di Luca Illetterati
[Questo articolo è uscito su «Alias»]
A scuola, di fronte alla traccia che chiedeva di commentare un pensiero di Marc Bloch – “l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato” – Michele, uno dei protagonisti, forse il protagonista di questo formidabile affresco che è La ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi 2014), aveva consegnato un foglio con disegnati ai bordi strani animaletti e nella parte centrale un lungo periodo sconnesso e insensato in cui l’unico elemento di significato era una citazione, che altro non è che la prosecuzione del pensiero di Bloch: “forse però non meno vano è tentare di comprendere il passato dove nulla si sappia del presente”. Per molti versi questo importante e impegnativo romanzo nel quale al lettore la vicenda si dipana come a strati, un po’ alla volta, attraverso livelli diversi e intrecciati di complessità, può essere letto a partire da qui. Il mondo che viene infatti qui raccontato – Bari, la Puglia, il Mezzogiorno, l’Italia contemporanea, questo tempo nel quale ci troviamo immersi noi oggi – è un mondo che, nella sua apparentemente lineare semplicità – una catena trasparente di cause ed effetti, di condizionamenti ambientali, di regole comportamentali elementari – è in realtà del tutto opaco e buio se non viene letto, verrebbe da dire, genealogicamente, andando alle radici delle vicende esistenziali che hanno segnato in modo indelebile la vita di questa sorta di bestiario umano che è la famiglia Salvemini di cui qui si narra.
Il bestiario è peraltro un elemento decisivo e niente affatto metaforico: le incursioni nel regno degli animali non umani – la gatta, i topi di fogna, gli uccelli che muoiono nel modo più innaturale, e cioè precipitando come impazziti a causa delle scorie tossiche sepolte in quelle terre già devastate in superficie dagli umani e ora anche in profondità dai loro rifiuti – sono chiavi di lettura, tracciati di senso ed esempi di coerenza, capaci, come in controluce, di rivelare la ferocia, appunto, di un mondo umano retto anch’esso da regolarità indiscutibili e rigidi meccanismi ai quali sembra che nessuno si possa sottrarre, come se nulla potesse davvero metterle in questione. Nulla, se non un gesto radicalmente e tragicamente umano, un gesto che sia in grado di incarnare la naturale innaturalità di questo animale spietato che è l’animale umano. Tutto il romanzo di Lagioia ruota attorno a questo nodo irrisolto, contraddittorio e terribilmente lacerante: il riconoscimento, cioè, che la natura umana si esprime per ciò che è, in una qualche forma, eroica o banale, distruttiva o autodistruttiva, di negazione della natura. Se c’è una scienza in grado di interpretare questo tempo, questo nuovo secolo che è ancora agli albori, dice a un certo punto uno dei personaggi, un corrotto che lavora con le squadre del bene, questa è l’etologia, la scienza del comportamento degli animali, la disciplina che studia i nessi di necessità a cui essi rispondono: “Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare”, dice; e aggiunge, quasi come sfida, “trovami il colombo che non vola”. Ma la persona a cui lo dice, Michele, è proprio il colombo che non vola; un disadattato (da interpretare anche qui etologicamente come non adatto all’ambiente nel quale si trova a vivere e che infatti viene spostato dalla famiglia da Bari, il suo luogo naturale, a Roma, un luogo altro che con la sua distanza produce le condizioni della sua, per quanto incerta e fragile, sopravvivenza), un depresso, uno che ha avuto bisogno – o a cui hanno imposto – delle cure psichiatriche, un incapace, secondo gli standard richiesti e imposti dalle norme sociali, uno che di fronte a un problema di matematica, a scuola, non segue la via tracciata, consueta, ma come una sorta di alpinista ne apre una nuova, che spesso non gli consente di arrivare alla meta, ma che non per questo è falsa. Una persona, appunto, proprio per questo capace di un gesto profondamente umano, adeguato, per una volta, a quella stramba naturalità che appartiene a questi complicati animali che sono gli umani; una persona, cioè, capace di un gesto innaturale, assurdo, inatteso. Capace di un’azione contraria alle leggi della natura e proprio per questo umana.
Le leggi della natura non sono infatti solo le leggi della fisica, le leggi della caduta dei gravi o le leggi della termodinamica. Le leggi della natura, per queste forme di vita che sono gli umani, sono leggi che si muovono nelle bordature incerte e slabbrate che separano e uniscono fisica, chimica, biologia, antropologia, psicologia e sociologia. Per queste nature innaturali che sono gli umani la stessa storia, il passato, cioè, di cui non sempre sono consapevoli, le vite che stanno alle spalle della loro e delle quali non sono e non possono essere responsabili, è natura. Il groviglio di vicende e di esistenze da cui provengono determina le vite che vengono dopo, determina, suo malgrado, la singola esistenza, costringendola ad assumersi innaturalmente la responsabilità di ciò di cui non è e non può essere responsabile.
