di Daniele Balicco e Cecilia Canziani
Cedegolo è un piccolo paese quasi alla fine della Val Camonica. Pochi chilometri sotto, c’è Capo di Ponte dove i Camuni hanno inciso, per millenni, enormi massi di arenaria, raffigurando animali, schemi geometrici, scene di caccia, di guerra; e labirinti. Pochi chilometri sopra, il massiccio montuoso dell’Adamello sovrasta la valle come un’enorme e severa cattedrale gotica. E tuttavia, risalendo in macchina la statale, quello che più colpisce di questo territorio non è il paesaggio, non è il fiume, non sono le piccole chiese arroccate su strapiombi, né le pinete che si alternano alle rocce, quanto i segni del lavoro e della fatica. Arrivare a Cedegolo significa infatti attraversare una delle terre più industrializzate dell’Italia del Nord: un paesaggio stravolto e congestionato (Tir e capannoni ovunque) se si resta vicino alla statale, ma di nuovo integro e quasi selvaggio se, con lo sguardo, si risale verso i monti. Una buona ragione per spingersi fin quassù è quella di andare a visitare, all’interno del Museo dell’Energia Idroelettrica di Cedegolo, la mostra “ferro, terra, fuoco, legno” dedicata all’opera della scultrice Franca Ghitti e il museo che la ospita: un piccolo gioiello di archeologia industriale che merita da solo la visita. La struttura dell’edificio è quella di una ex centrale Idroelettrica costruita tra il 1909 e il 1910 dall’ingegnere Egidio Dabbeni, e in disuso dal 1962. Nel 2008 è stata restaurata e riconvertita in uno spazio museale modernissimo, elegante ed europeo: il museo dell’Energia Idroelettrica. Questo imponente edificio di inizio secolo, tutto cemento armato e mattoni, esperimento architettonico pionieristico per gli anni della sua costruzione, fa parte del sistema Musil (Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia e della sua provincia) che è una realtà museale composta da quattro musei, uno a Brescia città – ancora in costruzione – e tre in zone diverse della provincia, tutti dedicati alla cultura del lavoro e all’archeologia industriale. In particolare, questo museo è interessante proprio perché la sua struttura fisica – una centrale idroelettrica di inizio Novecento – e la sua collocazione geografica – in una zona di montagna periferica, ma ricca di testimonianze culturali fin dal Neolitico – racconta il conflitto chiave per capire la storia di questo territorio, e, forse, più in generale, del nostro stesso Paese: il conflitto fra una modernizzazione industriale accelerata (fatta di speranze, successi e disastri) e il permanere di culture locali, agricole, religiose, artigianali, sincretistiche, talora, come nel caso della Val Camonica, perfino ancestrali; e mai del tutto sradicate. Su questi temi precisi ruota la ricerca estetica di Franca Ghitti e della bella mostra qui allestita, a due anni di distanza dalla morte. Scegliere di presentare la mostra in questo spazio ha un significato preciso perché opera e luogo si specchiano l’una nell’altro.
Nata vicino a Cedegolo, a Erbanno, in Valcamonica, Ghitti inizia a lavorare come scultrice a partire dagli anni Sessanta. Le sue sculture sono realizzate con vecchie assi di legno, avanzi di segheria, ritagli di metallo, tondini, chiodi: per lo più residui, scarti. E’ il gesto che li sceglie e li ricompone in una forma a restituire a questo mondo di avanzi disfunzionali energia, significato e senso. Così come un luogo abbandonato come una centrale idroelettrica in disuso, perché ormai inadatta agli standard di produzione degli anni sessanta, riprende vita attorno al racconto della funzione per la quale fu costruita. In entrambi i casi, non si tratta di mettere in scena la memoria, ma di restituire alla contemporaneità tracce di una storia capace di parlare ancora al nostro presente.
I titoli delle opere di Franca Ghitti rimandano spesso ad un immaginario ancestrale: come per esempio Vicinie che allude all’organizzazione comunitaria delle risorse, anticamente in uso in queste valli. O come le opere intitolate Rogazioni, Litanie che sono i primi lavori in legno iniziati negli anni Sessanta, in cui la cultura contadina diventa un archivio a cui l’artista attinge e restituisce presenza. Dopo lunghi soggiorni in Africa, che serviranno a potenziare la curvatura simbolica e rituale della sua pratica estetica, Ghitti rientra in Italia all’inizio degli anni Settanta. Da ora in avanti alle sculture in legno affiancherà opere in ferro. La lavorazione la apprende dai maestri della valle, da vecchi artigiani che tramandano ancora un sapere pratico che sta scomparendo. Franca Ghitti inizia così ad assemblare scarti e ritagli provenienti dal mondo industriale; progressivamente affina un proprio linguaggio che ha una precisa matrice minimalista e che condivide con l’arte povera l’accostamento di diversi materiali naturali, ma a cui sovrappone un’estetica di derivazione contadina, con i suoi riti, con i suoi gesti, con le sue forme. Le Mappe restituiscono una topografia praticata, non uno spazio astratto. I Libri e i Tondi sono legni di recupero solcati a sgorbia e scalpello da segni ritmicamente ripetuti. Le ciotole per fondere il ferro, poste una dopo l’altra, a intervalli regolari come elementi primari di stampo minimalista, diventano vassoi delle offerte. Non si tratta di serialità, ma di rito. E di paesaggio: come le Spirali che sono costruite accostando pezzi di vecchi attrezzi a comporre un mandala che parla di una economia contadina che scompare; o che riattiva, dall’inconscio collettivo di queste terre disorientate, l’orientamento di vecchi labirinti camuni. Allo stesso modo, i muri delle case valligiane sono innalzati mettendo pietra su pietra, in una ripetizione irregolare e differente. Proprio come un artigiano, Franca Ghitti rielabora sempre gli stessi materiali e le stesse forme. Le opere vengono spesso continuate e riprese nell’arco dei quaranta anni della sua attività, come se ne testasse la tenuta attraverso il tempo. Le Mappe di materiali e sistemi poveri di copertura, elementi verticali di legno su cui sono fissati lamiera, scarti di rame e ferro, stoffa, realizzati nel 2003, sembrano così un campionario elaborato a posteriori dei materiali che ha usato, o un archivio che rimette ancora in circolo gesti, riti, forme sociali.
