di Mauro Piras
[Le parti precedenti di questo intervento si possono leggere qui, qui e qui].
Scuola e lavoro. La quinta parte de La buona scuola affronta, finalmente dopo tante pagine, uno dei problemi più gravi della scuola italiana: la dispersione. Solo che lo affronta da un unico lato, quello del rapporto con il mondo del lavoro. La dispersione scolastica, cioè la percentuale di studenti che non completano la formazione secondaria di secondo grado, è causata dalla selettività della scuola italiana, che non è capace di trattenere i ragazzi in difficoltà con l’apprendimento. La scuola secondaria italiana non è accogliente, i ragazzi non vi si trovano a loro agio, si annoiano, fanno fatica. I più deboli si stancano, abbandonano, o si fanno bocciare e lasciano gli studi dopo la bocciatura, soprattutto nei primi due anni delle superiori. Per ovviare a questo, l’obbligo di istruzione, che in teoria è fino a 16 anni, è stato di fatto annacquato, poiché può essere assolto anche nella formazione professionale e nell’apprendistato. Così molti ragazzi espulsi dal sistema scolastico rientrano in un percorso di formazione. Il problema è però proprio che sono stati espulsi dal sistema scolastico. La soluzione andrebbe cercata modificando radicalmente la didattica e i sistemi di valutazione degli apprendimenti nella secondaria di secondo grado. Ma come abbiamo già visto, questo aspetto manca quasi del tutto nella proposta del governo. L’unica cosa che si trova è il principio, affermato in questo capitolo, che la didattica deve diventare più laboratoriale, creando più laboratori nelle scuole, o mettendo queste in contatto con laboratori esterni.
La dispersione viene invece affrontata soprattutto dal lato del rapporto con il lavoro: come fare in modo che il percorso formativo faciliti l’accesso al mercato del lavoro, tramite l’acquisizione di competenze pratiche. Per questo si intende rafforzare l’alternanza scuola-lavoro, già entrata nel sistema scolastico a partire dal 2003. Si propone di decuplicare quasi gli investimenti a essa dedicati, e di generalizzarla, cioè di renderla obbligatoria per tutti gli Istituti Tecnici e Professionali. C’è da chiedersi se questa sia l’unica risposta. Certo, in questo tipo di scuole il rapporto diretto con il mondo della produzione, del commercio o dei servizi significa indubbiamente offrire un’occasione per applicare e approfondire le competenze apprese negli studi. Non è però facile da realizzare, perché il mondo delle imprese non è così disponibile a prendere gli studenti, a fargli mettere le mani sui macchinari, a fargli assumere delle responsabilità. Supponiamo però che funzioni bene. Anche così, questa risposta al problema della dispersione è troppo parziale: parte dal presupposto che per gli studenti deboli, che appartengono anche alle classi sociali più deboli, la soluzione sia un contatto diretto con il mondo del lavoro, come, con la formazione professionale, la soluzione all’espulsione dal sistema scolastico è un inserimento rapido nel mondo del lavoro. Ma questo è vero solo in parte. Con questa scelta si conserva la differenziazione sociale tra gli studenti destinati a una formazione culturale ampia, e quelli che devono rinunciarvi, per poter essere collocati rapidamente nel mondo del lavoro. La scuola di una società democratica non può accettare questo esito. La vera soluzione al problema della dispersione scolastica è un rivoluzionamento della didattica nella secondaria di secondo grado, che però a pochi interessa.
Molto importante, per favorire l’accesso di una parte crescente di popolazione a competenze di alto livello, è il rafforzamento della formazione tecnica post-diploma. Gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) già esistono da qualche anno. Su questo il documento si limita, molto genericamente, ad auspicare che gli ITS vengano rafforzati, senza dare indicazioni più precise. Servirebbe invece una politica più decisa e definita su questo terreno; non avere investito presto nella formazione post-diploma non universitaria è una delle ragioni della disoccupazione italiana, dal momento che la formazione post-diploma prevalente è quella universitaria, dove però la percentuale degli iscritti che arrivano alla laurea è ancora molto bassa.
Nuove risorse per la scuola. Dopo essersi chiesto tante volte, durante la lettura del documento, “ma i soldi da dove li prendono?”, il lettore arriva in fondo pieno di speranza e dice: “è qui, te lo dicono nell’ultimo capitolo dove trovano i soldi”. E invece no. O insomma, non proprio. Non viene detto con precisione da dove verranno le risorse pubbliche per assumere i precari, per esempio, o per rafforzare il fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa (MOF, quello che permette di sostenere e arricchire l’attività didattica delle scuole). Però ci sono alcune indicazioni generali sui modi di reperire i fondi.
Dal lato del finanziamento pubblico della scuola, si afferma che verranno aumentate le risorse, per l’assunzione dei precari, per le innovazioni nella didattica, e per l’edilizia scolastica. Si tratta di una semplice dichiarazione di intenti, e vaga. Ora abbiamo qualche elemento per capire meglio. Per esempio, sappiamo dalla Legge di Stabilità attualmente in discussione che il miliardo necessario nel 2015 per l’assunzione dei precari viene trovato da tagli su altri capitoli di spesa nella scuola. Questo conferma quanto si temeva leggendo il documento: se c’è bisogno di molti soldi, in questo momento di difficoltà, è impossibile trovarli se non con tagli di spesa su altre voci. Ma questa operazione non può essere replicata più di tanto. Quindi forse è lecito dubitare che si trovino i soldi.
