di Claudio Giunta
[Questo intervento è apparso su “Internazionale”]
All’inizio di House of Cards, prima serie seconda puntata, il malvagio Francis Underwood chiude un gruppetto di giovani geni della comunicazione in una stanza del Congresso perché scrivano un programma di riassetto dell’educazione scolastica: sarà la prima proposta di legge del neo-presidente degli Stati Uniti. Alla fine del lavoro, uno dei membri del gruppo chiede a Underwood: «History?», cioè «Abbiamo fatto la storia?». «History», risponde Underwood.
Qualche mese fa, il ministro Giannini ha fatto qualcosa del genere. Ha chiuso un gruppo di esperti, per lo più giuristi, in una stanza del ministero e ha chiesto loro di pensare e scrivere un dossier sulla scuola italiana: su com’è e su come va cambiata. Il risultato è un documento di 136 pagine che è stato messo online all’inizio di settembre. Contestualmente, il primo ministro Renzi ha chiesto ai cittadini di leggere e di dire la loro sul sito www.labuonascuola.gov.it. Domenica 16 novembre questa Grande Consultazione Popolare si è chiusa, e sul sito si possono leggere, oltre al testo del documento, i messaggi di centinaia di ‘gruppi di discussione’ sparsi per il paese, con i relativi like (uno potrebbe obiettare che la consultazione andava fatta prima di scrivere il documento, solo che sarebbe stato impossibile, e forse anche inutile se in testa alle proposte avanzate dai gruppi di discussione, a quota 467 like, c’è un capolavoro di concretezza come il seguente: «La scuola oltre la cultura deve formare la persona. Il voto deve comprendere anche una valutazione della persona, dell’impegno, della costanza e passione che impiega»).
E dunque: «hanno fatto la storia?». Sono cose che si scoprono dopo. Ma è un fatto che il documento contiene varie novità di rilievo, e proposte normative che, se attuate, influenzeranno senz’altro la vita degli insegnanti nei prossimi anni, e anche un po’ la vita degli studenti. I settori in cui le novità mi sembrano più rilevanti sono:
Il reclutamento degli insegnanti. Intanto, recependo una direttiva europea, il Governo s’impegna ad assumere tutti i circa 150.000 insegnanti precari che riempiono le graduatorie ad esaurimento. Dopodiché si prospetta un piano di assunzioni che, a regime, dovrebbe permettere di inserire nei ruoli scolastici circa 13.000 nuovi insegnanti ogni anno (il documento parla di un bando per circa 40.000 posti per la copertura del triennio 2016-2019). Il che introduce al punto successivo.
La formazione degli insegnanti. La strada è quella già segnata da tempo, cioè dalle decisioni dei precedenti governi: dopo la laurea triennale, gli aspiranti insegnanti accedono (per concorso) a un corso di studi biennale specificamente pensato per la loro formazione, e dunque centrato sulla didattica; al termine di questo corso di studi, gli aspiranti insegnanti fanno un tirocinio a scuola di sei mesi, dopodiché vanno in cattedra.
La carriera degli insegnanti. Gli stipendi degli insegnanti aumentavano e aumentano in ragione della anzianità di servizio. Stando al documento, non sarà più così. Gli insegnanti verranno valutati dal dirigente scolastico e da un Nucleo di Valutazione formato da altri insegnanti e da «un membro esterno»: i due terzi degli insegnanti potranno avere, ogni tre anni, un aumento di circa 60 euro; un terzo di loro no (la percentuale, che mi pare enorme, è indicata nel documento: «ogni tre anni, due terzi (66%) di tutti i docenti di ogni scuola avranno diritto ad uno scatto di retribuzione»). In questo modo, gli insegnanti migliori (cioè quelli che avrannosempre ottenuto il premio triennale) potranno guadagnare, dopo 36 anni di servizio, circa 720 euro in più rispetto ai peggiori (cioè quelli che non avranno mai ottenuto il premio triennale).
Il potenziamento dell’autonomia. Ogni dirigente scolastico potrà consultare il portfolio di ciascun insegnante e, «a certe condizioni e nel rispetto della continuità didattica […], scegliere le migliori professionalità per potenziare la propria scuola». Proposta interessante, a mio avviso, salvo il fatto che, come ha osservato Mauro Piras, «questo punto non è per niente chiaro, dal momento che il documento conferma il reclutamento per concorso, e non per chiamata diretta; quindi non si capisce chi possono scegliere i dirigenti e per cosa».