Una mostra dovrebbe essere sempre l’occasione per rileggere in una luce nuova il percorso di un’artista: le ottanta opere scelte dai curatori Fausto Lorenzi e Marco Meneguzzo, felicemente collocate negli spazi di questo edificio industriale, restituiscono finalmente la contiguità della ricerca di Franca Ghitti con quella di movimenti, linguaggi e artisti a lei coevi, e ne affermano la centralità. Non solo: nel raccontare la figura di questa artista schiva, che ha scelto di abitare in una area remota della sterminata provincia italiana, e il cui lavoro risulta tanto più contemporaneo oggi, in tempi in cui torniamo a parlare di media tradizionali (sarebbe interessante pensare a una mostra di Franca Ghitti con accanto, per esempio, il lavoro di Chiara Camoni e Luca Francesconi, per citare due giovani artisti italiani che guardano alla cultura arcaica, a una dimensione rurale, alle arti minori come risorse per la propria ricerca), la mostra suggerisce una diversa possibilità di produzione e distribuzione della cultura contemporanea, quasi una forma di resistenza, o di decrescita felice, in tempi di globalizzazione: quella dei margini, delle periferie, dei micro territori in rete. Delle tante, diverse, ancora vive provincie italiane.
Rispetto a musei enormi, costosi e spesso autoreferenziali, esiste un capitale interstiziale che l’arte può abitare – e relazioni che fanno bene alla sua lettura. Rispetto a una visione centripeta, scegliere di abitare gli innumerevoli altrove, di cui il nostro paese è pieno. Non costruire, ma riutilizzare. Non ragionare per discipline, ma per affinità e aperture.
[Immagine: Franca Ghitti, Pagine chiodate].
Maschile-femminile nelle opere di Franca Ghitti
di
Antonella Mancini
Mi sono imbattuta nei lavori di Franca Ghitti per caso, visitando il Museo dell’Energia posto nell’ex Centrale Idroelettrica della zona. Ho un rapporto ambiguo con l’arte contemporanea e non vado al di là di una risonanza o dissonanza emotiva con l’opera che ho davanti. Non ho neppure una particolare inclinazione verso il pensiero femminista. Eppure, di fronte ai manufatti della Ghitti mi sono sorpresa a chiedermi se mai avesse potuto realizzarli un uomo. E mi sono subito risposta che no, non avrebbe potuto. Domanda di riserva: un uomo avrebbe usato gli stessi materiali, e allo stesso modo? Ancora no. Solo una donna, e neppure giovanissima, con una forte consapevolezza di se stessa e una grande esperienza di vita – mi sono detta – poteva permettersi il lusso di giocare con le cose dei maschi, senza temere rimbrotti o rappresaglie che potessero minacciarla nella sua identità femminile, e concedersi di farlo senza entrare in competizione con chi é avvezzo da secoli di storia a ghigrittido nella visita, l’emergere di una qualche forma di protesta. Niente di ciò. Inutile cercare nei lavori della Ghitti echi di rivendicazione o di vittimismo, e neanche giochi di potere o consolazioni estetico-narcisistiche. Da sempre assimilati alla guerra, i ferri e le terre dei maschi appaiono qui sminuzzati, resi infinitamente piccoli e innocui, accomodati in appositi piatti e piattini, ciotole e ciotoline, ad evocare le offerte votive a misteriose divinità ctonie, piuttosto che minacce di violenza o canti di guerra. Il visitatore, se vuole, può lasciarvi un proprio segno: la terra è di tutti, ci ricorda a ogni passo l’artista. Siamo fra i “raccoglitori”: gli eroi-maschi dell’Iliade sono ancora di là a venire. E poi le forme. E i segni: spirali che ricordano conchiglie dai segreti nascosti, figure dagli spigoli arrotondati, cancelli sospesi nel nulla. E poi i colori caldi delle terre, delle ruggini. E ancora: trucioli di ferro e scarti di lavorazione metallica, certo non nuovi all’attenzione degli artisti, ma qui sembrano godere di una loro vita autonoma, proiettata verso un pubblico cui offrirsi, senza secondi fini né significati nascosti: la Donna c’è, ed è pronta a svolgere la sua parte: entro i limiti che la Natura e lei stessa hanno deciso di porre.