Un’altra voce che il governo vorrebbe rafforzare, in termini economici, è il MOF. Su questo il documento è più chiaro: il rifinanziamento del MOF dovrebbe essere fatto con i risparmi realizzati grazie al blocco degli scatti di anzianità tra il 2015 e il 2018, prima che partano gli “scatti di competenza”. Ci sono però due problemi: il primo è che questi risparmi non sono quantificati, e sembra difficile che si possa parlare di un miliardo in più a regime (quanto ci vorrebbe per riportare il MOF alla sua dimensione originaria, prima dei tagli degli ultimi anni); il secondo è che, se si vuole stabilizzare il MOF per gli anni a venire, non si vede come questi risparmi possano servire dopo il 2018.
Insomma, sul piano delle risorse pubbliche per la scuola c’è l’intenzione dichiarata di investire e di aumentare i finanziamenti, ma senza indicazioni precise; quindi, nel difficile quadro di finanza pubblica in cui siamo costretti a muoverci, questa intenzione rischia di restare lettera morta.
E infatti il documento apre il capitolo dei finanziamenti privati alla scuola. Una buona strategia per aumentare le risorse della scuola in tempo di crisi del debito pubblico. Intendiamoci, al di là di questa situazione contingente, l’idea che ci siano finanziamenti privati alla scuola pubblica è positiva. Dovremmo accettare il principio che tutto il sistema economico del paese deve contribuire agli investimenti nella scuola, e non solo lo Stato. E su questo terreno andrebbe rivista anche la questione del contributo delle famiglie al funzionamento della scuola. Ma quest’ultimo non è un tema popolare, quindi il documento non ne tratta.
Poi, come sempre, il problema è nel metodo e nei dettagli. Solo che dettagli non ce ne sono molti. I metodi proposti per favorire gli investimenti privati con agevolazioni fiscali o strumenti finanziari (school bonus, school guarantee, obbligazioni a impatto sociale ecc.) sembrano interessanti. Più problematica l’idea delle Fondazioni. Questo rischia di essere uno strumento molto discriminatorio, perché scuole piccole o in contesti territoriali poco sviluppati potrebbero avere molte difficoltà a trasformarsi in Fondazioni e a diventare degli agenti economici trattati alla pari da altri agenti economici. In generale, in tutta questa materia il problema non è “la penetrazione del privato nel pubblico”, come temono gli oppositori pregiudiziali di ogni forma di finanziamento privato della scuola, non è cioè l’influenza dei “capitali privati” sulla gestione delle scuole. Per questo, è sufficiente porre dei limiti chiari sia all’entità dei finanziamenti, sia alla possibilità di entrare negli organi di gestione della scuola. Il problema è la diseguaglianza che si può creare tra le scuole che riescono a trovare risorse più facilmente, perché collocate in territori favorevoli, e le scuole che non riescono a trovare alcun finanziamento. Bisognerebbe forse impostare il problema a vari livelli: a livello locale, lasciare alle scuole, con la loro autonomia, la possibilità di procurarsi fondi con metodi simili a quelli citati dal documento, e lasciare agli investitori la possibilità di usare quegli strumenti; su questo livello però il Ministero dovrebbe intervenire, con gli Uffici scolastici regionali, per compiere un’opera di perequazione, correggendo gli squilibri; a livello nazionale, bisognerebbe promuovere dei canali di finanziamento diretto, da parte dei privati, dell’intero sistema scolastico, ridistribuendo poi le risorse dall’alto, secondo criteri di equità.
Un bilancio. Che valutazione si può dare del progetto di riforma della scuola proposto dal governo?
La prima è che, forse, non si tratta di un progetto generale di riforma. Si tratta piuttosto del tentativo di risolvere alcuni problemi gravi della scuola italiana, con cure a volte radicali. Solo su un terreno c’è una vera riforma, cioè un cambiamento strutturale: il passaggio dall’anzianità al merito nella progressione stipendiale, e quindi l’introduzione di una idea di carriera dei docenti. Tra gli altri interventi, l’unico che potrebbe definirsi un cambiamento di struttura è l’introduzione dell’organico funzionale, con la conseguente eliminazione delle graduatorie per le supplenze; tuttavia, abbiamo visto che non lo è del tutto perché viene inteso in un modo che non modifica l’attribuzione degli organici “ordinari” da parte del Ministero. Il resto riguarda il rafforzamento di strutture e tendenze già esistenti, da una parte (sistema di valutazione, scuola-lavoro); e l’affermazione di nuove tendenze ancora vaghe (rafforzamento del potere dei presidi, finanziamento dei privati). Non sono invece catalogabili le fantasiose proposte sui programmi.
Tuttavia, come detto all’inizio di queste analisi, se tutto quello che viene proposto qui venisse fatto, ci sarebbe un rivoluzionamento della scuola italiana. Con l’assunzione dei precari si chiuderebbe un problema storico e si cambierebbe radicalmente il modo di gestire le supplenze; con gli “scatti di competenza” si modificherebbe a fondo il profilo professionale del docente; con gli altri interventi si sbloccherebbero diverse situazioni di inefficienza. Sarebbe un rivoluzionamento per quel che riguarda una parte dell’organizzazione scolastica. Non sarebbe però una vera riforma, perché questa dovrebbe affrontare le inadempienze della scuola italiana.
