[La settimana scorsa L’orma editore, nella collana fuoriformato, ha pubblicato L’opera poetica di Emilio Villa, a cura di Cecilia Bello Minciacchi. Pubblichiamo una poesia di Villa, la prefazione di Cecilia Bello Minciacchi e una presentazione di Andrea Cortellessa, direttore di fuoriformato, scritta per “Le parole e le cose”]
LINGUISTICA
Non c’è più origini. Né. Né si può sapere se.
Se furono le origini e nemmeno.
E nemmeno c’è ragione che nascano
le origini. Né più
la fede, idolo di Amorgos!
chi dici origina le origini nel tocco nell’accento
nel sogno mortale del necessario?
No, non c’è più origini. No.
Ma
il transito provocato delle idee antiche – e degli impulsi.
E qualsivoglia ambiguo che germogli intatto
dalle relazioni
dalle traiettorie
dalle radiazioni
dalle concezioni
luogo senza storie.
Luogo dove tutti.
E dove la coscienza.
E dove il dove.
Per riconoscere l’incommensurabile semenza delle vertigini adombrate
le giunture schioccate nei legami
la trasparenza delle cartilagini
il cieco sgomento dei fogliami
agricoli nelle forze
esteriori, e l’analisi fonda
incisa nel corpo dell’accento.
No.
Non c’è più. Né origine nei rami. né non origini.
Chi arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza
usava lo spirito senza rimedio nel momento indecisivo
come un compasso disadatto, non esperto, così non si poteva
agire più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione,
senza essenza, così che speculare sul comune tedio
un gioco parve, e ogni attimo-fonema
ancora oggigiorno sfiora guerra e tempo consumato, e il peso
corrompe dell’ombra dei tramiti dell’essenza.
E codesta sarebbe. Questa la fine concepibile:
se attraverso l’idea massima del pericolo e dell’indistinto
si curva l’anima estrema nell’attrito di idrogeno e ozono e i giorni
acerbi sommano giorni ai giorni quotidiani nell’araldica
prosodia delle tangenze,
soffocando ogni flusso di infallibile irrealtà in:
i verbi
i neologismi.
Chi le braccia levava saziate di viole nel palpito assortito
oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito
immune che popola e corruga a segmenti il nembo
delle testimonianze storiche, delle parabole nel grembo
confuso delle parrocchie e nelle larghe zone
di caccia e pesca e d’altre energiche mansioni culturali.
E non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là,
e celebro l’etimo corroso dalle iridi foniche,
l’etimo immaturo,
l’etimo colto,
l’etimo negli spazi avariati,
nei minimi intervalli,
nelle congiunzioni,
l’etimo della solitudine posseduta,
l’etimo nella sete
e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate
dalle fosforescenze idumee, idolo di Amorgos!
[da E ma dopo, Argo, Roma 1950]
* * *
Per Emilio Villa, un jet tout grand de courage
di Cecilia Bello Minciacchi
ogni fioeu el so cavagnoeu. Questo è il mio modello di frase, penetrante, araldico.
da uno scritto per Gianni De Bernardi
et écrire c’est toujours
un jet tout grand de courage
con rage ou d’orgueil:
un jou jeu, les jeux brisés
les jeux de la gloire
les yeux des nombres
en chromie d’absence
Trou
[et au delà du Trou écrit]
L’edizione perfetta dei testi di Villa, quella che da autore autoemarginato, irriverente e dissipatore qual era, avrebbe accettato, vorrebbe in realtà o un fatale abbandono degli scritti al Caso o un definitivo gesto di cancellazione: la dispersione o la distruzione dei testi. In modo analogo, almeno all’apparenza, Villa si comportò in una performance presto mitizzata e rimasta celebre, quando “pubblicò” alcuni versi scrivendoli su sassi che poi gettò nel Tevere, in adesione a una forma del transeunte. Compiva così «un rito, l’opera scarna e non veduta di un credente, di un intrepido amico del chaos»,[1] e impediva la riproducibilità dell’opera, rifiutava di sottostare a confezioni e meccanismi editoriali, divulgativi, che anche ammantati da onorevoli intenti sono più o meno organizzate intraprese commerciali.
Per fortuna, egoisticamente, altri testi Villa ha dato alle stampe in modo un po’ più duraturo, pur di rado tradizionale e altrettanto di rado in copie numerose. Molti scritti poetici furono affidati a edizioni d’arte in tiratura limitata, a oggetti di poesia, a pagine di riviste oggi rarissime, a libri in copia unica, a cataloghi di mostre, a cartelle d’artista che ebbero circolazione sommersa o parziale e che «oggi fanno la gioia degli antiquari e la disperazione degli studiosi»,[2] per dirla con Aldo Tagliaferri.
