di Giancarlo Alfano
[È uscito da poco Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento (Cesati) di Giancarlo Alfano. Quelle che seguono sono le prime pagine del libro].
quanto più si ripete il proprio passato, tanto meno ci se ne ricorda (Gilles Deleuze)
Il posto di Geo Josz
Si può cominciare con una storia di avarizia che finisce con una dura punizione, e con una parziale remissione. Si raccontava nel mondo antico che il nobile Scopa per festeggiare una vittoria nelle gare sportive organizzasse un sontuoso banchetto allietato dalla presenza di un famoso poeta. Venne a questo scopo chiamato Simonide di Ceo, che celebrò l’ospite paragonandolo a Castore e Polluce di cui descrisse lungamente la storia. Al termine del canto, Scopa non si mostrò contento e dichiarò che non avrebbe pagato al poeta più di metà della somma pattuita: per il resto del compenso il poeta avrebbe potuto rivolgersi ai gemelli divini.
Non sappiamo come i convitati accogliessero la battuta dell’ospite, ma Cicerone (De oratore, II, lxxxvi) racconta che dopo qualche minuto Simonide fu avvertito che due giovani chiedevano di lui. Giunto alla porta, il poeta esce fuori, si guarda intorno, ma non trova nessuno. Nello stesso istante il tetto della sala da pranzo crolla. I parenti delle vittime accorrono disperati per recuperare i cadaveri dei congiunti e dare loro onorevole sepoltura, ma non riescono a identificare i corpi sfigurati. È allora Simonide a ovviare al pietoso ufficio del riconoscimento: aiutandosi con la sua memoria di poeta, egli dà un nome a tutti i cadaveri ricostruendo il posto che ciascuno aveva occupato durante il banchetto. Nasceva quel giorno l’arte della memoria, consistente nella fissazione di una serie di loci, o scomparti, dentro i quali disporre gli oggetti che si vogliano tenere a mente (ea quae memoria tenere vellent). Con questo sistema, conclude Cicerone, l’ordine dei ‘luoghi’ conserverà l’ordine delle idee, mentre l’immagine della cosa rimanderà alla cosa stessa: i luoghi saranno come le tavolette di cera sulle quali si scrive, le immagini come le lettere con le quali si scrive.
Questa celebre storia merita un supplemento di analisi. Vi sono infatti concatenati elementi culturali importanti: la morte, la memoria, la poesia, i quali, ruotano tutti intorno alla figura di Simonide. Per capire questo intreccio è forse utile ricordare che la funzione della parola in generale e della parola poetica in particolare è stata regolarmente associata nel mondo classico alla fondazione delle città e dunque alla convivenza civile. Se ratio e oratio sono i due risvolti della natura umana dell’umanità, ciò è dovuto al fatto che il discorso ha consentito agli uomini di riconoscersi simili e di costituire gruppi sociali che hanno abbandonato l’originario stato animale. Nel fare questo, nel separarsi cioè dalla Natura, gli uomini avrebbero istituito le prime regole fondamentali, i primi tabù, i primi precetti: insomma, per ripetere il verso foscoliano ispirato da Giovanbattista Vico, «dal dì che nozze e tribunali ed are» hanno configurato l’umana convivenza, essa si è radicalmente contrapposta all’origine animale. Da quel momento gli uomini hanno individuato elementi che segnalassero la loro permanenza nel tempo al di là della morte. L’arte della memoria, imparentata con la poesia (Mnemosyne è infatti la madre delle Muse), è divenuta il perno di questa differenza.
Dentro questo grande sfondo antropologico il racconto di cui è protagonista Simonide c’insegna una cosa semplice: la memoria serve per trovare un posto ai morti. La cosa non è senza conseguenze anche da un punto di vista tecnico, cioè di quella techne specifica che è l’arte della memoria. Come spiega Cicerone, la mnemotecnica funziona sistemando quanto si vuole ricordare dentro una griglia figurale stabilita in precedenza: gli oggetti sono dunque collegati a dei luoghi, i quali, a loro volta, non sono altro che delle immagini. In questo strano gioco di raddoppiamento delle immagini, bisognerà pertanto tener conto dell’esistenza di uno sfondo permanente: riattivato questo, ci si ricorderà delle immagini.
