di Giacomo Raccis
[Laurent Mauvignier è uno degli scrittori più interessanti nell’attuale panorama della letteratura francese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia, I passanti (uscito per Del Vecchio), racconta la storia di una violenza su una donna. In occasione della giornata nazionale contro le violenze sulle donne, ho intervistato l’autore, il quale in tutti i suoi romanzi – da Degli uomini (Feltrinelli 2010) a Lontano da loro (Zandonai 2012), da Storia di un oblio (Feltrinelli 2009) a Dans la foule (2006, non ancora tradotto in Italia) – affronta da diverse prospettive la questione della violenza e del trauma (G. Raccis)]
I suoi romanzi affrontano sempre la questione del “male”, che può assumere forme diverse: quella della violenza omicida o sessuale, quella dell’autodistruzione suicida, quella dell’indifferenza o dell’odio. Lei racconta situazioni estreme, ma senza esasperare i toni: utilizza infatti le parole in maniera chirurgica, per penetrare il male, per mostrarne la carne viva, ma anche per addomesticarlo per renderlo dicibile. Perché, per parlare dell’uomo bisogna parlare del male di cui è capace? L’impressione, inoltre, è che resti sempre un nodo oscuro che non si può tradurre in parole…
Io scrivo sempre di qualcosa, un nodo oscuro, in effetti, che non può essere ridotto alle parole, e che queste cercano di individuare. Non so se questo si chiami il “male”. Si tratta piuttosto di qualcosa al tempo stesso più concreto e misterioso. Io cerco di parlare di qualcosa di indefinibile, che spinge gli uomini e le donne a uscire da se stessi; qualcosa che appartiene all’ordine delle pulsioni, del desiderio di uscire di sé, di scappare da sé. Tutti i miei personaggi hanno in comune il fatto di dover confrontare i loro sogni, i loro fantasmi, i loro desideri, con una realtà spesso brutale, prosaica. In altre parole, esiste un “muro del reale” contro il quale sogni e desideri si schiantano. Senz’altro, in alcuni casi, l’impossibilità di vivere la vita sognata produce nei personaggi la tentazione della violenza, per infrangere questa impossibilità.
Si sente di far parte di quella schiera di scrittori francesi – tra i quali ci sono Emmanuel Carrère, Laurent Binet, ma anche, sul versante autobiografico, Philip Forest – che s’interrogano sulla sostanza e sulla rappresentabilità del male? Crede che questa coincidenza di percorsi sia un sintomo di un bisogno di dare senso all’assurdo che ci circonda?
Non lo so. È vero che il lavoro dello scrittore, anche se non consiste necessariamente nel tentare di dare un senso all’assurdo, consiste nel cercare di osservare, di formulare ciò che non si comprende. È vero che molti scrittori francesi sono sensibili a questo genere di questioni, ma credo che non sia un fatto specificamente francese.
Il suo nuovo romanzo, Autour du monde, è appena uscito in Francia (Editions de Minuit): si racconta, attraverso dei personaggi molto distanti l’uno dall’altro, lo tsunami che ha sconvolto il Giappone nel 2011, cioè, come già in Dans la foule, una tragedia “globalizzata”, un fatto di cronaca che ambisce a diventare storia. Questo romanzo prosegue il suo progetto di esplorazione dei meandri della psiche umana di fronte allo shock del reale, al trauma della violenza e del destino?
È un libro un po’ diverso dagli altri. Si tratta sempre di esplorare la psiche umana, ma prima ancora di misurare come l’intimità e l’individuo esistono all’epoca della mondializzazione. Dappertutto, nel mondo, nello stesso momento, si sente lo stesso racconto: in questo caso, l’arrivo dello tsunami. Dappertutto, nel mondo, però, si continua a viaggiare, a fare i turisti, ostinandosi a vivere i propri sogni di cartapesta. Ma dietro l’illusione del viaggio ci sono delle faglie: collettive, mondiali (come lo tsunami) e individuali (ogni viaggiatore con la sua storia, il suo passato, i suoi problemi)…
La guerra d’Algeria o la tragedia privata di un figlio che si suicida; il dramma collettivo dell’Heysel o la violenza su una donna, come nei Passanti: lei affronta la “questione umana” a tutti i livelli, ricorrendo a formule narrative diverse, ma alla fine molto coerenti. Come scegli i soggetti per i suoi romanzi?
Ogni libro nasce in maniera diversa. Alla base ci sono delle idee, senz’altro, ma un libro nasce da una scena, da una frase, da una parola, talvolta da un’immagine. io ho bisogno di scriverla perché mi si riveli veramente l’oggetto. Il senso e la direzione del libro si mostrano con la scrittura, altrimenti, perché si dovrebbe scrivere? La coerenza nasce dal fatto di non avere un programma prestabilito. I libri nascono quando vogliono, come vogliono. Per me, spesso, all’inizio c’è l’incontro tra un personaggio e una situazione iniziale, che sono all’origine del libro. Io scrivo tutte le mattine, e il resto del tempo lo passo a cercare di capire dove vado, di cosa parla il libro, dove sta andando, perché prende una direzione e non un’altra. Ed è là che intervengo. Ma non ho mai scritto un libro di cui possa dire: “il soggetto di questo romanzo è questo o quello”. Ogni volta è molto più complesso di così. Come se il “soggetto” non fosse altro che un punto di partenza. Io non scrivo della guerra d’Algeria o dell’Heysel, ma “a partire da” un fatto storico o di cronaca. Poco importa: per me , ciò che conta, è che i soggetti aprano la porta a qualcosa di più vasto di loro, e che non lo si possa riassumere.