La clandestinità cui Villa ha votato i suoi scritti, nella sua programmatica lontananza dal mondo[3] – ma non dalla vita –, è stata certo d’ausilio alla creazione di una personale automitologia di noncuranza e generosità, ma ha determinato al contempo una forma di autosabotaggio, così inafferrabili sotto ogni profilo egli è riuscito a rendere le sue opere. Andrea Zanzotto parlava di una «persistente irreperibilità dei suoi scritti» aggiungendo che «nel suo caso dovremmo insistere su quel nulla di preciso che può voler dire la parola “scritto”».[4]
L’originalità di Villa è stata per lungo tempo tradotta in scomodità di lettura e di inquadramento, e ripagata dalla critica – salvo lungimiranti eccezioni – con un largo e ostinato silenzio. A tal punto, che quando apparve Opere poetiche I, nel 1989, si parlò provocatoriamente di un esordio poetico a settant’anni, per un autore che aveva pubblicato la prima raccolta nel 1934 e la seconda nel 1947, e che poi era stato produttivo e vitalissimo negli ambienti artistici, ma sempre in forme marginali, irritanti per molti. Mentre è diventato autore di culto per alcuni, per altri è rimasto (spesso per dispetto) nome oscuro.
Sebbene negli ultimi anni della sua vita Villa abbia accettato – a volte anche favorito – pubblicazioni in più consuete vesti librarie fidando in piccoli e virtuosi editori – si pensi a Letania per Carmelo Bene, 12 Sibyllae, Zodiaco –, si ha comunque l’impressione, nell’allestire un volume che ambisce a raccogliere gran parte della sua produzione poetica, di commettere un tradimento. Di non rispettare la sua attitudine alla disseminazione che, come si vedrà nei testi qui raccolti, indica insieme due strade: quella dell’annientamento fino al silenzio e quella di una possibile, strenua, smisurata, esplosa praticabilità della parola prima condotta, però, ai suoi limiti, al suo lutto. Un nodo – un ouroboros – di origine e di abisso.
Tra le superstiti carte di Villa c’è un appunto che sintomaticamente rivela non solo lo sprezzo per la conservazione dei suoi scritti ma anche la sua poetica: «Guarda che siamo di Eleusi. Torniamo a Eleusi; sotto, sotto, sotto. Qui il più severo e il più vero inventore sono io, che ho inventato la poesia distrutta, data in pasto sacrificale alla Dispersione, all’Annichilimento: sono il solo che ha buttato via il meglio che ha fatto: quello che s’è consumato nella tasca di dietro dei calzoni, scappando di qua e di là, quello scritto sui sassi buttati a Tevere, quello stampato da un tipografo che non c’è più, quello lasciato in una camera di via della croce. Solo così si poteva andare oltre la pagina bianca: con la pagina annientata».[5]
Perché il senso di questo annientamento, di questa poesia distrutta si mostri nelle sue potenzialità, è necessario tuttavia tradire le consegne, e dunque raccogliere gli scritti, metterli in ordine, cercare di ricostruirne la lezione il più possibile vicina all’originale. Attingere, per conforto, a una saggezza etimologica: ricordare che ‘tradizione’ e ‘tradimento’ discendono dalla medesima radice. E iniziare a riordinare e accertare i suoi testi con qualche strumento filologico, senza dimenticare né il grandissimo sospetto in cui Villa aveva la filologia burocratica, né la serietà con cui ha redatto note e apparati vasti e puntualissimi alle sue traduzioni dalla Bibbia (e la medesima cosa potrebbe dirsi per quelle schede in parte disperse, confuse nell’ordine, conservate in luoghi inadatti, che dovevano servire per stendere un nuovissimo dizionario etimologico nella sua prospettiva di semitista…).
Finalmente occorre accettare la responsabilità di trattare Villa come un classico – che come ogni classico eccede, s’impenna e sfugge, e inquieto cerca, sperimenta, ci contraddice e deride, ci sbalordisce, ed è scandalo antiaccademico –, mostrandone le peculiarità che riuscivano a renderlo inviso e indigesto tanto a Montale quanto ai Novissimi, paradosso da cui sarebbe interessante trarre alcune conclusioni istruttive. Conclusioni senz’altro facilitate dal grande interesse e dalla considerazione che per Villa avevano, e molto viva, Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai, Nanni Balestrini, oltre che Stelio Maria Martini e Luciano Caruso, entrambi estimatori anche molto simpatetici: «Villa, scintilla favilla».[6]
In una rilettura minima del sospetto e dell’ostilità mostrata da Montale e dalla Neoavanguardia nei confronti di Villa (che non teneva a essere cooptato in alcuna forma di avanguardia), efficaci corollari possono rivelarsi il giudizio di Raboni particolarmente pieno d’entusiasmo per «la densità, la compattezza, la forza emotiva e stilistica di Oramai»,[7] e l’opinione di Zanzotto, che in Villa rispettava la «cripticità coscientemente perseguita e coltivata», la ricchezza e l’unicità, e in ciò gli riconosceva più che una funzione – «Emilio Villa rappresenta di sicuro per molti, e giustamente, l’incarnazione effettiva di un aspetto della mitologia poetica contemporanea, nella quale molto è offerto all’evocazione di un’alterità: presente e inafferrabile».[8]