Vi è dunque un orizzonte immutabile. Ovviamente a seconda delle epoche questo orizzonte si è trasformato – Cicerone parlava della strada che conduce al foro, nel Rinascimento italiano si parlerà di un teatro –, ma costante nel tempo è rimasta l’idea che si tratti di uno spazio sul quale si colloca ciò che occorre trattenere nella memoria. I singoli elementi che costituiscono lo sfondo si chiamano imagines agentes, cioè le immagini ‘che si muovono’, o ‘che agiscono’, sulla nostra psiche: o meglio, come si è detto per millenni, sulla nostra facoltà immaginativa, la quale a sua volta stimola la memoria.
All’impatto dell’esperienza si contrappone dunque una resistenza psichica, la memoria, la quale opera attraverso uno schema soggiacente. Questa specifica vis della memoria, che è potenza di luoghi resi culturalmente significativi, è stata particolarmente apprezzata in età cristiana, quando è stata applicata alla meditazione. Nel passaggio dalla lettura alla contemplazione, cioè nel transito dalla storia elementare alla diretta comprensione intellettuale nella mente di Dio (quella che chiamiamo ancora oggi intuizione), è stata infatti per lunghi secoli collocata una zona intermedia, la meditazione appunto, indicata come via di perfezionamento spirituale: una via tutta basata sulla forza delle immagini. A questo proposito, Roland Barthes richiamò qualche tempo fa l’attenzione sull’opera di Ignacio de Loyola; ma in realtà la cosiddetta composición de lugar, ossia la costruzione mentale di un luogo di rilevanza religiosa (per esempio il Golgota dove s’innalza la croce del Cristo), è stata una pratica presente nella spiritualità cristiana almeno a partire dal movimento benedettino.[1] Resta però il fatto che nel passaggio dall’evo antico all’età cristiana questa potenza è stata articolata sulla capacità ‘attiva’ delle immagini: c’è un’immagine che ‘agita’ o scuote la mia memoria attraverso la facoltà della immaginazione. Questo scotimento non è niente altro, per riprendere il bel titolo inglese di un saggio di Mary Carruthers, che una Craft of Thought, una tecnica artigianale del pensiero. Questa speciale vis della memoria, ci dice insomma l’aneddoto di Simonide, è ciò che attiva il dispositivo del tenere a mente. Un dispositivo il cui funzionamento ha un’evidente struttura allegorica: dispongo qualcosa su uno schema che mi riporta ad altro: camminando lungo la strada che mi conduce al foro mi ricordo delle singole parole che compongono il discorso che ho in precedenza elaborato.
Se volessimo proseguire nell’analisi dell’applicazione del luttuoso episodio di Simonide di Ceo all’arte oratoria dovremmo notare che, al pari della concezione freudiana di preconscio, anche qui abbiamo a che fare con dei ‘rappresentanti di rappresentazioni’, cioè con elementi che, presenti all’interno della psiche, alludono alle rappresentazioni inconsce di quanto fu presente all’esterno della psiche.[2] Si tratta di un’importante notazione di Freud che ci riporta alla dimensione allegorica e che qui non è possibile seguire, salvo per segnalare uno dei temi di questo libro, ossia la sovrapposizione dei tempi, il loro statuto mobile e paradossale, incerto: un essere stato presente e dunque un ‘essere oggi’ nel passato diviene nuovamente attuale (un ‘essere oggi del passato’).