Meno importanti mi sembrano altri capitoli che, più che esprimere un programma, formulano auspici e buoni propositi molto molto vicini al wishful thinking: è un mondo digitale, quindi ci vuole più digitalizzazione; è un mondo globalizzato, quindi ci vogliono più lingue straniere, soprattutto l’inglese; è un mondo pieno di disoccupati, quindi ci vuole un migliore collegamento scuola-lavoro; è un mondo senza soldi, quindi bisogna che i privati siano invogliati a finanziare le scuole, grazie a una politica che va dagli sgravi fiscali al crowdfunding (vulgo ‘colletta’); è un mondo in continua evoluzione, quindi bisogna che gli insegnanti si aggiornino nel corso di tutta la loro carriera; è un mondo creativo, quindi bisogna che tutti studino più storia dell’arte e più musica (e ciò non si potrà fare senza l’attivo coinvolgimento di «tutte le istituzioni musicali del Paese, in primo luogo i conservatori, ma anche gli enti lirici e sinfonici, bande militari e civili»: balena sullo sfondo la figura cara del maestro Scannagatti, alias Totò); è un mondo in cui essere magri è importante, quindi bisogna che i ragazzini facciano attività fisica: «devono rialzarsi, correre, sudare». Ma certo. Eccetera.
La buona scuola parla di molte cose, molto a lungo. Troppo a lungo: si poteva condensare tutto in metà spazio, o in un terzo, e il documento avrebbe avuto il doppio o il triplo dei lettori. Lo dico per il futuro: poche persone dispongono delle 3-4 ore che ci vogliono per leggere le 136 pagine di un documento ministeriale, per quanto colorato e user friendly. Il fatto è che i dati, che pure ci sono, affogano in un discorsone il cui tono propagandistico-motivazionale ricorda molto quello delle interviste di Renzi, abbastanza quello di Le chiavi del pensiero positivo di Napoleon Hill, e un pochino anche il dai dai dai di René Ferretti in Boris. «… ricucire il tessuto educativo del Paese… rete di intersezioni preziose… ogni scuola deve poter schierare la migliore squadra possibile… riscatto e protagonismo Civico… filo forte di un tessuto sociale da rammendare… essere centro inclusivo e gravitazionale di scambi culturali, creativi, intergenerazionali, produttivi» (qui anche René Ferretti si ritira in buon ordine e scivoliamo decisamente nella supercazzola). È vero che un po’ di entusiasmo e un po’ di fiducia in se stessi, in queste cose, non fa male; ma si doveva essere più asciutti.
Con l’asciuttezza, forse, sarebbe venuta anche una maggiore aderenza alla realtà. Come tutti gli scritti motivazionali, infatti, anche il documento La buona scuola espelle dal suo raggio d’attenzione il Negativo, che è poi un altro nome del Reale: valuteremo le scuole, ma senza fare classifiche («il sistema di valutazione «non mira, semplicisticamente, a ‘premiare la scuola migliore’, quanto piuttosto a ‘sostenere la scuola che si impegna di più per migliorare’»: eeeeh?); premieremo i docenti migliori, senza però umiliare i non-migliori; faremo in modo che gli studenti più bravi coltivino i loro talenti, ma senza lasciare indietro i meno bravi. Basta aver vissuto un po’, e aver vissuto un po’ la scuola, per sapere che le cose non possono andare così.
Ma il documento La buona scuola sembra scritto precisamente da bravi ‘tecnici’ che hanno vissuto poco. Questo è un bene da un lato, perché i vecchi sono spesso dei piagnoni senza fantasia; ma è un male dall’altro, perché l’idealismo senza esperienza porta spesso, anche involontariamente, alla mistificazione. Enrico Rebuffat ha spiegato, con molta pazienza, perché i calcoli sugli stipendi dei futuri docenti sono irrealistici e mendaci. E qualsiasi lettore sensato chiude gli occhi per lo strazio quando La buona scuola disegna il profilo di insegnanti-MaxWeber versati in ogni settore dello scibile – «… gestiscano classi sempre più multiculturali, integrino gli studenti con bisogni speciali, utilizzino efficacemente le tecnologie per la didattica, coinvolgano i genitori […], non insegnino solo un sapere codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem-solving, decision-making, capacità di apprendere), metodi di lavoro (tecnologie per la comunicazione e collaborazione) e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne» – o quando ai piccoli Kevin, Samantah e Mohammed, gli spensierati abitanti di classi nelle quali è quasi impossibile anche solo mantenere la disciplina, si propone un curriculum fatto, oltre che di problem-solving e decision-making (nonché, si spera, italiano e matematica), di storia dell’arte e disegno, musica, inglese, economia, programmazione informatica, tecniche di stampa in 3D e body-building.