Il vero malato della scuola italiana è la secondaria, soprattutto di secondo grado. Le statistiche ufficiali sulla dispersione scolastica non rappresentano correttamente il problema. Esse infatti calcolano la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che non hanno nessun diploma successivo all’obbligo, cioè neanche un diploma biennale o triennale di formazione professionale. Calcolata in questo modo, la dispersione era del 17,6 % nel 2012 (contro una media UE del 12,7 %), come ricorda anche il documento del governo. Il problema però non è questo. Il problema è di capire se la scuola italiana riesce a realizzare il compito di portare gli studenti a livelli di competenze adeguati a una società altamente differenziata. Cioè di portarli al diploma di scuola secondaria di secondo grado, che li può fare accedere a una formazione terziaria (universitaria o tecnica superiore). Se ci si pone questa domanda, i dati sono molto più allarmanti: se si prendono gli iscritti alla scuola secondaria di secondo grado nel 2005 e si va a vedere quanti di loro hanno concluso il ciclo, nel 2010, si vede che un terzo ha abbandonato gli studi; inoltre, un terzo della coorte generazionale più recente, cioè quelli che avevano tra 20 e 24 anni nel 2011, non ha un titolo di studio che gli permetta di accedere a una formazione terziaria (prendo questi dati dalle ricerche di Daniele Checchi). Questo è il vero aspetto del problema: la scuola italiana non è capace di garantire una formazione di alto livello a un terzo della sua popolazione studentesca. Perché è troppo rigida, troppo selettiva, troppo classista.
La riforma della scuola di cui abbiamo bisogno dovrebbe rivoluzionare l’impianto della didattica della secondaria di secondo grado; dovrebbe modificare il tipo di relazione educativa che si instaura correntemente nelle aule delle scuole italiane, rovesciando il modello del “docente che parla alla classe”; dovrebbe far saltare il sistema a cascata per cui gli studenti bravi fanno il liceo (e i licei sono organizzati gerarchicamente, come è noto), gli scarsi fanno i tecnici e i professionali e se non sono bravi neanche lì, fuori, vengono bocciati; dovrebbe abolire le bocciature, rendendo più flessibile il percorso formativo; dovrebbe imporre una volta per tutte l’innalzamento dell’obbligo a 16 anni, che di fatto non esiste; dovrebbe interrogarsi sulla riorganizzazione dei cicli, per rendere più unitario il biennio delle superiori, dal momento che rientra nell’obbligo.
E poi, grande assente dal documento e da quasi tutte le discussioni sulla scuola, una vera riforma dovrebbe mettere al suo centro l’istruzione per gli adulti. Quasi tutta la partita si gioca qui. Da una parte, perché solo l’istruzione degli adulti può aprire l’accesso alla formazione secondaria di secondo grado a quanti ne sono stati espulsi in età scolare; dall’altra, perché quello che si apprende a scuola si perde rapidamente (circa cinque anni, è stato calcolato) se non viene praticato. Questo vuol dire che anche chi ha fatto le scuole superiori regredisce alla terza media se, nel suo lavoro, non pratica i saperi acquisiti; che chi ha la terza media regredisce a un qualche livello delle elementari; e chi ha solo la quinta elementare rischia di precipitare, di fatto, nell’analfabetismo. Questo spiega perché in Italia un terzo dell’intera popolazione non è di fatto capace di comprendere frasi semplici scritte in italiano, o di fare operazioni aritmetiche di base.
Gli obbiettivi primari del sistema scolastico, in una società altamente differenziata, devono essere da una parte quello di portare tutti gli studenti a un titolo che renda possibile l’accesso alla formazione terziaria; e dall’altra quello di garantire una formazione permanente a tutti i cittadini, perché le competenze acquisite non si perdano. Su questi obbiettivi si valuta una prospettiva di riforma della scuola.
(Torino, 3 novembre 2014)
[Immagine: Stefania Giannini (gm)].
Sono d’accordo con la visione dell’autore in tema di dispersione e di bocciatura:
Benissimo che venga data una risposta con l’alternanza scuola-lavoro, ma il problema della dispersione va affrontato anche da altri punti di vista. E’ necessario dare al Docente e al Dirigente Scolastico degli strumenti per agire insieme alle associazioni sul territorio oppure come in Norvegia, dare allo studente in difficoltà un “tutor-dispersione” (non a posteriori) ma appena il problema si pone (noia, problemi familiari, problemi di identità e di relazioni in genere, tutti quei problemi che non possono essere “certificati” ma che sono molto comuni).
Questo gioverebbe anche all’economia italiana perché comporta un costo (una bocciatura=un costo) per lo Stato (un’ incidenza dell’8,4% ad esempio per un ragazzo che ha ripetuto un anno nel triennio della scuola secondaria di I grado).
In Norvegia, come in altri paesi europei, la bocciatura non esiste.
La bocciatura è un problema prima di tutto culturale:
http://www.indire.it/content/index.php?action=read&id=1687#_ftn2
Anche la parte conclusiva di questo gruppo di interventi la trovo ben riuscita e condivisibile, Mauro. In aggiunta a ciò che hai scritto, Volevo chiederti in particolare se tu ritieni che sia una buona cosa l’obbligatorietà di momenti di alternanza scuola-lavoro anche nei licei e, più in generale, se tu ritieni che il mondo del lavoro e più in generale l’attività dell’operare pratico, concreto e applicato sia qualcosa di totalmente distaccato dal mondo dello studio e del conoscere teorico, astratto e slegato da applicazioni. Io ritengo che certo possono accadere degenerazioni che fanno sì che le logiche del mercato e della massa possano svilire la conoscenza fine a se stessa, ma a me sembra vero anche il contrario, cioè che le nuove applicazioni pratiche fanno stimolare il conoscere teorico (esempi a caso: Galileo non avrebbe avuto le sue teorie senza le novità del cannocchiale, e le nuove tecniche mediche non avrebbero aperto nuove questioni morali e bioetiche) e in tal senso oggi anche il periodo di vita nel mondo del lavoro è caratterizzato a imparare sempre di più. Insomma, il gridare a “tecnocrazia”, “aziendalizzazione” e “mercificazione” della scuola rischia (magari legandosi a una visione di lavoro non come stimolo per sviluppare anche il conoscere teorico è lo sviluppo della persona nel complesso ma al contrario come negativo sfruttamento dell’uomo sull’uomo), come diresti tu, di essere la notte dove tutte le vacche sono nere.
