di Clotilde Bertoni
[Questo articolo è già uscito su «Alias/Il manifesto»]
«Solo quando vedo Eduardo capisco cos’è il teatro» diceva Pasolini. E mentre si celebra il trentennale della sua scomparsa, l’opera di Eduardo seguita a far capire cos’è il teatro agli spettatori più diversi, e seguita a sconvolgere le attese: radicatissima nel microcosmo partenopeo, ma trasposta con successo nelle lingue più varie; ritenuta inscindibile dalla verve di interprete del suo autore, ma, come attestano le messinscene contemporanee (su tutte quelle di Toni Servillo), riuscita a sopravvivergli ampiamente; dotata di una vitalità così spiazzante forse proprio perché spiazzante già in se stessa.
Le commedie eduardiane, infatti, sovvertono continuamente i canoni. Già nella fase farsesca che segue ancora la scia del padre naturale, Eduardo Scarpetta (risentendo però pure l’influsso di un amato padre elettivo, Pirandello), e sempre più nelle fasi successive, queste commedie scrutano la vita del popolo e della piccola/media borghesia, riproducono ritmi, umori, sapori e dissapori della quotidianità, intercettano cruciali svolte storiche; ma senza adagiarsi nei più prevedibili schemi del realismo, complicandoli anzi in modi vari: con impasti tra il comico e il tragico, certo già familiari al teatro moderno, ma particolarmente spericolati; con incursioni nel fantastico; con ricorsi, forti quanto insoliti, ai codici del melodramma.
L’umorismo interviene ad alleggerire anche le trame più drammatiche, rendendole al tempo stesso più incisive. In Napoli milionaria! (1945, svolta dichiarata verso il teatro serio), l’atmosfera della guerra e dell’occupazione alleata è filtrata dai meschini o grotteschi incidenti della routine giornaliera: la priorità dell’interesse economico, in grado di travolgere ogni barriera culturale, emerge dalla sapida precisazione di una contrabbandiera sulle sigarette acquistate da un sergente inglese («ha voluto un aumento di dieci lire a pacchetto. Io ho detto: “Ma come, voi siete ingrese…”. E lui ha risposto come se avesse voluto dire: “Sarraggio ingrese comme vuoi tu, ma se ti conviene a questo prezzo bene, se no vado da un altro rivenditore italiano”»); il vano accanimento con cui il reduce dal campo di concentramento Gennaro si incaponisce a raccontare le sue avventure ai distrattissimi familiari mette in luce sia il trauma del conflitto che l’ansia di rimuoverlo; la situazione da feuilleton della bambina innocente in pericolo di vita innesca un’esilarante quanto acre denunzia delle speculazioni della borsa nera, il dialogo tra il medico che cerca la penicillina resa introvabile per aumentarne il prezzo, e il volenteroso popolano che lo esorta ad «arrangiare» con un farmaco per la rogna. Trovate il cui brio non fa che evidenziare maggiormente l’ombra di angoscia che si allunga sulla pièce, culminante nella certezza di Gennaro che «’a guerra nun è fernuta», controbilanciata solo in parte dalla conclusiva, notissima battuta «Ha da passa’ ’a nuttata»: che peraltro Eduardo avrebbe abolito nell’opera lirica tratta dal testo nel 1977 con Nino Rota, spiegando la sua scelta con un brusco «Questa nottata non passa mai per Napoli».
Altre volte, invece, l’umorismo motore principale di copioni senza una vera trama sprigiona un retrogusto amaro. Tra i migliori esempi Sabato, domenica e lunedì (1959), variopinto quadretto domestico che registra tempestivamente la sospensione fra tradizione e metamorfosi dell’epoca del boom: intorno al rito domenicale del ragù convergono un padre negoziante, una madre casalinga, un nonno cappellaio deciso a rilanciare la moda del cappello con un gioco televisivo, una figlia desiderosa di diventare annunciatrice, una zia intellettualeggiante (che conclude una tirata sui diritti femminili con lo strepitoso invito a sproposito «Compratevi Il Gattopardo»); ma dall’amabilità dei siparietti affiora un groviglio di insoddisfazioni e malintesi che la conciliazione finale non arriva a dissipare del tutto; come in parecchie opere eduardiane, il nucleo familiare risulta dimensione ambivalente, roccaforte di affetti sacri ma anche covo di tensioni irrisolte.
L’adesione mimetica alle minuzie del quotidiano è d’altronde spesso incrinata da fughe delle vicende dalla realtà che diventano fughe dei testi dal realismo: a volte si tratta di mondi alternativi estemporanei, come quelli costruiti dal Pasquale di Questi fantasmi! (1946) ostinato a credere manifestazioni di presenze oltremondane i favori che gli assicura l’amante di sua moglie, o dall’Alberto delle Voci di dentro (1948) che attribuendo un delitto solo sognato ai suoi vicini di casa, porta a galla la carica di violenza e sospetto latente nei loro rapporti; a volte si tratta invece dello stabile mondo alternativo della finzione scenica, che in opere metateatrali peraltro diversissime, da Uomo e galantuomo (1922) all’Arte della commedia (1964), si confonde con le simulazioni della vita effettiva e ne mette a nudo i meccanismi.