L’arco delle opere poetiche di Villa, il loro percorso, la lettera dei testi, e il loro rapporto con la storia e con la letteratura, non potranno che rendere evidente questa alterità. All’effettiva lettura dei testi – ai singoli lettori –, poi, andrà il compito di evitare l’elogio altisonante e vuoto, privo di qualità critica, tanto spesso in agguato di fronte a figure mitizzate in foltissimi aneddoti. Per sottrarsi agli osanna che senza verificati sostegni testuali celebrano l’eccentricità del personaggio più che la sua opera, occorre rifarsi ai testi, alla materialità dei segni e della phoné: perciò più che dire importa, in questo volume, benjaminianamente mostrare, per favorire lo studio dei testi. D’altro canto la fascinazione che si irradia dalla scrittura di Villa è destinata a rimanere pervasiva, indipendentemente da quanti strumenti linguistico-grammaticali, retorici e teorico-filosofici si dispieghino nell’analisi. In particolare, poi, se non si teme, ma se per contro si dà credito a un ammonimento dello stesso Villa: «Non dire mai “attività critica”. Ma entusiasmo, occhio, poesia. I critici sono la merda».[9]
Tra le molte osservazioni che possono scaturire dalla raccomandata terna – «entusiasmo, occhio, poesia» – applicata ai suoi scritti pur nella coscienza, per noi, di poter lavorare solo avanzando questioni, ipotesi, incertezze, alcune s’impongono tuttavia con particolare evidenza. In primo luogo l’energia non assolutizzante, ma problematica, intrinseca al suo dettato poetico, che dopo l’esordio di Adolescenza, raccolta del 1934 in odore d’ermetismo, di un analogismo un po’ residuale ma levigatissimo, con appena qualche sparuto accenno di durezza, si impone con maggior violenza in Oramai, libro che affonda nel senso luttuoso di una tardività immedicabile, e viene poi variamente declinata in tutti i testi successivi: dagli accenti d’invettiva e di sarcasmo della Tenzone, al pungente, fragmentato e tesissimo Comizio millenovecentocinquanta3, alle capitali 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, con quelle loro indimenticabili «sillabe ribattute da cicale palestinesi». Un’energia poetica che procede in Heurarium, quando il divorzio dall’italiano – «potanacia miseria!» –, dalla lingua dell’«Itaglia squaldrana», si è ormai consumato nella radicale inventiva di un francese pieno di calembours e ortografie trasgressive e polisemiche, di giochi omofonici, anagrammatici ed etimologici, di sbocchi in inglese e aperture in portoghese, quasi in cupida percettività di poesia concreta. E sfocia nella grande varietà dei testi latini di Verboracula, e nella scrittura pitico-sibillina dei primi anni Ottanta, in particolare di Sibyllae e Trous, passando sia attraverso la forza espressiva del NIGER MUNDUS, il «responsum» filosofico a Lucrezio «per literas hypocritas», sia attraverso la parola (scritta solo per essere)[10] pronunciata dalla Voce di Narciso – «vox hi hi, vox hi fi, vox hieroglypha / vox labilis, vox lubidinis, vox labyrintha» – dell’amico Carmelo Bene, nella Letania dedicatagli, monologo in una lingua antinormativa, di ostacolo all’uniformazione della maggioranza e dunque al potere, e certo cara a Bene anche perché deleuzianamente minoritaria.
In secondo luogo occorrerà osservare il peculiare spessore di materia, la fisicità della scrittura di Villa: la sua particolare corporeità, evidente fin da Oramai, muta soluzione, negli anni e nei testi, ma non muta essenza. È imperativa e densa di umori, spessa, acre quando in Oramai descrive il «fiato grigioverde» che frigna, l’«odio stretto al pomo della gola», la pomice e la saliva, la palta, il «grande vomito» del cielo «mollo mollo», la «febbre che grattava dove c’è la cintura di corame», la «ferita / che odora di vino brulé», il «vuoto dentro il ventre, / vuoto a vallate, a balze». È fisicità acuita da una forte incidenza lombarda contaminata col varesotto[11], certo esemplare di una sorta di corpo-lingua non circonfuso di aura d’innocenza, «il corpo cresciuto lombardo e sderenato», il «bel corp lombard ricco d’inedia», e il «corp lombard della malora» in Oramai, cui va aggiunta, nell’undicesima variazione, l’interessante occorrenza rimica lombardo : bastardo, che meglio può essere interpretata, forse, nei due sintagmi completi, «sangue lombardo» e «cuore bastardo».
La matericità della lingua e della scrittura è poi voltata in uscite ludiche e ammiccanti, sempre eterogenee e complesse, nella scrittura degli anni Settanta, in Hisse toi re / d’amour / da mou rire (romansexe), che offre anche una sorta di narrativa per l’occhio, potremmo dire, costituito come è da poesie visive che dipanano una singolare “storia”, giocosa e irriverente. E in modi altrettanto ludici, allusivi e articolati nel roman metamythique, come scriveva, di «Obscénité Geniale, et bien dégrammairisée, hétérocl» che è L’homme qui descend quelque: un’opera di «sexorcisme» ed esorcismo della parola, di «surdetermination» estremamente godibile, in cui la corporalità del testo affiora anche nel piacere delle ripetizioni con variazioni, in «photophonèmes en liberté» che valgono come dichiarazione metapoetica, in balbettamenti stenti e incantatori, in «une pulvérisation informelle»[12] sempre però culturalmente radicata, in sillabe che nella loro catena fonetica schiudono giochi e rimandi stratificati: «go magog démagog deux magues», potenzialmente allusivo sia ai biblici Gog e Magog (suggestione già letterariamente produttiva nel Gog e Magog del Pascoli “conviviale” e nel Gog papiniano), sia alla simbologia epifanica dei Magi e al caffè parigino Deux Magots (e si noti che in calce Villa ha indicato Parigi come luogo di composizione), sia alla così stigmatizzata demagogia.