Naturalmente, è facile criticare. È anche facile dire (in rete è una sassaiola) che nessuno dei giuristi o esperti di comunicazione o scienze politiche convocati dal ministro per scrivere La buona scuola ha mai passato un giorno come insegnante in un’aula scolastica. La risposta a questa ragionevole obiezione è che gli esperti di pedagogia avrebbero fatto peggio (cioè, hanno già fatto peggio); e che sentire i pareri di settecentomila insegnanti, o anche di una loro frazione, non è né possibile né augurabile. Nel migliore libro sulla scuola che io conosca, Scuola sotto inchiesta, Guido Calogero scrive, un po’ sul serio un po’ scherzando, che la riforma della scuola, per avere chances di successo, dovrebbe farla il ministro, a casa sua, dopo aver ascoltato per un po’ (ma non per troppo) le opinioni di due o tre persone delle quali si fida. Più invecchio, più mi avvicino a pensarla così.
La mia opinione è che le due cose fondamentali, per la scuola, tanto fondamentali da rendere le altre quasi irrilevanti, siano la formazione e la selezione degli insegnanti: un bravo insegnante funziona anche in una scuola fatiscente, senza computer, con classi sovraffollate; mentre un cattivo insegnante fa disastri anche, e forse soprattutto, se equipaggiato di banchi, libri, lavagne elettroniche e connessioni superveloci. Stiamo formando e selezionando bene gli insegnanti? Non credo. Lo faremo grazie al nuovo sistema prospettato da La buona scuola? Non credo.
Intanto, l’assunzione in ruolo di 150.000 precari è una buona notizia per i 150.000 precari, ma una notizia ferale per gli altri cittadini: perché non sappiamo nulla della qualità di questi precari: la battaglia per il merito comincia cioè con una gigantesca immissione di persone il cui merito, in molti casi, non è mai stato verificato. Temo anche che la spesa necessaria a sostenere queste assunzioni costringerà ad assumere di meno (molto meno di quanto il documento prospetti) negli anni a venire, riducendo di molto i posti per i giovani che adesso, nelle università, si stanno formando come insegnanti.
Quanto al percorso biennale ‘professionalizzante’ «improntato alla didattica», credo che sia un errore (non di questo governo, ma anche di questo): perché sopravvaluta l’importanza della didattica e della pedagogia (dire questo non significa dire che didattica e pedagogia non sono importanti: significa dire che sono il contorno, non il piatto di portata, e per il contorno sono sufficienti alcuni mesi di lezioni, e non anni, buone letture e, soprattutto, l’esperienza in classe); e perché sottovaluta l’importanza delle competenze disciplinari, competenze che coloro che escono dalla triennale molto spesso non posseggono. Per essere più chiari: chi oggi prende una laurea triennale in letteratura o in filosofia, nella grande maggioranza dei casi non è in grado di insegnare né letteratura né filosofia non perché non sa come insegnare la letteratura o la filosofia ma perché sa troppo poco di letteratura o di filosofia.
Che fare, dunque? Ne so – tutti ne sappiamo, anche gli esperti del ministero – più o meno tanto quanto ne sa chi mi sta leggendo. Mi sembra chiaro che per avere ottimi insegnanti bisognerebbe che questa carriera attirasse gli studenti migliori. Questo oggi non accade, in sostanza per tre ragioni. La prima è che gli insegnanti sono pagati poco. La seconda è che diventare insegnanti ed entrare in ruolo era, almeno fino ad oggi, una gimkana tra norme incomprensibili, lungaggini estenuanti, occasioni prese o perse per puro caso, botte di fortuna o di sfortuna: bisognava essere matti per affidare il proprio destino a una cabala del genere. La terza è che la carriera a scuola non è una carriera: non si progredisce nella gerarchia, s’invecchia, e tra fare il proprio lavoro bene e fare il proprio lavoro male non c’è questa gran differenza (salvo che per la propria coscienza, si capisce: ma anche la coscienza cede, coll’età).