E’ questo il grande tema di questo romanzo; un tema per molti versi classico, che richiama le tragedie greche e la questione ineludibile del rapporto fra scelta e destino, che richiama la grande tensione goethiana tra natura e storia, che rinvia in modo decisivo al più goethiano degli scrittori novecenteschi, e cioè a Thomas Mann, ai Buddenbrook in particolare, a questa idea per cui in un individuo – si pensi ad Hanno Buddenbrook – si coagula misteriosamente e necessariamente l’insopportabile pesantezza dei cicli generazionali che l’hanno preceduto, come se una serie di traiettorie diverse, indipendenti e autonome, per quanto relate l’una all’altra, si concentrassero nella gravità evanescente, eppure esistente, di un punto. Anzi, nel caso del romanzo di Lagioia, di un punto che ha come due lati che si sostengono a vicenda, due facce: quella di Michele, appunto, l’ultimo erede di questa famiglia, l’atomo sfinito su cui pesa la responsabilità della deflagrazione, e quella di Clara, l’amata sorellastra, che muore all’inizio della storia di una morte che non si capisce e il cui dipanarsi è il percorso stesso di questo viaggio nella profondità del tempo che è questo romanzo. Clara è figlia dello stesso padre, ma non della stessa madre di Michele; è la figlia naturale di Vittorio, un uomo solido e bestiale, duro come una statua di ferro, ma disposto a rivelare anche le proprie debolezze pur di raggiungere l’obiettivo, e di Annamaria, la moglie borghese, lucida e fredda, che sopporta tutto, anche il tradimento, pur di avere garantito il privilegio. Michele è nato invece al di fuori del matrimonio da una relazione tra Vittorio e una donna molto amata che muore nel dare alla vita questo figlio bastardo. Michele viene dunque al mondo già ferito e al di fuori di quella peculiare natura che è per gli umani il sedimentarsi dei loro costumi e delle loro pratiche di vita in norme sociali e leggi. Ed è animale ferito e bastardo, che ha sporcato la purezza di una razza, che a un tempo appartiene a quel mondo e a quella storia, ma ne è anche ai margini e, per molti versi, fuori. Per Clara, però, la sua naturalità, il suo appartenere pienamente alla storia da cui proviene, è essenzialmente colpa e destino e il suo avocare a sé tutto il lerciume e il dolore del mondo è l’unico gesto che le sembra concesso per salvare la fragilità di un fratello su cui pure graverà il peso tremendo della decisione. Solo Michele può infatti decidere. Solo chi è a un tempo dentro e fuori può vedere la verità della storia.
Un tema classico dunque, che è però declinato dentro la più vivida e carnale delle contemporaneità, trasformando, ancora una volta alla maniera di Mann, le vicende di questa famiglia potente, di un potere recente, conquistato con la ferocia che si addice ai meccanismi insieme primitivi e moderni del mercato, nel ritratto di un’epoca e di un mondo che non possiamo non riconoscere, attraverso questo romanzo, se non appunto, tragicamente, come questa nostra epoca e questo nostro mondo.
il romanzo mi ha convinto a metà, con Lagioia è un’impressione costante; dovrebbe liberarsi dei suoi modelli letterari (DeLillo nelle prime 70 pagine è quasi soffocante), darsi una voce originale. Ma è un’esortazione vuota: queste storie di talento e originalità acquistano un signuficato solo se radicate nel caso singolo. A parte ciò …
C’è qualcosa che non mi convince nella scrittura di Illetterati: ridondante, poco limata, con tutte queste coppie di aggettivi e avverbi ad appesantire, più un’astrazione di fondo (di che parla questo libro? Cosa succede?) che non giova al lettore occasionale. Detto con rispetto
A me è sembrato un romanzo eccezionale. DeLillo mi pare non c’entri assolutamente niente. Ma come si fa? (divergenze di lettura, eh, ma a me pare tutt’altro). Si vede Ellroy, magari. Si vede molto Faulkner. L’inizio del Novecento. Si vedono (molto più nascoste, ma tanto più presenti) le sorelle Bronte.
Romanzo tortuoso, doloroso, spinoso. Ma si sa: non c’è spina senza rose. Mi sono sentita ferita e accarezzata man mano che andavo avanti. Ora mi mancano le ultime 50 pagine.