La corporalità della scrittura di Villa permane nelle opere successive, pur mutando alcuni dei suoi caratteri, basti pensare al processo di esplosione e saturazione dell’espressione linguistica dei testi latini, con la loro ipercaratterizzazione grammaticale e ortografica ostentatamente arcaizzante e frammista a termini in lingue vive, con i loro attriti tra sermo humilis e sollemnis, con il potenziamento dell’attenzione fonetica, con i rimandi simbolici all’omphalos – «la voce dell’Ombelico» delle mûra di t;éb;é – e al trou generativo nei testi enigmatico-oracolari. Si potrebbe affermare che nei testi pitici diminuisce la fisiologia “realistica” episodica ma cresce la fisicità umana e naturale, si fa pervasiva e tocca questioni cosmogoniche, e s’incarna nelle cellule linguistiche e nelle ricostruzioni etimologiche o meglio, come amava scrivere, nelle «trafile» etimologiche e paraetimologiche, spesso inattese (vere o false) e folgoranti come un jet. Ma soprattutto cresce l’importanza materica del segno tracciato dal poeta e dei supporti usati, da affidarsi poi, come antichi responsi, al caso. Villa fissa la propria scrittura in manufatti, in cartigli unici, non ripetibili, nuovamente dotati di aura, nei quali la parola conta «non come mezzo, ma come oggetto finale di creazione».[13] All’alba delle Sibyllae e dei Trous, nel 1978, Villa aveva usato un supporto eccezionale per vergare – «lauri fumi incitatus» – il suo Renovatum mundiloquium in forma appunto di dono/risposta oracolare: le «intactas tabulas» del catalogo di Claudio Parmiggiani Geometria Reformata.
Sarà bene aggiungere a questi caratteri rapidamente evidenziati nella scrittura di Villa, almeno la frizione tra parola poetica e Storia, la delusione patita, il tono espressionistico di alcune immagini – la «nostra simpatica città» che in Quarantacinque, della raccolta Oramai, appare «come una cesta piena di anguille matte», e poco oltre il nemico che rotola «con la bava nera» e i «cani spenti» e i «vetri sbarrati, e il solito cervello qua e là a pezzi e bocconi». E il sarcasmo dei frammenti di canzonette popolari nel Dopoguerra, con la sua «Gallina omnis divisa / est in partes omnes, i fiaschi / sono scoppiati», irridente al De Bello scolasticamente più noto e tradotto, e dunque alle conquiste romane, all’imperialismo che era stato verbo del regime. E la semplice brutalità del «cranio spaccato come un uovo nottetempo» nel Bersagliere svegliato morto. A queste immagini seguirà, nel Comizio millenovecentocinquanta3, la desolante constatazione che «le piaghe d’Itaglia si curano con lo sputo», con lo sprezzo e il disdegno dell’alterazione ortografica.
Nel 1941, quando scrive Oramai, Villa ha ben chiaro che «la storia è uno sbaglio continuo, che non si ferma, e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedere, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani»,[14] osservazione cui vanno accostati i versi di una poesia esattamente coeva, E lascia che vada: «La storia come lunga / sarebbe a recitare; / non ho fiato, e la saliva / non ci basta a perorare / questa causa già perduta». Se poi con questa sconsolata e tersa affermazione poniamo in risonanza un pensiero di disarmante e abbacinante evidenza, più facilmente possiamo comprendere cosa Villa si aspettasse dall’arte – e cosa perseguisse nella poesia – in quegli anni: «veramente gli uomini non hanno da dire, tra loro, che poche cose elementari, essenziali: uomo, donna, vita, pane, desiderio, pensiero, lavoro. Poche cose, pare. In compenso, però, son cose, di un valore umanissimo strettamente inerenti alla stessa nostra esistenza: hanno un valore di storia. Cambia il modo di vederle e di sentirle; progredisce il grado di coscienza che permette ad ogni uomo di prendere un contatto sempre più profondo con l’uomo, e con gli altri uomini. L’artista, con la sua opera, con il suo lavoro rappresenta gli aspetti visibili, il diagramma di questa coscienza umana».[15] Rispetto alla «grande ambizione umana» che per Villa è la Storia, «la poesia percorre un altro cammino: quello di una pulsazione ritmica che giunge da un non tempo, da verità non fattuali».[16]
La ricerca dell’umanità e della semplice storia e l’impossibilità della Storia, che si sposa con il rifiuto della lingua italiana di cui pativa l’ingombro e la costrizione fin dagli anni dell’infanzia, e che sentiva inautentica, rimangono capisaldi su cui si accampano altri temi, incuneati nel segno di un’essenzialità sempre più netta, verso radici ancora più fonde. Intanto il rapporto del poeta con il linguaggio – si pensi anche solo a Linguistica e a Sibylla (foedus, foetus) che ricorda il patto tentato tra poeta e Sibylla e «la cisterna di specchi contraddittori, / ripiegati in fuori» che tra loro si è «spalancata», perché nessun codice è affidabile, nessuna corrispondenza di linguaggio, di parola e cosa, vera a tutti gli affetti. E insieme il nodo dell’origine dei linguaggi, e dell’Origine tout court, visto che «la mitologia fondamentale di Villa [è] quella della Ricerca Delle Origini».[17] E ancora la relazione tra segno e materia, la pena e il rifiuto della mondanità-cattività fondato sul dualismo di matrice gnostica – come ha più volte sottolineato Tagliaferri –, e il fluire incessante, eracliteo, e la ferma disperazione lucreziana, il vuoto, il Nulla.