Altro punto che mi piacerebbe che tu approfondissi è quello della critica della visione della scuola superiore come sviluppata a “piramide”, con a partire dall’alto i licei (sulla punta ovviamente il classico) e a seguire tecnici e professionali. Già in altre discussioni ho contestato questa struttura e mi ha veramente deluso sentirmi rispondere (non voglio soffermarmi qui sulla persona che lo ha detto) “ci sono ragazzi più studiosi e meno studiosi” e “Non mi pare uno scandalo sostenere che i licei sono scuole di formazione più alta”. Io non intendo certo qui cercare di avere ragione a tutti i costi e accusare di ogni male chi non la pensa come me, ma vorrei che ci fosse un dibattito in cui le posizioni in campo chiarissero bene qual è la loro idea di scuola e di uguale diritto a ogni persona di una formazione degna di un cittadino consapevole, a prescindere se un giorno farà l’avvocato, l’informatico o il cuoco (ad esempio io ritengo che si debba insegnare Leopardi o Kant a ciascuna di questi tre tipi di persone, e ritengo inammissibili discriminazioni in base a discorsi su lavori “di mente” o “di mano” distinzione che ho prima già confutata). Io sinceramente direi che per fare questo si dovrebbe avere coraggio anche nel far mettere in discussione l’identità del liceo, ovvero io metterei elementi di filosofia, magari solo opzionali, anche nei tecnici e nei professionali e una trattazione altamente specialistica e approfondita delle lingue classiche la metterei obbligatoria solo in un liceo classico come scuola specialistica per futuri filologi, archeologi e storici (mettendole magari non proibite ma opzionali negli altri licei e, perché no, anche ai tecnici e professionali). Tutto questo fermo restando che il liceo di oggi ha sicuramente perduto tutte le funzioni che aveva all’epoca di Gentile (e questo già smentisce che io accusi qualcuno di essere “gentiliano”): basti pensare che il liceo classico ha il 70% di studenti femmine e non mi pare che nel mondo del lavoro in Italia ci sia il 70% della classe dirigente composto da donne (peraltro, nulla in contrario a tale ipotetica prospettiva…).
Caro Mauro, ci siamo già confrontati (e scontrati) sulle questioni più strettamente legate al documento ministeriale. Sul tema della dispersione scolastica, amplii, giustamente, l’orizzonte del tuo discorso, e affronti temi molto dibattuti, da anni, e complessi. Lasciando perciò da parte questo (per me) penosissimo documento ministeriale, vorrei dire qualcosa sulla dispersione, e non tutto quello che dirò sarà gradevole.
Provo a riassumere le tue proposte per affrontare questo problema, grave e serio: rivoluzione della didattica, abolire le bocciature, far saltare il sistema a cascata licei-tecnici-professionali e uniformare almeno i bienni delle superiori.
Ora, a parte forse il termine “rivoluzione”, su cui sono sempre più scettico quanto più rifletto sui problemi della scuola – nessuna istituzione è in grado di tollerare stravolgimenti: le istituzioni si modificano non, come si fa in Italia, con leggi e “riforme” sempre nuove, ma con il cambiamento delle pratiche; ma le pratiche, che sono abitudini irriflesse, non possono essere radicalmente modificate in poco tempo -, sono d’accordo con te che il punto centrale sia sempre la didattica. E non saremo mai noiosi nel ripeterlo.
Non voglio aprire qui la discussione – sarebbe lunghissima – sulla lezione frontale, che secondo me è ingiustamente vituperata solo perché è diventata feticcio e totem, che incarna simbolicamente tutti i mali, e mi limito a osservare che è vero che la nostra scuole soffre di una verbosità talvolta senza costrutto: dopo anni di medie, anche alle superiori (biennio) ho ripreso a leggere in classe il manuale coi ragazzi, alternando quest’attività a lezioni frontali, redazione di mappe concettuali, esercitazioni, ecc… perché i ragazzi devono scontrarsi con i problemi della comprensione di un testo, con la capacità di fare inferenze su di esso, di trovare il topic, di osservare i connettivi logici, ecc… insomma di riempire quei vuoti che ogni testo ha: se quei vuoti vengono preventivamente riempiti dall’insegnante con la sua spiegazione, noi inibiamo una capacità che oggi è centrale. (Postilluccia: “oggi ho preparato alcune domande di guida alla lettura, vorrei che lavoraste sul testo autonomamente” “Professore, ma non può spiegare lei? Lo preferiamo, capiamo di più”. Incredibile vero? Agli studenti piace la lezione frontale. Ma, se si tiene conto di quanto ho detto, non è strano: con quella fanno molta meno fatica. Eppure a volte la lezione frontale è importante, e tanto. Ma di ciò un’altra volta).
Dell’abolizione delle bocciature si è già discusso: è interessante, soprattutto non è un tabù, anche se, per come la vedo io, ci sono parecchi “ma” e “sì, ma a certe condizioni”.