Se poi molte di queste tranches de vie si inarcano verso le passioni assolute e i conflitti estremi tipici del melodramma, schivano sempre la facilità dell’enfasi retorica e delle morali edificanti, con un implacabile senso del dolore che non ammette edulcorazioni, non prevede risarcimenti. Senso la cui massima articolazione resta la pièce scritta nel 1946 in onore della sorella Titina, Filumena Marturano, che dà ampio spazio alla vergogna dell’origine illegittima, vera “ossessione d’autore” eduardiana (di chiara impronta autobiografica), e che mobilita i topoi più inflazionati dei copioni strappacuore – la prostituta redenta, il matrimonio agognato, la maternità trionfante – in chiave però costantemente antimelodrammatica, con un pathos che non indulge ai patetismi, un’amarezza che scarta qualsiasi fioritura sentimentale: le umiliazioni sofferte al bordello sono evocate in modo ellittico quanto crudo attraverso il ricordo del riso protervo dei clienti («Chella resata ca è sempe ’a stessa, chiunque ’a fa!»); altrettanto crudamente la scelta di prostituirsi è spiegata non con classiche storie di seduzione o traviamento ma solo con la brutale necessità di sottrarsi alla miseria dei bassi «nire, affummmecate […] Addò è meglio ’o friddo c’o calore»; la coscienza profonda delle ingiustizie subite esclude ogni abbandono, ogni rifugio nella commozione («Ll’uocchie mieie so’ asciutte»).
Inevitabile poi sottolineare che questo pathos deve la sua scabra pienezza anche alla sobria e intensa recitazione di Titina, sua prima fonte di ispirazione; e inevitabile pure rammentare che le mescolanze di registri, le impennate surreali, l’understatement dolente della produzione di Eduardo sono già insite in quel suo atipico istrionismo che incantava tutti gli altri mattatori (da Laurence Olivier a Dario Fo), imperniato sull’allusività, sui silenzi, su espressioni e gesti minimi ma densi di significato. Espressioni e gesti immortalati, oltre che da un’eterogenea filmografia, dalle registrazioni televisive delle commedie: il sopracciglio alzato, che di volta in volta comunica sgomento, perplessità, riprovazione; la smorfia di disgusto nel bere il caffè mattutino che apre il favoloso duetto coniugale di Natale in casa Cupiello (un capolavoro l’ultima versione, con Pupella Maggio, forse l’unica interprete, a parte i fratelli, in grado di tenergli davvero testa); il passaggio dalla sardonica padronanza della «corda civile» all’esplosione liberatoria della «corda pazza» nel Berretto a sonagli del suo Pirandello. È stato questo dominio così sofisticato e accorto delle risorse dello spettacolo a sostenere la lunga durata del teatro eduardiano: rimasto così vivo sulla carta, perché nato innanzitutto sulla scena.
Com’è vero! “Vivo sulla carta perché nato innanzitutto sulla scena.”
Al contrario oggi ci sopravvive un “teatro” di parole informatiche senza riscontro, polvere fonica.
Un “presepe” ,disgregato, nella sua eccezione larga, appunto quella teatrale.
Scomparso il gesto, la scrittura, come equilibrio, come sostanza, ne rimangono scorie irriconoscibili.
Un escursus esemplare.Grazie.
Mauro Pierno.
Abbiamo condiviso il Suo articolo sulla pagina dedicata ad Eduardo, sperando di fare cosa gradita. Complimenti
Gianluca Marino
https://www.facebook.com/pages/Eduardo-De-Filippo-ieri-oggi-e-domani/182451978503475
un altro sguardo:
http://www.ilmattino.it/CULTURA/SPECIALE_EDUARDO/le-luci-e-le-ombre-del-mito-eduardo-di-roberto-de-simone/notizie/997128.shtml
Per Mauro Pierno e Gianluca Marino: grazie infinite per queste parole così gentili; bellissima la pagina fb su Eduardo.
Per Viola: sono da sempre un’ammiratrice sperticata di Roberto De Simone, ma circa il teatro eduardiano, come è già evidente, la penso in modo totalmente diverso. Ad esempio: si tratta, verissimo, di un teatro che intreccia spesso tensione realistica e impennate visionarie, ma questa conflittualità, per De Simone debolezza, a me pare quasi sempre un punto di forza (non sono necessariamente la coerenza, l’omogeneità, a determinare la qualità di un’opera). E non mi sembra proprio che Eduardo esigesse totale fedeltà al testo scritto: esigeva totale adesione alle sue direttive, quello sì (cosa che causò parecchi problemi, a partire dalla celebre rottura con Peppino); però, animale da scena come era, costruiva e in parte rifaceva pure i suoi testi, prendendo spunto da variazioni estemporanee, improvvisazioni a soggetto non solo sue ma anche di altri attori. Le edizioni e registrazioni di cui disponiamo basterebbero a dimostrarlo: per dirne solo qualcuna, in Natale in casa Cupiello il fantastico duetto incipitario che già citavo acquista una nuova verve (con aggiunta o trasformazione di parecchie battute) nella versione con Pupella Maggio, e il Nennillo di Luca De Filippo è del tutto diverso da quello di Pietro De Vico; la Filumena di Regina Bianchi non ha molto a che vedere con quella di Titina (che ci è rimasta grazie al film); gli sketch migliori di Questi fantasmi! si giovano sicuramente della capacità di andare a braccio di Ugo D’Alessio; i finali di Napoli milionaria o Mia famiglia risultano aperti alla speranza o invece disperati a seconda delle messinscene. Rischio di scrivere un altro post, meglio fermarsi.
Letto con grande piacere. Posso solo sottolineare con rammarico come nella prassi scolastica sia ancora considerato un autore di nicchia, da citare così, per curiosità. All’interno tra l’altro di una sostanziale rimozione di tutto l’universo teatrale, che dovrebbe far riflettere. Si dedica tanto tempo ai progetti e ai laboratori teatrali più svariati ma, chissà perché di teatro se ne legge – e se ne guarda – poco o nulla.
grazie Clotilde, era solo per sottolineare che la scena napoletana presentava anche altre possibilità, e direzioni, ivi inclusa quella di Viviani