Tutto ciò appare forse più chiaro, al lettore, là dove con maggiore intensità si sono fatte sentire nella scrittura di Villa esperienze letterarie non italiane – Rimbaud, Artaud, Pound, Joyce, Breton –, congiunte alla sua rara conoscenza di lingue e culture preelleniche, della lingua greca e di quella latina, con le iperdeterminazioni e le distorsioni con cui le ha caratterizzate nel riscriverle.
Allora è non soltanto suggestivo, ma credo criticamente produttivo e rivelatore, riportare qui un passo di Artaud che nel 1964 i redattori di «EX», Villa, Diacono e De Bernardi, inclusero nel secondo numero della rivista: «“j’avais eu depuis bien des années une idée de la consomption, de la consommation interne de la langue, par exhumation de je ne sais quelles torpides et crapuleuses nécéssités. Et j’ai, en 1934, écrit tout un livre dans ce sens, danse une langue qui n’etait pas le français, mais que tout le mond pouvait lire, à quelque nationalité appartînt” (Antonin Artaud, da Lettres de Rodez, GLM, Paris, 1946, p. 15)».
L’intenzione di Villa può assomigliare a quella di Artaud, soprattutto quando fa uso insistente della glossolalia, dei balbettamenti, della commistione, e sfida «une langue pour rien», «une langue pour personne», o decisamente «une langue nulle, degrézéro, zérolangue, lahangue, hangue», come scrive in una delle molte schegge teoriche o metapoetiche dell’Homme qui descend. Quella di Villa non è una lingua e non è l’italiano (neanche quando è o sembra italiano); non è una lingua universale o assoluta, anche se ha forti tentazioni pitico-oracolari, perché a quelle tentazioni guarda con occhio disilluso avendo troppa consapevolezza di limiti, patti traditi e conseguenti ferite; e non è neppure una delle possibili forme di mistilinguismo praticate nel Novecento, perché troppo scientemente carica di sovrapposizioni storico-morfologiche (paleo-mediterranee, e nel vivo della fucina indoeuropea) e di artigli etimologici inattesi. È piuttosto un’indagine – anche nel senso di una tensione e di un tentativo –, indagine ambiziosa e ben consapevole del rischio di disfatta, compiuta per verificare, risalire e attingere alla possibile comune origine dei linguaggi. Una discesa nel trou, o «nell’utero verbale», per usare un sintagma delle sue Sibyllae. Un saggiare il vuoto e un procedere verso il «provocatorio, illimite, Niente», lungo un cammino che sa di giocare «con la inane / logica inane delle manifestazioni impulsive» di E ma dopo, mentre insegue e incide «filiture». Quelle stesse che erano già presenti con la loro ascendenza lombarda, spesso legate a «fiato» e «aria», in diverse poesie di Oramai, in E ma dopo, nella terza delle 17 variazioni,[18] e nella prima delle ideologie, ma che certo deve aver anche riconosciuto, riarse, dolenti, nelle crepe e nei cretti di Burri.