Il punto scabroso però è l’ultimo. Io trovo che quando si parla di uniformazione dei bienni e di far saltare il sistema a cascata ci sia un’ambiguità di fondo. Se la critica a questo sistema significa puntare il dito contro il classismo della scuola, siamo d’accordo. Se un liceo classico non prende, per fare un esempio, uno studente straniero capace, solo perché non è in grado o non ha voglia di occuparsi della sua alfabetizzazione, ciò è ingiusto e bisogna provvedere. Se però la critica significa tout court equiparazione, io non ti riesco più a seguire.
Cantava De Gregori che la storia è fatta da chi ha letto un milione di libri e da chi non sa nemmeno parlare. Ora, lui poteva commuoversi su questa vastità e varietà, noi insegnanti sappiamo che è un problema, anzi, probabilmente, il problema. Dove nascono queste differenze? Sappiamo bene che invocare la natura in questi casi impedisce di riconoscere l’influenza pesante della culturae della società, ma, altresì, che l’apprendimento sociale e culturale (e la differenziazione sociale e culturale) inizia dal primo vagito, dalle prime relazioni con la madre, dall’ambiente domestico, ecc…, tutti fattori su cui la scuola non ha alcuna possibilità di intervento.
Penso che siamo tutti d’accordo nel dire che l’uguaglianza (non quella giuridica, dico quella sociale, economica, delle possibilità di realizzazione, …) sia un ideale cui tendere, ma non un dato di fatto, né un risultato in effetti conseguibile. Come correggere, almeno un po’, l’ingiustizia della disuguaglianza? Io credo mettendo gli studenti nelle condizioni di avere a scuola una didattica a loro consona. Ma anche su questo credo che saremo tutti d’accordo. Temo che il tasto dolente giunga qui, sul crinale che dalla teoria ci porta alla pratica.
Temo infatti che per avvicinare la didattica alle esigenze degli studenti, ci sia bisogno di un’organizzazione ragionevole e ordinata, che significa luoghi diversi e approcci diversi (occhio però, non è una questione di contenuti: ma perché la filosofia e il latino solo nei licei? Ma nei professionali dobbiamo leggere o no Ariosto? Come se il punto fosse stabilire se Dante si può dare anche ai muratori o solo alla seletta schiera dei delibatori di poesia. Il punto è che le competenze cui dobbiamo portare gli studenti sono grosso modo le stesse: ad esempio portarli a comprendere un testo scritto, e forse leggere Machiavelli al liceo Tasso di Roma, Parini di Milano, Gioberti di Torino, è un buono strumento per raggiungere l’obiettivo, farlo nella periferia complicata di un’altra grande città probabilmente no). Ma, forse e ancora meglio: ciascun essere umano potrebbe capire tutto, tutto potrebbe essere dato a tutti se la mediazione sapesse chinarsi tanto da raggiungere il suo livello, per elevarlo di lì. Ma non esiste istituzione, insegnante, didattica, classe in cui sia possibile arrivare a questo sublime e utopico obiettivo. Forse meglio guardare la verità effettuale.
Già alle medie gli insegnanti conoscono la necessità di differenziare gli obiettivi, di fronte a uno studente che ha lo scatto del centometrista e quello che barcolla sulle proprie gambe. Ma, al di là degli ideali, la personalizzazione di cui parlano i pedagogisti è materialmente impossibile. Si può, al più, cercare di modificare la propria didattica trovando un livello medio che possa tenere dentro quanti più allievi possibili (da quando ho allievi con disturbi specifici dell’apprendimento, la mia didattica è cambiata anche per gli altri), prevedendo qualche parziale personalizzazione per un numero ridotto e ragionevole di allievi (ma dove il numero non è né ridotto né ragionevole?).
Per esperienza posso dire che non basta, la coperta è ancora troppo corta. Ma sinceramente non so come si potrebbe fare di più. Ripeto: alle medie l’allievo più bravo e quello con più difficoltà hanno un abisso fra di loro, non è sempre e solo colpa della scuola che non è abbastanza inclusiva, e noi insegnanti siamo esseri umani con una testa e due braccia, niente di più.
Ora, l’uniformazione del biennio delle superiore mi pare prefigurare un allungamento delle medie, ovvero la permanenza dentro lo stesso contesto di allievi con capacità molto diverse, con le difficoltà cui ho accennato. Trovo che sarebbe assai più saggio dirsi, con la franchezza del bambino della fiaba del vestito nuovo dell’imperatore, che la storia è fatta da chi ha letto un milione di libri e da chi non sa nemmeno parlare (e spero vivamente che ciò non mi sia imputato a classismo, o razzismo, o conservatorsimo), dirsi che per affrontare questo problema abbiamo bisogno davvero di una (lunga e paziente…) rivoluzione.
Ad esempio: dovremmo dirci che un docente di materie umanistiche esce dall’università con una formazione che va bene per un triennio del liceo classico – e se diventa bravo è perché impara buone pratiche sul campo – ed è inadatto non dirò per una scuola professionale, ma per il biennio di quello stesso liceo classico, dove la didattica non ha più da decenni un modello chiaro, forte, necessario. Dovremmo dirci che le scuole di specializzazione per insegnanti devono uscire dalla logica emergenziale di questi anni, per cui le scuole di formazione sono servite (non solo, ma, purtroppo, anche) per sanare in corsa i bilanci delle università e la piaga del precariato, più che per lo scopo al quale sarebbero state pensate. Quelle scuole, a regime, stabilizzate, messe a punto, dovrebbero lavorare – chiaramente fra molte altre cose – sulle capacità e vocazioni differenziate dei docenti, sforzandosi di definire profili professionali non più dell'”insegnante”, ma di “insegnanti”, con curricoli di studio diversi e adeguati, perché non è, almeno per certi versi, lo stesso mestiere insegnare italiano in una prima media, italiano in una quinta di liceo classico, italiano in una terza di istituto tecnico. Dovremmo dirci che alle scuole con situazioni difficili e delicate (dove, ricordiamolo, oggi non finiscono solo i ragazzi che non hanno voglia o capacità di studiare, ma anche gli stranieri e gli studenti con difficoltà di apprendimento: ciò che aumenta a dismisura le competenze richieste ai docenti e, quindi, rende la nostra coperta ancora più corta…), bisognerebbe dare più fondi, riconoscere il diritto a classi ridotte a organici funzionali, a compresenze, al sostegno eventualmente di altri specialisti, e molto altro.