Ma l’antico aneddoto ci mostra che l’arte della memoria è una topica, ossia propriamente un’arte dello spazio, una tecnica dell’organizzazione spaziale: ed è per questo che l’andirivieni tra i tempi è collegato alla fissazione di un orizzonte permanente, sullo sfondo del quale passato e presente scivolano l’uno sull’altro.[3] È quel che successe dopo la Prima guerra mondiale, quando si tentò di affrontare un’immane tragedia collettiva con la realizzazione di monumenti e rituali funebri che riattivassero il senso della comunità a partire dal lutto per la perdita dei familiari. Si trattò di un’operazione coerente con la nazionalizzazione delle masse, ma si trattò anche di una necessità fortemente avvertita dalla popolazione europea, che non aveva ancora mai dovuto affrontare un disastro di simili proporzioni. Uno strazio tanto più forte perché centinaia di migliaia di famiglie non poterono nemmeno onorare le spoglie dei loro congiunti, i cui poveri corpi non furono mai ritrovati. Da qui, come hanno spiegato per primi Jay Winter, George Mosse e Pierre Nora, la nascita dei sites of mourning, dei siti del lutto: cimiteri di guerra, monumenti funebri, viali della rimembranza, tombe del milite ignoto, cenotafi.[4] Una serie imponente, come ha notato lo storico francese François Hartog, di imagines agentes, di vivaci immagini adibite a riattivare la memoria, trasformata in strumento di identificazione collettiva: la «presenza del passato» assicura «l’identità dei gruppi sociali e in maniera particolare della Nazione».[5]
Il présentisme che caratterizza l’uso contemporaneo della memoria e dell’insieme di rituali che le sono collegati non è privo di complicazioni, e al limite di paradossi, come per esempio la difficoltà di celebrare adeguatamente anche chi è tornato dalla guerra. Mentre infatti la gloria del caduto è resa perpetua dall’erezione del monumento funebre, al reduce non è concessa la stessa eccellenza: non esser morto significa non poter essere onorato.[6] Il reduce è però un testimone, è colui che, come Simonide, può certificare la presenza del cadavere, può attestare della morte dell’eroe e così dargli un posto facendo innalzare il monumento che insieme lo fissi nel terreno e lo stampi nella memoria di chi è sopravvissuto.
Cominciamo forse a vedere qual è l’orizzonte immutabile, la griglia figurale sulla quale si dispongono le immagini del racconto, i fatti memorabili che vanno tramandati. E cominciamo a vedere che si tratta di un orizzonte incerto, una linea tremula, vaga, sulla quale i ‘fatti’ faticano a stagliarsi: un cadavere gettato in mare può sempre riemergere; un cadavere seppellito malamente e in fretta tra cento altri corpi sotto la minaccia del cannone nemico può sempre riemergere dal fango; un disperso potrebbe sempre ritornare. I siti del lutto si prestano insomma a essere trasformati in siti del sortilegio. Sorge così il dubbio che Simonide potesse non essere del tutto sicuro della disposizione dei corpi, o che forse mentre andava alla porta qualcuno si fosse alzato, o avesse scambiato il posto con un altro commensale… La memoria sistematizzante che sapeva trovare un posto per ogni cosa appare allora forse inefficace. Altro che coordinare lo spazio interno ribaltando la rete d’immagini sullo spazio esterno (i sepolcri, i monumenti, le lapidi), è lo spazio interno che viene saturandosi di spazio esterno: quello che fu là fuori avviene qua dentro. Nel reduce c’è qualcosa che ritorna.