Proprio quelle «filiture» che poi, a distanza di decenni, nel 1980, Villa ha di nuovo evocato, emblematicamente, in un testo d’incedere semplice e anche giocosamente dichiaratorio che stende una lunga teoria di predicati nominali: oltre che «scarto / strombo / sterro», oltre che «spacco, rapina, / distruzione», infatti, poesia è «segnare filiture». Tracciare aperture, incisioni o buchi, spacchi, nella compattezza ostile o negativa, interruzioni più che vie di fuga, di certo passaggi al di là, blessures. Sotterranea ma solida coerenza, alla multiforme scrittura di Villa, assicurano alcune parole chiave che valgono come concetti fondanti e come spie ermeneutiche. L’Origine, in primo luogo, fin dalla fondativa Linguistica; e poi alcuni simboli di grande forza evocativa, si pensi anche soltanto all’«Araignée» e a tutte le sue ricorrenze attraverso gli anni, anche in opere molto differenti tra loro: là dove Villa parla di «vulvoix» e della «peau du règne araignée», in un testo degli anni Sessanta, THEOFORIE PHONOPHONTE, e poi «ma cécité, ah, mon araignée, oh, stop!» gridato nell’Homme qui descend, e ancora «l’A raignée / du Mime qui règne Sublime» e «l’Araignée des Pierres» della Letania per Carmelo Bene, o anche «l’A raignée, qui frequente les meraveilles» delle Exercitations de tire en io/cible, e ancora l’«araignée absidale / de l’infelicité» nelle 8 case delle antiche vicende. Analogamente legata alla simbologia dell’«Araignée», che tesse o crea la malvagia mondanità, la «Ragnatela dei sussurranti / millenni, indefinita si stende, / ellisse del Ragno che gioca» nelle mûra di t;éb;é, e una «roteante ragnatela» compare in Sibylla (foedus, foetus). Ma spie ermeneutiche sono anche l’oramai, l’inanità, le filiture. Ovvero il tempo, il senso, lo spazio, e con questi, e a questi consustanziali, anche le barriere, i termini di tempo senso e spazio che stringono l’uomo nella sua abissale cecità. Prima del silenzio, prima dell’«illuminata disfatta», compito della poesia – e segnatamente del corpus villiano nelle sue diverse fasi, nel suo particolare opporre la vita al mondo – è «fare spiragli, produrre crepe, / segnare filiture dentro il / sipario, dentro la Parete / Sbarrata».
Note
[1] Così interpreta Nanni Cagnone, Cognizione di Emilio Villa [1989], in Emilio Villa poeta e scrittore, a cura di Claudio Parmiggiani, Milano, Mazzotta, 2008, p. 336.
[2] Aldo Tagliaferri, Nota del curatore, nel numero monografico “su Emilio Villa”, «il verri», a. XLIII, n. 7-8, novembre 1998, p. 6.
[3] Ben nota ai villiani più fedeli l’esclamazione di Villa in una conferenza tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia nel marzo 1984: «La libertà dal mondo. Il mondo in quanto oppressivo. Non parliamo di libertà in senso politico o in senso storico. […] Mai cedere a quello che il pubblico vuole, sennò è una costrizione. In questo senso la libertà, cioè la liberazione di sé dal mondo, perché il mondo è cattivo, è non un giudizio ma una constatazione. Il mondo è cattivo, non bisogna essere partecipi del mondo», Conferenza, prefazione di Aldo Tagliaferri, Roma, Coliseum, 1997, p. 38. Molto interessanti sono alcuni appunti rinvenuti da Ugo Fracassa nell’Archivio di Emilio Villa presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, intitolati «Dichiarazione dei Diritti. Magna Charta», del 1954, dove già si legge: «tutta la nostra partecipazione alla vita del mondo / si realizza nella nostra azione poetica», citato e commentato in Ugo Fracassa, Luogo, impulso e/o senso nell’opera di Emilio Villa. Una lettura inedita, in Emilio Villa. La scrittura della Sibilla, a cura di Daniele Poletti, e-book del progetto floema – esplorazioni della parola, www.diaforia.org/floema, 2014, p. 65.
[4] Andrea Zanzotto, Come sta Villa?, nel citato numero monografico del «verri», p. 59, poi raccolto in Id., Scritti sulla letteratura, a cura di Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 2001, vol. II, Aure e disincanti nel Novecento letterario, pp. 429-431.
[5] Emilio Villa, appunto manoscritto (fine anni Settanta-inizio Ottanta) citato da Aldo Tagliaferri, Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, Roma, DeriveApprodi, 2004, p. 183.
[6] Così l’incipit dell’introduzione di Luciano Caruso e Stelio Maria Martini nel numero dedicato a Villa della rivista «Uomini e idee», XVIII, n. 2-4, ottobre 1975, p. 3.
[7] Giovanni Raboni, Cercasi Villa, «L’Europeo», 29 settembre 1989, ora in Id., La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, p. 265.
[8] Andrea Zanzotto, Come sta Villa?, «il verri», cit., p. 59; e p. 60 la citazione immediatamente precedente.
[9] Emilio Villa, in una lettera scritta a Piero Manzoni e Agostino Bonalumi per invitarli a collaborare alla rivista «Appia antica», in Aldo Tagliaferri, Il clandestino, cit., p. 106. Si noti che il giudizio negativo sulla critica che «arriva sempre in ritardo, e qualche volta non arriva. Essendo la morte, arriva quasi sempre, la morte di ogni attività vera e libera» è severamente espresso da Villa soprattutto in merito alla critica d’arte (Conferenza, cit., p. 36), anche se non potrà esserne immune la critica letteraria, come ancor oggi testimonia la stessa scarsa e sporadica attenzione mostrata agli scritti villiani, malgrado alcuni recenti felici momenti di “riscoperta”.