Può darsi che le nuove norme correggeranno la seconda stortura; dubito molto che correggeranno la terza; sono certo che non correggeranno la prima: vale a dire che gli insegnanti continueranno ad essere pagati poco anche se dovesse entrare a regime la riforma delineata nel documento del governo. L’amara verità è che gli insegnanti sono pagati poco in tutto il mondo: perché la scolarizzazione aumenta, si diversifica, si complica (è interessante il fatto che nel documento la parola immigrati o immigrazione non compaia mai: dicano gli insegnanti quante volte al giorno, invece, loro sono obbligati a pensarci), e il numero degli insegnanti cresce, mentre i soldi per l’istruzione restano gli stessi, e anzi – invecchiando la popolazione – diminuiscono. Non c’è cura per questa malattia: salvo misure radicali che nessuno ha il coraggio o la forza di prendere (meno scuola? Alcuni l’hanno proposto, e non tra i meno intelligenti).
Gli stipendi resteranno bassi, dunque. Ma ci sono un mucchio di giovani bravi e intelligenti che non danno troppo peso al denaro e alla carriera, e a cui piacerebbe insegnare. L’università dovrebbe incoraggiarli a farlo, e aiutarli nel loro percorso. È un nobile intento. Ma è un nobile intento anche fare in modo che chi non è adatto a insegnare non finisca in classe. Le scuole sono piene (piene) di insegnanti inadeguati; così come le università, specie le facoltà ‘deboli’ come Scienze della Formazione e Lettere, sono piene di aspiranti insegnanti del tutto inadatti a questo ruolo. Sarebbe opportuno poter licenziare quegli insegnanti in ruolo (anziché spostarli di classe in classe, perché il danno venga distribuito); e sarebbe ancora più opportuno fermare in tempo quegli insegnanti in pectore, per il loro bene e per quello degli altri. Forse l’esame per accedere al biennio specialistico servirà a questa selezione: se è così – purché l’esame sia davvero rigoroso, e impostato sulle conoscenze disciplinari più che sulle competenze pedagogiche – ben venga il biennio specialistico, o qualsiasi dispositivo atto a tenere ben lontano dalla scuola, poniamo, l’aspirante docente di lettere che risponda «1948» alla domanda «Quando è finita la seconda guerra mondiale?» (exemplum non fictum, dato che è successo a me la scorsa settimana: salvo il fatto che non di un aspirante docente si trattava, ma di un docente in servizio, iscritto ai PAS).
Dopodiché, resta il problema degli scatti stipendiali, e della carriera, che sono due cose diverse. Ben vengano scatti stipendiali legati al merito: solo che mi sembra assurdo (e pericolosissimo) che dell’anzianità non si tenga alcun conto, per ragioni troppo evidenti perché vadano spiegate; e solo che io non so quello che gli esperti del ministero sembrano sapere alla perfezione (mantenendo però il segreto su questo punto), e cioè come effettivamente si misura il merito di un insegnante. Leggendo il documento mi è parso che questo merito sia legato soprattutto ad attività extra-curricolari: incarichi amministrativi, «svolgimento di ore e attività aggiuntive ovvero progetti legati alle funzioni obiettivo o per competenze specifiche (BES, Valutazione, POF, Orientamento, Innovazione tecnologica)». Se è così (e mi pare proprio che sia così), andiamo molto male: perché mi pare chiaro che le attività extra-curricolari vadano pagate (lo sono già, poco); e perché il merito di un insegnante si giudica dal modo in cui insegna, non dal suo impegno nell’amministrazione o dalla fantasia e dallo zelo con cui s’inventa amene alternative alle lezioni d’italiano e matematica: altrimenti si finisce per premiare non i bravi docenti ma i traffichini, o quelli che scambiano la scuola per un dopolavoro (nel mio liceo c’era la «Professoressa Cineforum», e sapevamo bene già allora che cosa pensarne). Dato che non credo che il merito reale di un docente si possa misurare agevolmente, e dato che non credo che a misurarlo possano essere i suoi colleghi (questa la proposta del documento, a mio avviso dissennata), meglio sarebbe pensare non a scatti stipendiali octroyés da un Nucleo di Valutazione bensì a vere e proprie carriere, graduate come sono graduate quelle dei docenti universitari e, come queste ultime, regolate da concorsi pubblici che misurino le conoscenze disciplinari e le capacità didattiche: sarebbe anche un modo per motivare gli insegnanti ad aggiornarsi sul serio (ora come ora mi pare che gli aggiornamenti siano in gran parte delle perdite di tempo e di denaro: anche perché uno può benissimo partecipare a corsi di aggiornamento scaldando la sedia e pensando ai fatti suoi, dato non ci sono né verifiche né premi né sanzioni).