Davvero, caro Mauro, teniamo conto che la scuola è fatta da esseri umani, limitati e spesso molto al di sotto nella misura ragionevole in cui i nostri ideali umanistici e politici vorrebbero inquadrarli.
Un piccolo appunto: io distinguerei nelle superiori tra una didattica in cui si insegnano le materie in una trattazione altamente approfondita e specialistica per studenti che intendono nel loro futuro compiere studi universitari o lavori legati strettamente a quelle particolari materie (ad esempio insegnare in modo molto approfondito la letteratura a studenti futuri professori di letteratura, scrittori, giornalisti, o traduttori) e una didattica in cui si insegnano le stesse materie in una forma meno approfondita e non specialistica ma che si ritiene sia una materia che abbia per ogni studente grande valore formativo in quanto li rende cittadini con capacità e coscienza di valore per pensare e agire nella società (e dunque un minimo di nozioni e capacità legate alla letteratura sono indispensabili a tutti in modo uguale, che siano avvocati, informatici o meccanici, senza distinzioni di discipline “di mente” e “di mano”, a parte appunto per le professioni viste prima estremamente legate alla materia).
In tal caso non ha senso parlare di classismo ma semplicemente di differenziazione fra chi sceglie un certo percorso di lavoro e per chi ne vuole fare un altro e dove quindi certe materie dovranno essere più approfondite di altre. Il classismo ci sarebbe invece se si ritiene arbitrariamente che un futuro avvocato debba obbligatoriamente nella scuola superiore avere studi di filosofia di un livello più alto rispetto a un futuro informatico o meccanico (che magari filosofia non la hanno neppure nella loro scuola), mentre la cosa avrebbe senso solo nel caso che il ragazzo in questione voglia essere un futuro insegnante di filosofia. Spero io abbia espresso bene questo concetto di differenziazione.
@ Lo Vetere
Sono molto d’accordo con questa tua riflessione. Le difficoltà del passare dalla teoria alla pratica sono insite nel paradigma umanistico-centrico, questo mostro per cui si è arrivati alla follia di impartire le paturnie dei poeti morti a dei ragazzini. Una tortura che un giorno verrà vista come oggi guardiamo alle punizioni corporali per impartire l’educazione. Se misuri la bravura dello studente con lo stesso metro di giudizio e secondo un canone uniforme il classismo è intrinseco, così come la permanenza nello stesso gruppo di studenti con capacità inferiori/superiori. Il motivo è che il confine ad essere arbitrario. Se il tuo obiettivo di insegnante è far arrivare tutti gli studenti alla comprensione di un testo, forse non è una buona idea insegnare a tutti la stessa cosa, partendo da un principio antico che ha portato alla creazione di un canone. Forse si può prendere atto che la mente umana è diversa per ogni essere umano e non tutti hanno lo stesso interesse e piacere per le stesse cose. Però tutti sono in grado di arrivare a comprendere dei testi, quindi la cosa più intelligente è lavorare sul metodo. Per arrivare a comprendere la maggior parte dei testi che possono capitare a una persona italiana, è irrilevante studiare su Leopardi o sulla Gazzetta dello sport. Ciò che penso dovrebbe fare la scuola è eliminare gli indirizzi e insegnare cose di base a tutti come corso minimo. Poi creare corsi che potranno essere scelti dagli studenti secondo le loro inclinazioni. Ogni scuola avrà corsi umanistici, scientifici, sportivi, professionali.
@DFW. Non vorrei sembrare autoritario, fornendo sia il testo che le chiavi di interpretazione autorizzate, però, ecco, non è che intendessi proprio questo.
Provo a riscrivere un piccolo appunto che forse non sono riuscito a spedire come commento: io distinguerei nettamente l’insegnamento altamente specialistico e approfondito della letteratura italiana riservato a studenti intenzionati a volere in futuro un’occupazione strettamente legata alla letteratura (ad esempio professori di letteratura, scrittori, giornalisti recensori di libri, traduttori, e analogamente la matematica insegnata in modo specialistico a futuri matematici, fisici od economisti) da un insegnamento non approfondito ma “base” di una materia come letteratura o matematica che la si ritiene di valore per ogni ragazzo in quanto li rende cittadini con capacità e coscienza di valore per pensare e agire nella società (a prescindere che sia in futuro avvocato, informatico o cuoco). In tal caso il classismo non c’è, in quanto non è che il secondo tipo di insegnamento è più “scadente” del primo. Ci sarebbe classismo solo nel caso ad esempio si decidesse che un cuoco in un alberghiero debba avere una conoscenza di filosofia più “scadente” o addirittura assente rispetto a quello di un futuro fisico in un liceo scientifico, dato che la filosofia dovrebbe essere una materia di valore per ogni ragazzo (fermo restando che dovrebbe essere scelta in modo approfondito da chi in futuro volesse diventare professore di filosofia a tempo pieno).