Personalmente ho trovato La ferocia (e con dispiacere, perché sono un grande ammiratore di NL) un libro tremendo. Al netto della trama, che sembra Twin Peaks in Puglia e che comunque si risolve in maniera assolutamente insoddisfacente col colpo di testa insensato di Michele, che non è molto diverso o pretestuoso da farla finire con un terremoto o un uragano; al netto di questo, ho trovato i personaggi assolutamente legnosi, macchiette appiattite su pochi tic ripetuti all’infinito (il padre, per esempio, praticamente identico a quello di Riportando tutto a casa), e credo che la prosa, nel tentativo di avvicinarsi a una velocità “televisiva”, cinematica, e insieme di mantenere alta la complessità, abbia subito un calo drastico fino a sfociare nell’incomprensibile (su questo, i rilievi di Satisfiction bastano e avanzano). In genere, poi, è molto di cattivo gusto l’accumulo di cliché noir o da “anche i ricchi piangono” che risparmia all’autore il bisogno di essere esaustivo, suggerendo il già visto, il già noto, ma senza mostrare niente davvero.
Noto però con piacere che Illetterati, che non si capisce a che titolo si occupi di queste cose e soprattutto perché continui a pubblicare pezzi di rara banalità su un blog altrimenti valido, non ha esordito con “Come mi diceva il mio salumiere, i libri belli li riconosci leggendo la pagina 69. Anche La ferocia, lo splendido sonetto di Nicola Lagioia…”.
@diego
sì, ci sono anche quegli scrittori, concordo (secondo me DeLillo c’è: ma ricontrollerò): aggiungerei a livello profondo anche Dostoevskij e i Karamazov, per Michele
Diego c’ha ragione Lorenzo, De Lillo c’è, a pag. 69, sta dietro Emily a pomiciare con Charlotte mentre il salumiere ce prova co Anne. Il prossimo Lagioia lo chiamerà l’ammucchiata dal sottosuolo
Per la verità vengono designati figli naturali quelli nati fuori dal matrimonio. In questo caso quindi la definizione va bene non per Clara ma al contrario per Michele. Scusate la pignoleria.
@Marco: se credi che quella di Satisfiction sia critica o ragionamento, e non aggressione barbara e infantile, allora veramente hai trovato il tuo referente ideale. Satisfiction: la rivista di uno che ricattava i suoi abbonati minacciando di pubblicare foto hard… Complimenti. Io mi tengo Lagioia e pure Illetterati. Lo so che dispiace che qualcuno scriva su un bel giornale come Alias mentre lo si vorrebbe far noi, ma da qui a trasformare l’invidia privata in invettiva pubblica…
@Gennaro, a parte che su Alias non ci scriverei neanche morto, Lagioia lo tengo con piacere pure io: mi limito a credere che La ferocia sia il brutto romanzo di un ottimo scrittore; un romanzo mosso da un’ambizione molto furba che lo stile non ha il fiato per seguire. Su Satisfiction non so che dirti, non vedo come le malefatte di Serino invalidino gli articoli di Russo. Io sono un grande ammiratore di Lagioia, ed è stato un grande dispiacere dovermi trovare d’accordo con delle note tanto perfide.
Il romanzo promette. L’incipit è molto forte. Perturbante il personaggio di Clara.
Ho continuato a leggere, nonostante un crescente fastidio da eccesso di distopia, animata dal desiderio di capire come si sarebbe pienamente compiuto il profondo legame che unisce i due fratellastri Clara e Michele. E devo dire di non averlo compreso. Non risultano chiare le motivazioni che hanno spinto questa giovane splendida fanciulla all’autodistruzione e alla morte. Non le ho rinvenute nella scrittura, a meno di non pensare che lei abbia scientemente progettato la propria autodistruzione (si comprende che il suo comportamento è meticolosamente studiato), per ricondurre il fratello perduto a sé e indurlo a distruggere la loro allucinante famiglia.
Il romanzo mi è parso ridondante di cliché negativi a tal punto da risultare stucchevole: ogni volta il lettore si aspetta una verità simil dostoevskijana e finisce contro un palo con frasi del tipo “si sa che gli uomini amano picchiare le donne!”: Gli uomini sono tutti tossici, violenti, corrotti, maniaci e a volte tutte queste cose insieme; l’unico prete che appare è pedofilo; le figure femminili sono stereotipate nella borghese ipocrita e nella giovane scema. Tutta la storia era nelle mani di Clara, di Michele e di una gatta. Ma non è bastato per farne un buon romanzo. Troppe scorie
Brutto brutto brutto da vergognarsi…..persino di leggerlo