Qualcosa, occorre aggiungere, ritorna anche col reduce. Attraverso di lui torna infatti la guerra, il ricordo della paura, delle privazioni, degli spettacoli più agghiaccianti. E torna anche il senso di una corresponsabilità con l’orrore. C’è un racconto di Giorgio Bassani che presenta con grande efficacia la qualità minacciosa di questo ritorno.[7]
Nell’estate del 1945 in via Mazzini a Ferrara un operaio sta sistemando la lapide che deve commemorare i centottantatré ebrei deportati e uccisi nei campi di sterminio nazisti. All’improvviso una «voce beffarda» ferma l’operaio che sta ultimando il lavoro. È Geo Josz, il cui nome è riportato insieme agli altri. Bizzarramente vestito, in pieno agosto, con un pastrano e un berretto di pelliccia, l’uomo è inoltre assurdamente grasso, offrendo un’immagine opposta rispetto alle descrizioni dei deportati che giungono dalla Germania, dalla Polonia e da altrove. Lo scampato si sistema in una stanza della sua grande casa di famiglia, provvisoriamente occupata dal Comando partigiano, e comincia ad andare in giro per la città mostrando un sorriso divertito e quasi ironico, che produce negli interlocutori una diffidenza e un senso di fastidio destinati a trasformarsi in aperta ostilità, fino alla sua esclusione dai principali luoghi della socialità cittadina: il bordello e il Circolo Amici dell’America. Geo, dal canto suo, continua a provocare scompiglio, non nascondendo la sua antipatia per le ‘barbe’ partigiane, e al contrario apprezzando chi, come un suo parente ebreo, ha conservato il pizzetto fascista. Egli rivela così la vera natura di chi è rimasto in città, sopravvivendo al disastro: effetto che produce per mezzo della sua sola presenza, giacché in lui non vi è «altro impulso che quello di rievocare immobilmente il passato», fissato innanzi ai suoi stessi occhi dalle fotografie dei familiari morti a Buchenwald, di cui ha tappezzato le pareti della stanza in cui vive.
Il trascorrere del tempo mostra intanto «una specie di rapporto dinamico segreto» tra il reduce e la città: mano a mano che le macerie vengono sgombrate e che il volto urbano riprende la sua tranquilla fisionomia, Geo Josz dimagrisce sempre più «fino a ridursi alla sola buccia»: abbandona l’abito di sartoria che aveva adottato al suo arrivo, riprende i panni sudici del viaggio, e s’installa ai tavolini del centralissimo Caffè della Borsa per raccontare ininterrottamente la vita trascorsa a Buchenwald e la morte straziante dei suoi cari.
Durante i mesi residui del ’46, tutto il ’47 e buona parte del ’48, la figura via via più lacera e desolata di Geo Josz non cessò mai di stare dinanzi agli occhi di Ferrara intera. Per le strade, nelle piazze, nei cinema, nei teatri, intorno ai campi sportivi, alle cerimonie pubbliche: volgevano il capo, e subito lo scorgevano là, instancabile, sempre con quell’ombra di rattristato stupore nello sguardo.[8]
Mentre la vita ricomincia – «e quando ricomincia, si sa, non guarda in faccia a nessuno» – e si organizzano i consueti rituali della memoria e della celebrazione, l’uomo uscito dalla lapide testimonia il tradimento del passato e il rinnovarsi delle consuetudini sociali: intanto si costruisce un dancing affianco al campo dove furono fucilati i partigiani e il Circolo Amici dell’America viene sistemato nelle sale dell’aristocratico Circolo dell’Unione. Finché un giorno, all’improvviso, Geo scompare, prima che il tempo – quel tempo «grazie al quale Ferrara stava risorgendo dalle sue rovine uguale identica a come era una volta» – possa cambiarlo, aiutandolo a «ritornare a una vita normale», a «inserirsi» insomma, e semmai anche a «rifarsi una famiglia», come arriva a dire qualcuno.
Geo Josz si conferma così un enigma: giunto dall’inferno col sorriso sulle labbra, egli ha indossato l’abito del reduce solo quando la città ha preteso di tornare quel che era sempre stata, portando via le rovine e passando sopra la rovina spirituale del fascismo e della guerra. Uscito dalla lapide, colui che «veniva da molto lontano, da assai più lontano di quanto non venisse realmente» e che pareva miracolosamente scampato a un destino orribile, scompare all’improvviso, confermando di essere davvero il centottantatreesimo ebreo ferrarese deportato in Germania.