Secondo me, tutti gli studenti dovrebbero imparare a comprendere tutti i testi, non che ognuno possa imparare ad comprenderne un tipo specifico senza comprendere gli altri.
Seppure gli uomini sono diversi tra loro (com’è vero, e com’è bello!), e pure ugualmente dotati di dignità, i testi non solo sono differenti tra loro, ma anche il loro valore è differente.
Non siamo più esseri naturali, siamo esseri culturali, e ciò significa che si sono operate scelte e queste scelte coinvolgono la condivisione di un patrimonio di conoscenze che ci fa dire che conoscere Leopardi è più importante che leggere un articolo sportivo probabilmente sgrammaticato.
@ Lo Vetere
Lo so che non intendevi questo :-), ma al di là delle mie idee o si affronta il nodo alla radice, e io ho detto cosa non va della radice, oppure non si muoverà un passo in un’altra direzione dal tuo punto di vista. L’uguaglianza delle opportunità si offre riconoscendo l’importanza delle differenze, non uniformando le abilità, o sforzandosi di personalizzare la stessa didattica. è evidentemente sbagliata la didattica. è tanto elementare quanto arduo capirlo.
@ Cucinotta
Io leggo Leopardi e non sono laureato e a scuola non l’ho studiato. Fra i miei amici e conoscenti, laureati e diplomati, non conosco nessuno che legga Leopardi. Ergo, di cosa stiamo parlando? In Corea del sud non hanno Leopardi e non penso che non abbiano un buon livello di lettura. Se tu sai leggere testi complessi, e tale abilità si forma con il metodo, non con il tipo di testo, poi puoi leggere pure Leopardi, se ti va. No, conoscere Leopardi non è più importante di nulla, questo attiene alla preferenza personale. A meno che non si sia stabito che la realizzazione personale passa solo per certe vie, cosa piuttosto bizzarra.
Ma no, caro amico, non è bizzarro, esiste un contesto storico e geografico. Ignorarlo, anzi far finta di ignorarlo, questo sì che è bizzarro. Perchè poi tanti leggono giornali sportivi, perchè con questo atto esprimono la loro libertà? Certamente no, è proprio il contesto, vivere gomito a gomito con propri simili che fanno la stessa cosa che li spinge in quella direzione.
Decostruire la cultura ed il contesto culturale immaginando un individuo disincarnato, improvvisamente apparso sulla terra senza essere stato generato, nè educato, nè istruito da una collettività a cui tutti apparteniamo indipendentemente dalla nostra volontà, è un esercizio di retorica, niente più.
A forza di decostruire, secondo la logica che suggerisci, ci si potrebbe alla fine chiedere se abbiamo bisogno di comprendere i testi quando potremmo scambiarci informazioni a gesti, e perfino negare la funzione stessa della scuola come istituzione messa a fondamento dell’istruzione.
In ogni caso, non ho bisogno come te di appoggiarmi a un artificio retorico, ad un apparente ragionamento per stabilire delle priorità e delle graduatorie in cui ci sono cose preferibili ed altre meno, e su queste mie opinioni pur se evidentemente opinabili, faccio accanitamente proselitismo.
In ogni caso, secondo me, se non sai perchè preferire Leopardi a un articolo sportivo, qualche problemino tu ce lo devi avere.
Cara Isabel de Maurissens,
grazie dell’apprezzamento e del contributo.
Caro Michele,
sulla proposta di forme di alternanza scuola-lavoro nei licei sono d’accordo; sulla loro obbligatorietà ho delle perplessità. Questo non perché temo l'”aziendalizzazione” o cose del genere, ma perché ho paura che diventi una pratica inutile, se non c’è un vero interesse da parte delle imprese o delle istituzioni e se non si trovano attività veramente adatte. Per ogni curriculum bisognerebbe cercare delle attività specifiche, non necessariamente solo nel mondo delle imprese private (il lavoro negli archivi o nelle biblioteche, per esempio, per chi ha una formazione classica; il lavoro in laboratori scientifici; il lavoro in attività sociali ecc.). Io sarei comunque per mantenere una certa elasticità.
Sul secondo punto sono in linea di massima d’accordo con te. Bisognerebbe distinguere i tipi di scuola superiore sulla base della funzione, cioè del tipo di profilo che devono formare, e non sulla base di un’idea di “scuole per bravi e meno bravi”. Penso anche io che si dovrebbero rafforzare alcuni elementi di cultura generale in tutti gli indirizzi (per esempio, io farei studiare la letteratura greca, per grandi linee, ovunque; ovviamente in traduzione). Anche io penso che lo studio del latino e del greco come lingua e traduzione dovrebbero essere limitati a un solo indirizzo, il classico, concepito come quello in cui si forma chi tiene vivo direttamente questo tipo di patrimonio. Diciamo che dovremmo “laicizzare” la nostra visione dei licei, e uscire una volta per tutte dal mito del liceo classico.
Quanto alla differenziazione della didattica che proponi nel tuo secondo intervento: credo che potrebbe andare bene in una scuola superiore in cui negli ultimi anni c’è una certa possibilità di scelta delle materie. Ma non bisognerebbe esagerare, perché la scelta del proprio percorso professionale matura a volte molto tardi.
Caro Daniele,
la rivoluzione della didattica deve partire dal basso, dalle pratiche dei docenti; siamo d’accordo. Ma deve essere una rivoluzione, perché i docenti devono ripensare totalmente il loro modo di insegnare nella scuola superiore.
