
http://www.roars.it/online/gli-studi-umanistici-non-servono-solo-a-se-stessi/
Ciao.