Che altro. Ah già, i soldi. Assunzioni en masse, meccanismi premiali, aperture pomeridiane, potenziamento del sostegno, educazione musicale d’intesa con le «bande militari e civili», digitalizzazione di qualsiasi cosa, «acquisto di nuovi macchinari (stampanti 3D, frese laser, componenti robotici, eccetera)». Uno si chiede: ecco, nell’«eccetera» ci entra anche la carta igienica?
perché quando si parla di buona scuola si parla solo di insegnanti (il che comunque non è sbagliato)? E le segreterie? Avete provato a dare uno sguardo ai siti istituzionali delle Facoltà?
Questo è quanto è successo a mia figlia:
a.a. 2011-2012: si diploma al Liceo scientifico con voto 93/100
a.a. 2012-2013: supera il test di ingresso di architettura del Politecnico di Milano (laurea triennale) con 73/150
a.a. 2013-2014: decide di trasferirsi al corso di Laurea in Ingegneria Edile architettura di Pavia (ciclo unico) e, dopo aver cercato indicazioni certe sul sito, decide di chiederle alla segreteria. A domanda, la segreteria di Pavia risponde che per gli iscritti alla facoltà di architettura del PoliMi non è necessario il test d’ingresso. Pertanto fa la rinuncia a Milano e chiede il trasferimento a Pavia: il 20 agosto la segreteria di Pavia la informa che ha gli esami in regola per il trasferimento, ma non ha fatto la richiesta per il test. a questo punto è fuori da entrambe le facoltà e si è persa un anno! Allora si iscrive alla facoltà di Matematica per sostenere esami necessari al corso di Ingegneria che intende frequentare l’anno successivo.
a.a. 2014-2015: a metà marzo 2013 cerca sul sito le date di iscrizione ai test di ingegneria edile e architettura e scopre che le iscrizioni si sono chiuse il 10 marzo senza appello a settembre (il tutto senza alcun serio avviso, salvo a stare incollati al PC 24 ore su 24). Si è persa il secondo anno di università!
Per cercare di portarsi avanti ha chiesto alla segreteria di Pavia se poteva frequentare i corsi singoli di IEA: due mesi di si/no/si/no, alla fine NO!
E pensare che si parla tanto del diritto allo studio!
Ora ha cambiato completamente indirizzo, ma le è rimasto comunque l’amaro in bocca per non poter frequentare il corso che sentiva più suo.
La scuola perciò va cambiata NON SOLO dal punto di vista della preparazione e salario degli insegnanti, ma in tutto il suo complesso, compreso l’aggiornamento del personale non docente, e possibilmente facendo leggi più “compatte” che tutti possano apprendere senza dover leggere centinaia di pagine di leggi, leggine, statuti e regolamenti vari, ma soprattutto leggi che durino nel tempo in modo da non creare sempre più incertezza sia tra gli studenti che tra il personale scolastico.
Caterina Barcellona
Analisi ineccepibile, su cui concordo al cento per cento. Certo, rimane problematico formulare proposte alternative, perché qualsiasi ipotesi per quanto in sé ineccepibile si scontrerebbe con i condizionamenti oggettivi (soldi soldi soldi soldi). Ma almeno si potrebbe chiedere (lottare veramente per impedire) di non aggravare la situazione. Il sistema di valutazione interna, legato alle abilità di marketing e di autopromozione è una follia pura e semplice (una mia amica e collega mi faceva notare che il semplice fatto che bisognerebbe studiare per affrontare in maniera degna un argomento, studiare per preparare una lezione, leggere e leggere tanto per aggiornarsi sul dibattito critico e sullo stato degli studi non viene minimamente preso in considerazione, mai: ma tutto questo non è quantificabile, è demandato esclusivamente alla coscienza individuale, come dice bene Claudio. L’insegnante non studia, non legge, semplicemente trasmette, gli basta un buon manuale da seguire in classe o ancora meglio, è più ganzo, una lavagna interattiva). L’assunzione indiscriminata è una follia, così come lo è stato la creazione stessa di un precariato dalle dimensioni così abnormi. Tra parentesi: va bene insistere sulla competenza disciplinare nella formazione, ma io non sottovaluterei altri aspetti (a un minimo test psicologico-attitudinale la metà degli insegnanti risulterebbero inadeguati a rapportarsi con una classe). In sintesi: per quanto gli elementi di contorno possano essere di per sé apprezzabili, se i punti centrali – come rileva Claudio – fanno acqua da tutte le parti, cioè formazione, reclutamento e remunerazione, perché procedere? Preferirei di gran lunga tenermi il male che c’è. Almeno, lo conosco. E non ho alcuna intenzione di autopromuovermi per rientrare tra gli eletti per 70 euro al mese. Ne faccio a meno, grazie.