[10] Al paradosso di un testo “scritto” per chi si schierava dalla parte della «scrittura vocale» va in realtà accostata la giusta osservazione di Tagliaferri – sul fatto che Villa e Bene «si trovano d’accordo nel diffidare della scrittura, nella quale identificano il tentativo di imbrigliare e codificare una energia primaria che entrambi presuppongono irrappresentabile […]. La parola che essi perseguono non può che essere, come scrive Villa, “sola solitaria unica non conoscibile”», cfr. la Nota sulla Letania per Carmelo Bene, in Emilio Villa, Letania per Carmelo Bene, a cura di Aldo Tagliaferri, Milano, Scheiwiller, 1996, p. 13.
[11] Il milanese usato da Villa nella sua «prima raccolta importante, Oramai (1947), è anomalo, largamente contaminato da forme di uso corrente nel varesotto, dunque dai dialetti parlati dalle nonne», Aldo Tagliaferri, Il clandestino, cit., p. 15. Milli Graffi, parlando della «pienezza della parola» nelle poesie in dialetto di Villa, aveva sottolineato che Villa mantiene il dialetto «come lo conosce, non mascherato a milanese, ma dialetto di Affori, con grafia inventata e personale, senza ricorrere a nessuna delle due varianti della trascrizione milanese tuttora esistente», Le Galapagos di Villa, «il verri», cit., p. 119. Ma ora sul rapporto tra uso del dialetto lombardo puro o italianizzato e lingua letteraria – l’importanza di Sereni e la presenza di allusioni montaliane –, si impone il rimando al bel saggio di Fabio Zinelli, Una «lamentosa cosmogonia supposta con la semplice innocenza di materiali usuali». Emilio Villa lombardo, in Letteratura e filologia tra Svizzera e Italia. Studi in onore di Guglielmo Gorni, III. Dall’Ottocento al Novecento. Letteratura e linguistica, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Alberto Asor Rosa, Giorgio Inglese, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 249-271.
[12] Francis Darbousset e Ivos Margoni, Quelques remarques sur la langue villaine, in «Uomini e idee», cit., pp. 23-28, ora con il medesimo titolo nella sezione dedicata all’autore, «Avanguardia permanente» di Emilio Villa, in Novecento, collana a cura di Giovanni Grana, Milano, Marzorati, 1988 [seconda edizione accresciuta], vol. XI, p. 204. Tutte le altre citazioni a testo a proposito dell’Homme qui descend quelque sono invece tratte dall’opera di Villa.
[13] Aldo Tagliaferri, Scrittura e matericità negli ultimi testi villiani, «il verri», cit., p. 141.
[14] Emilio Villa, Recensione alla biografia Stalin, zar di tutte le Russie, del giornalista americano Eugene Lyons, «L’Italia che scrive», dicembre 1941.
[15] Emilio Villa, Umanità nell’arte di Tot, in «Apollo», n. 1, 31 dicembre 1948, p. 2, ora in Critica d’arte (1946-1984), a cura di Aniello De Luca con uno scritto di Angelo Trimarco, Napoli, La città del sole, 2000, p. 41.
[16] Vitaniello Bonito, Ritmo e Storia. Frammenti sulla poesia di Emilio Villa, «Istmi», n. 7-8, 2000, p. 18. Nel suo sensibilissimo saggio Bonito osserva poi come «la lotta tra ritmo e Storia pass[i] proprio dentro alla continua infrazione alla retorica del testo, dentro l’immanente scandalosità di un battito, di un respiro che brucia la rappresentazione», ivi, p. 21.
[17] Andrea Cortellessa, Una nuova scienza dell’occhio rovesciato, «il verri», cit., p. 88.
[18] «L’aura dell’immaginario linguistico ermetico più misterioso spirante in questi versi aiuta a comprendere la predilezione di Villa per un’altra parola lombarda italianizzata, filitura, da filidura ‘fessura, spiracolo’ […]. La parola tornerà anche negli Attributi in un contesto erotico-poietico. Sembra non ci possano essere dubbi: la filitura corrisponde, in dialetto, al varco di Montale, l’anello che non tiene», così, segnalando le diverse ricorrenze della parola, finemente interpreta Fabio Zinelli, Una «lamentosa cosmogonia supposta con la semplice innocenza di materiali usuali». Emilio Villa lombardo, cit., p. 259.
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Viva Villa!