Il racconto di Bassani è crudele. Da un lato esso mostra il senso e il funzionamento del cerimoniale, che mira a normalizzare l’evento, sottraendo alla vicenda singolare quel senso specifico che solo può trasformarla in vicenda generale. Dall’altro rivela il carattere ritornante del reduce, la sua affinità coi fantasmi, la sua familiarità con quanti non sono tornati. Una lapide in via Mazzini rappresenta insomma la condizione di chi, chiamato con la sua memoria e la sua testimonianza a trovare un posto ai caduti e a fissarne il ricordo (esorcizzandone il ritorno), è privo a sua volta di un posto dal quale parlare, rimasto a mezzo tra l’ora del dopoguerra e l’allora della guerra. Il suo orizzonte immobile, sul quale tenta di sistemare le immagini del suo racconto, è solo un ammasso di macerie, che il tempo della pace non può fare altro che rimuovere.
Note
[1] Roland Barthes, Loyola [1969], è raccolto in Id., Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso [1971], Torino, Einaudi, 1977. Jean Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla cultura monastica del Medioevo [1957], Milano, Rusconi, 2002. Il saggio di Mary Carruthers cui si accenna poco più avanti, del 1998, è tradotto in italiano col titolo Machina memorialis. Meditazione, retorica e costruzione delle immagini (400-1200), Pisa, Edizioni della Normale, 2006.
[2] La nozione, freudiana, è stata poi approfondita da Jacques Lacan, Seminario VII, L’etica della psicoanalisi [1959-1960], Torino, Einaudi, 1994. Cfr. il lavoro di Bruno Moroncini e Rosanna Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario al seminario di Lacan, Napoli, Cronopio, 2007, p. 98.
[3] Cfr. Harald Weinrich. Lete. Arte e critica dell’oblio [1997], Bologna, il Mulino, 1999. Sul racconto mitologico è tornata anche Antonella Tarpino, Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Torino, Einaudi, 2008, interessante a questo riguardo soprattutto per il capitolo quarto “La casa in guerra”.
[4] Cfr. almeno Jay M. Winter, Sites of Memory Sites of Mourning. The Great War in European Cultural History, Cambridge-New York-Melbourne, Cambridge University Press, 1995; e Gorge L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Bari-Roma, Laterza, 1990. Pierre Nora ha coordinato in Francia la realizzazione dei tre volumi dei Lieux de mémoire, Paris, Gallimard, 1997, dove ampio spazio è dedicato alla organizzazione spaziale della memoria come strumento della costruzione identitaria nazionale.
[5] François Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expérience du temps, Paris, Seuil, 2003, in part. pp. 138-9. Cfr. adesso anche Id., Évidence de l’histoire. Ce que voient les historiens, Paris, Gallimard, 2007.
[6] «I morti rubavano ai sopravvissuti il loro alone di gloria», hanno osservato Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento [2000], Torino, Einaudi, 2002, p. 181.
[7] Giorgio Bassani, Una lapide in via Mazzini, in Id., Cinque storie ferraresi [1956], Torino, Einaudi, 2005, pp. 77-114.
[8] Ivi, p. 108.
[Immagine: Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria (gm)].
Non conoscevo la storia raccontata all’ inizio ma la cosa che mi ha colpito di più è stata la salvezza di Simonide dalla catastrofe del crollo del tetto : ” niente succede per caso ” e questa non ne è che una conferma.
Grazie della preziosa segnalazione.
Le battaglie e le guerre che ciascuno di noi conduce , portano inevitabilmente ad una vittoria o ad una sconfitta…sembra che comunque sia piu’ facile essere accettati se si viene sconfitti piuttosto che se si riesce a vincere….si risulta antipatici è vero….non si guarda a chi ritorna con simpatia e calore , non si cerca di cogliere la fatica di chi ritorna e le difficoltà che devono essere affrontate dal reduce stesso che ha difficoltà in primis a riconoscersi nel mondo inconsapevole delle brutture e delle devastazioni affrontate…non gli si tende una mano, lo si ignora o anche lo si guarda cercando di cogliere debolezze o addirittura favorendo la caduta….un reduce dovrebbe avere onori , monumenti e calore continui affinchè il suo difficile ritorno sia sostenuto da coloro che di guerre e battaglie hanno solo vaghi sentori ma non hanno alcuna idea di quanto sia difficile tornare