Non capisco perchè si avanzino sospetti sulla preparazione o capacità dei docenti precari da immettere eventualmente in ruolo poichè da anni, per mantenersi in posizione vantaggiosa nella graduatoria definitiva gli stessi devono fare continui corsi di preparazione, devono comunque aver avuto una abilitazione post laurea (laurea in genere di ben quattro o più anni e non di tre) spesso con dottorati e specializzazioni, molti con seconda laurea per accedere ad altre graduatorie. Docenti che affrontano ogni anno una scuola e dunque classi diverse, sempre a misurarsi e a rilanciarsi, tartassati da viaggi pazzeschi per raggiungere sedi improbabili, senza ferie pagate perchè ad agosto sono disoccupati…eccetera…ohè ma a chi cede la coscienza? probabilmente a chi non ne ha mai avuta…
“Intanto, l’assunzione in ruolo di 150.000 precari è una buona notizia per i 150.000 precari, ma una notizia ferale per gli altri cittadini: perché non sappiamo nulla della qualità di questi precari: la battaglia per il merito comincia cioè con una gigantesca immissione di persone il cui merito, in molti casi, non è mai stato verificato.”
Peccato li abbiano presi da una graduatoria di merito. I 150mila sono quasi tutti sissini, cioè hanno fatto un concorso per entrare alla SSIS, hanno fatto due anni di studi più di tutti gli altri che sono entrati per concorso ordinario, poi hanno fatto un esame finale spesso abbastanza pesante, e sulla base dei risultati dell’esame finale hanno ricevuto un certo punteggio per entrare in una graduatoria di merito e sperare in una supplenza. Più merito di questo… Sarebbe bene che questo fosse riconosciuto da tutti.
Effetto pubblicità, si chiama. Poiché tutti i detersivi, di default, lavano, per farti comprare il mio mi devo inventare la forza superpulente e le molecole che aggrediscono lo sporco come tanti soldatini. E devo presentare tutto questo in modo efficace, così che sia visibile. Essere non visibili equivale a essere morti.
Distratti da mille cose, iniziamo a guardare davvero solo se qualcuno ci ripete insistentemente di farlo; continuiamo a guardare solo se qualche bella apparenza, messa lì apposta, ci ha attratto.
A scuola, la cultura (dei docenti, che i docenti mettono nella lezione, ecc…) è il fatto che il detersivo lavi. Messi in concorrenza, scuole e insegnanti, dovranno inventarsi le loro forze superpulenti e le loro molecole-soldatino. (Con la precisazione che il pubblicitario è pagato per spaccarsi la testa su queste cose, noi dovremmo occuparci d’altro e avere la serenità d’animo per occuparcene – oibò, quanto sono pretenziosi questi insegnanti e che parole demodé usano! -).
Non è una distorsione del sistema competitivo del marketing, è la SUA STESSA NATURA.
Visto che la politica ormai funziona così, la comunicazione mediatica funziona così, Papa Francesco comunica così, mi chiedo: ma chi siamo noi nella scuola per pretendere di essere diversi?