di Andrea Cortellessa
Il 6 novembre è uscito L’opera poetica di Emilio Villa, come numero 4 della nuova serie di fuoriformato, la collana da me diretta e rilevata l’anno scorso dalL’orma editore di Roma (nella cui prima serie, edita da Le Lettere di Firenze, erano già usciti nel 2008 i mitici Attributi dell’arte odierna, capolavoro tra i massimi della prosa saggistica novecentesca, restaurato a quasi quarant’anni di distanza dalla princeps dal grande sodale e interprete di Villa, Aldo Tagliaferri, che ora firma la postfazione a L’opera poetica). Una pubblicazione resa possibile dalle cure non meno che maniacali, e ormai quindicennali, di Cecilia Bello Minciacchi (della quale si presenta qui, in forma integrale, l’introduzione al volume). Una pubblicazione che per lunghissimo tempo ha rappresentato un’autentica chimera. Per eccellenza, il Libro Impossibile: il feticcio definitivo, il sogno più wet di tutti i bibliofili modernisti. Nel 1989, ancora vivo Villa (da poco colpito da un ictus che lo aveva ammutolito e paralizzato; morirà in solitudine, nel 2003, in un ospedale di Rieti), l’editore Coliseum, animato da Nanni Cagnone, iniziò un’edizione completa del corpus con un primo volume che si fermava alla produzione – forse in assoluto, dell’autore, la più geniale – degli anni Cinquanta: rinviando a data da destinarsi il problema dei testi scritti da Villa in lingue e in alfabeti arcaici, nonché dei suoi testi “visivi” (come quelli scritti per la rivista «EX», negli anni Sessanta, da lui stesso ideata come il più incollocabile fuoriformato di sempre), che propongono inaudite difficoltà d’impaginazione; ma soprattutto quello, preliminare quanto insormontabile, del mero reperimento di testi che Villa, a partire proprio dagli anni Sessanta, deliberatamente prese a disperdere, occultare, in molti casi distruggere (come nella famigerata performance dal titolo I sassi nel fiume). Un secondo volume delle Opere poetiche non venne dunque mai realizzato, così come – nel 1970 – Feltrinelli non aveva mantenuto l’impegno di dar seguito, con un secondo volume, all’unico libro di Villa che sia mai uscito con un “grande” editore, i citati scritti sull’arte contemporanea dal titolo Attributi dell’arte odierna (ma il coriaceo Tagliaferri conservò i materiali che nel 2008, finalmente, verranno riuniti nella citata edizione de Le Lettere). La conseguenza è che quel poco che si sa di Villa poeta, a livello storico, è relativo alla produzione – si ripete, straordinaria; se ne offre qui un estratto, la fra i villiani notissima Linguistica, highlight di E ma dopo, 1950 – degli anni Quaranta e Cinquanta; senza tenere conto di una produzione, quella dai Sessanta agli Ottanta, che anche agli aficionados pone non indifferenti problemi di “fiato” (vale in altri termini per il Villa “estremo”, per esempio quello sia plurilinguistico che calligrammatico degli anni Settanta, quanto diceva Contini – da Villa grandemente ammirato – del Pizzuto dello stesso periodo: «anche noi, suoi inadeguati fedeli, nel tentare di accompagnare per la salita questo Joyce italiano, lo seguivamo a fatica in quell’aria troppo ossigenata delle grandi vette andine o tibetane»). Se l’energia sprigionata da un testo è proporzionale alla resistenza che oppone al suo “rapido consumo”, quella della poesia di Villa va misurata in megatoni. E se si parla di resistenza, ora che finalmente dalla sua opera è caduto un interdetto bibliografico che pareva la maledizione di Tutankamon, si converrà che resistere a uno come Villa, in ogni caso, è piuttosto difficile.
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L’opera poetica di Emilio Villa è stata presentata in anteprima, lo scorso 31 ottobre alla Fondazione Morra di Napoli, nell’ambito del Progetto XXI a cura di Giuseppe Morra, con la partecipazione di Aldo Tagliaferri. È stata la prima tappa di VILLADROME: un tour di incontri che non saranno mere presentazioni del volume ma, nello spirito clandestino e ramingo di Villa – che così bene colse Marcel Duchamp, “parabattezzandolo” appunto Villadrome (e nell’impossibilità di degnamente ricordare il centenario della sua nascita, il 21 settembre 1914, da parte di Università e altri Centri di Alta Cultura ad altre urgenze affaccendati) – un omaggio itinerante alla sua figura, vista nei suoi molteplici aspetti. Lunedì 17 novembre, alle 17 alla Biblioteca di Villa Litta di Affori (luogo natale di Villa, nell’hinterland milanese), ne parleranno, insieme a Cecilia Bello Minciacchi e Andrea Cortellessa, Flavio Fergonzi, Luigi Ripamonti e Luca Stefanelli. Giovedì 18 dicembre, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ci saranno tre suoi vecchi amici: Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello e Aldo Tagliaferri. Altri appuntamenti seguiranno l’anno venturo. Viva Villa!
[Immagine: Emilio Villa].
Non riesco a comprendere come resti totalmente snobbata questa bellissima ricostruzione, con riferimenti molto interessanti, di uno studioso/autore fondamentale come Emilio Villa. Primo, nella storia, a tentare di reperire, in «poesia», attraverso un sapientissimo uso delle fonti antiche, una sorta di inconscio collettivo «poetico» di matrice junghiana. Hanno dato un Nobel al noiosissimo Tomas Tranströmer, che, con anni di ritardo, integra Freud, con la sua anacronistica nozione di inconscio personale, nella «poesia» svedese! C’è chi arriva, addirittura, a definire Tranströmer come il «futuro della poesia mondiale», senza accorgersi che in Italia, Villa, con la sua ricerca di immagine archetipo di un inconscio collettivo, sdogani Tranströmer ed ogni sua velleità freudiana con anni d’anticipo. Purtroppo, in certi ambienti, l’importante è che il «poeta» sia slavo o nord-europeo…