Sulla lezione frontale: quello che dici mostra perfettamente qual è il suo posto, cioè una pratica didattica tra altre, niente di più né di meno; e mostra quali sono i suoi limiti, cioè di favorire la passività degli studenti. Il problema è rendere gli studenti attivi in classe. Se gli si parla sempre invece li si rende passivi.
Sull’ultimo punto.
Abolire il sistema a cascata significa abolire l’idea che certe scuole sono solo per i bravi, e quindi devono essere selettive, e certe altre per gli scarti. Tutte le scuole devono servire per il profilo che intendono formare. Tutte devono essere inclusive, cioè devono fare in modo che tutti gli allievi possano apprendere e crescere in quel percorso. Anche il liceo classico. Poi, in qualsiasi scuola, ci saranno allievi che apprendono di più, più velocemente, con più passione, e altri che fanno più fatica. Ma la scuola deve fare di tutto per permettere a questi di restare nel percorso e di apprendere qualcosa, non schedarli come ignoranti e basta.
Il primo punto da fermare è questo, di metodo: una scuola per tutti, inclusiva, non pensa che gli individui siano tutti uguali, pensa che si devono trovare i modi per fare apprendere le cose anche a persone diverse. Tutti devono ricevere una spinta all’apprendimento e un riconoscimento per quello che fanno. Invece la scuola italiana (parlo sempre delle superiori) è un sistema di “distinzioni”: i voti servono a mettere la medaglia ai più bravi e a marchiare gli scarsi. Questo toglie motivazione e impedisce il riconoscimento.
Quindi è giusto quello che tu dici: non è un problema di contenuti. E’ un problema di metodo, e di come si vogliono guidare gli studenti in un percorso. L’obbiettivo non è che tutti sappiano tutto. Le differenze ci sono, e dipendono da talenti naturali e da condizioni sociali di provenienza. L’eguaglianza non è un ideale da realizzare: non bisogna rendere le persone eguali. E’ un imperativo morale: bisogna trattarle da eguali. Per trattare le persone da eguali, bisogna trattarle diversamente in caratteri che sono diversi.
La personalizzazione è un problema enorme se il nostro obbiettivo è solo “fare il programma”, cioè se si parte solo dall’idea che gli studenti devono sapere dei contenuti. Se quello che si chiede è che imparino a fare delle cose con quel programma, che imparino a esporre una vicenda storica, a leggere le fonti, a interpretare un testo filosofico, a seguire e fare un’argomentazione ecc., allora il programma verrà usato in modo differenziato per rispondere a queste esigenze, e questo avverrà naturalmente.
E veniamo al biennio unificato. Ovviamente, non si tratta di unificare di punto in bianco i diversi indirizzi delle superiori. Però bisognerebbe rafforzare e unificare il percorso delle materie che fanno la formazione generale e che attraversano tutti i bienni (italiano, storia, matematica, scienze); chiedersi se altri elementi di formazione generale possono entrare in questo percorso. La verità è che opponendoci a questa cosa noi ci opponiamo semplicemente a una estensione verso i tecnici e i professionali di questi elementi di cultura generale. Continuiamo a difendere l’intuizione elitista che questi saperi generali siano appannaggio prevalentemente dei licei.
Tutte le difficoltà che denunci, relative alla formazione dei professori ecc., ci sono; ma il problema è se noi ci rassegniamo e accettiamo questa confusione, o se vogliamo esercitare la critica. La scuola è fatta di esseri umani, ma questi esseri umani, nel loro piccolo, possono cambiare molto, se accettano di riconoscere i limiti di quello che fanno.
(E comunque la storia non è mai stata fatta da chi ha letto un milione di libri.)
Caro Mauro, ma no che la lezione frontale non è solo passività. Certo, dipende molto da chi la tiene.
Il caso ha voluto che proprio oggi una collega che stimo molto postasse su Facebook una riflessione sulla capacità delle lezioni di letteratura di scatenare passioni, desiderio di conoscere, voglia di leggere (che significa: competenze). A giudicare dal numero di “mi piace” al post e dai commenti dei suoi ex-studenti, direi che le sue lezioni frontali hanno lasciato un segno profondo. Per vederlo, basta togliere gli occhiali offuscati dell’attivismo come ideologia.
Poi: chi, ormai, anche quando fa lezioni frontali, le fa dure e pure? Quanto sono invece contaminate con la discussione, la lezione socratica, il dialogo, …?
Ho letto tutti i benemeriti interventi di Piras sulla scuola, e i commenti. La mia impressione generale è questa: al governo nessuno ha un’idea sparata di che cosa sia una riforma della scuola, e neanche prova a chiudersi nella sua cameretta per interrogarsi in proposito.
La situazione mi pare molto simile a quella che da diversi anni si verifica nelle maggiori case editrici. Mentre prima il direttore editoriale proponeva la politica culturale della casa, e il direttore finanziario interveniva per renderla compatibile con gli obiettivi di bilancio, dopo la cura avviene esattamente l’inverso: il direttore finanziario delinea gli obiettivi di bilancio, e il direttore editoriale cerca di adattarvi la politica della maison.
Se a questo si aggiunge che il direttore finanziario del governo italiano è il ragazzo spazzola del Megadirettore finanziario ubicato Altrove, il Quale per l’Italia e la sua scuola non prova che un regale disinteresse (se va bene: se va male, disprezzo) si può immaginare il risultato.
Sintesi: con questo chiaro di luna, meno si fa, meglio è. Magari si provi a riparare qualche tetto e qualche impianto di riscaldamento, to’.