Condivido, condivido. Postillo con un’osservazione. Mi sono formato a Lettere come studente, dottorando, tieffino, lavoratore a cottimo a vario titolo. Per quanto riguarda il nodo del biennio specializzante e della formazione pedagogica e didattica: la parte di scienze dell’educazione del TFA ha dimostrato come – in diversi casi in diversi atenei – il livello scientifico o, comunque, il momento didattico delle discipline ad essa legata conti momenti di puro imbarazzo (contenutistico, epistemologico, formativo a tutto tondo). Si ripropone, e lo sdoppierò poco più sotto, il solito problema: vogliamo “insegnare a insegnare”, ma siamo sicuri che vogliamo appaltare a certe scuole pedagogiche, o a certi ricercatori, la formazione di chi dovrà formare a sua volta?
Per quanto riguarda la speranza che i cattivi aspiranti insegnanti (cui sono pronto a farmi ascrivere) vengano bloccati da un percorso di formazione per l’insegnamento: questo può avvenire solo a patto che riconsideriamo tutti i livelli di istruzione superiore, e in primis proprio l’università. Nelle facoltà di lettere insegna, viene promossa, si laurea con il massimo dei voti, fa dottorati, si abilita un numero straordinario di persone che non è che proprio possa essere presa come emblema di selezione delle competenze e delle conoscenze (per non parlare poi di spicciole abilità di interazione col prossimo: di sociopatici dietro alle cattedre sono piene le aule). La formazione universitaria è parte del problema della formazione scolastica.
Anche perché – facendo psicologia spicciola forse – nei formatori delle aree umanistiche spesso si accende un perverso senso di colpa: davanti alle pessime aspettative lavorative e alla diffusa nebulosa di sfiga che viene dipinta intorno ai laureati, la reazione è lassista e paternalista, come per compensare una situazione di cui ci si sente responsabili, e – naturalmente – rinviarla a successivi ed altrui livelli di giudizio. La mediocrità della formazione universitaria in molti casi genera, deresponsabilizzandosi e autoassolvendosi al tempo stesso, ulteriore mediocrità.
Veramente non si avanzano sospetti sui precari in quanto precari, ma sul meccanismo in sé. Io stessa ho detto chiaramente che più della metà dei docenti attualmente IN RUOLO andrebbero spostati ad altra mansione (e conosco docenti straordinari che da anni aspettano vanamente di entrare nella scuola arrancando come possono, tra minisupplenze di quindici giorni, scuola privata e chissà cos’altro).Però la reazione è significativa delle spaccature che esistono nella categoria. spaccature su cui la ‘buona scuola’ lavora abilmente, sia su quelle presenti (tra precari e docenti di ruolo e all’interno dei precari tra una miriade di sottocategorie), sia su quelle future (tra eletti e non), E come sempre ci venderemo per un piatto di lenticchie.
Un dato personale, senza naturalmente alcuna rilevanza statistica.
Tra i miei insegnanti dell’ultimo anno di liceo (poco meno di 20 anni fa), ne ho avuti di eccezionalmente bravi (1), bravi (2), presentabili (1) e impresentabili (2). Gli insegnanti delle ultime due categorie erano quelli responsabili di quasi tutte le attività extra-curricolari.
I bravi e bravissimi invece facevano lezione e interrogavano. E durante l’immancabile auto-gestione, non partecipavano alle lezioni di giardinaggio o di educazione sessuale organizzate dagli studenti, ma restavano in sala professori (se riuscivano a entrare), probabilmente a parlare dei fatti loro.
Un piano pietoso e approssimativo, un progetto superficiale , che non tiene conto della formazione culturale dei giovani, e di quella psicologica.
Ma non c’è nessun altro recensore, articolista, che sappia scrivere articoli non a favore di Renzi?. Mi sembra che la redazione sia renziana, non i commenti, che molte volte sono migliori degli articoli. Possiamo avere altri articoli che non siano di Piras?. Non vorrei trovami sempre elogi di Renzi. La mia opinione su Renzi è in calce all’ultimo articolo elogiativo di Renzi? Si può avere un altro che scriva di Renzi per iniziare anche un dibattito serio sulla Sinistra non nostalgica, e per progetti diversi? Si può fare o siete tutti renziani.
Io amo molto questo blog, per recensioni letterarie e filmiche. Per la Brogi e Mozzi e le recensioni sui libri anche internazionali, per la cultura, ma per la politica NO.
Vorrei invitare tutti a dibattere su questo blog sui vari progetti politici. Purchè non venga introdotto dai soliti cortigiani, ammalati di pigrizia intellettuale,: Grazie, ma per imbottirmi di spiegazioni sull’operato di Renzi c’è già la TV it , e Sky.