Lei attribuisce sempre un ruolo importante ai personaggi femminili dei suoi romanzi: per caso questo è il frutto di una maggiore fiducia che nutre in loro?
Nei Passanti la protagonista che subisce la violenza si esibisce in un monologo che esprime la sua sofferenza, ma mostra anche l’invidia e l’odio prodotti in lei dalla solitudine. I margini tra colpa e sofferenza, a questo livello, si fanno ambigui: secondo lei, le donne incarnano meglio degli uomini questo nodo contraddittorio che fa di ogni vittima anche un carnefice?
Mi sono sempre sentito più a mio agio, più in sintonia, più vicino ai personaggi femminili. In realtà non so perché, ma ho sempre l’impressione di comprenderne meglio le motivazioni, la sensibilità. Io credo che essere un uomo rappresenti un impedimento per scrivere degli uomini. Con le donne mi sento più libero di descrivere le emozioni, di farmi coinvolgere di profondamente, come se, con questa “deviazione”, avessi l’impressione di liberarmi di me stesso. È come se, scrivere dei monologhi di donne, fosse un modo per evitare il rischio che mi si veda dietro i miei personaggi. e poi, mi sento senz’altro più vicino alle donne poiché, nella loro vita, sono sempre in lotta, per vivere, per avere il diritto a un riconoscimento che gli uomini negano loro. Una donna deve affermarsi maggiormente, in un mondo che resta dominato dagli uomini. In questo senso, le donne restano più emblematiche, per me, di quello che tutti i miei personaggi cercano.
Per raccontare le tragedie dell’uomo, lei ricorre sempre a una strategia di “messa in voce” che serve ad abbattere le mediazioni narrative per fare parlare i pensieri, o anche i gesti, dei personaggi. Questa tecnica, mirata a riprodurre il flusso orale o mentale del discorso, le permette di penetrare fino alla dimensione minima degli eventi: come riuscite a fare convivere una tecnica letteraria tanto elaborata – secondo il paradosso céliniano dell’oralità dello scritto – e la ricerca della spontaneità o della verità della parola irriflessa? La realtà risiede nella pluralità di monologhi che possono raccontare la stessa cosa?
Alla fine, si ritorna a quanto detto nella prima domanda, quella sul nodo oscuro attorno al quale tutto gira. Il monologo è una forma che è innanzitutto, per me, una questione di messa in movimento là dove la frase accoglie in una grande spirale i fatti, le situazioni, gli esseri e i movimenti psichici, il pensiero, le percezioni. Tutto viene abbracciato nello stesso prisma, ma questo tutto è mostrato per ciò che è: una realtà soggettiva, parcellare, un movimento che non dura che il tempo di pensarsi. Infatti, quel che amo della scrittura, è come sia essa stessa il vero evento di un libro. Tutto ciò che si racconta è attraversato dalla scrittura. In Autour du monde, non ci sono monologhi. Tuttavia, ho cercato di trovare la stessa velocità, come se ogni racconto fosse attraversato da un flusso, un’energia, un solo movimento: come una freccia che attraversa tutti i corpi e i racconta e li tiene insieme. O, se si vuole, come il filo di una collana di perle. I monologhi, le voci, la scrittura possono essere condotti da narratori diversi: ma questa è innanzitutto il luogo che attraversa un maniera dinamica, tesa, proiettata direi, le storie e i personaggi.
Quali sono i suoi modelli per questo tipo di scrittura? Per quel che riguarda la tradizione francese, si parla sempre di una particolare linea del nouveau roman, Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras… C’è qualcun altro? Al di fuori della Francia?
C’è senz’altro un’influenza reale del nouveau roman sul mio lavoro. Ma vi si ricorre molto anche per pigrizia, devo dirlo, solo perché sono pubblicato dallo stesso editore di Beckett, di Duras e perché da Minuit esiste una forte tradizione al tempo stesso del monologo (Koltès, per esempio) e di un grande scrupolo di rimessa in questione delle forme. Ma molti scrittori della mia generazione possono rivendicarlo, senza per questo entrare da Minuit. Io devo dire che oggi mi sento in dialogo e scambio più con libri e con autori stranieri viventi. Ho sempre avuto una grande passione per Thomas Bernhard, ad esempio, E una grande ammirazione per il teatro di Edward Bond. Autour du monde, per restare al mio libro più recente, è nato dalla lettura di nu libro che si intitola Lignes (in francese), del giapponese Murakami Ryû. Ci sono più influenze dal romanzo americano contemporaneo – come quelli di Stephen Wright, Dan Chaon, Joyce Carol Oates, Jonathan Franzen, Nicole Krauss – che da quello francese, anche se, certo, ci sono autori francesi che si riconoscono nei miei libri; e degli scrittori molto contemporanei. Questa linea francese di cui si parla, io la amo molto, ma preferirei che universitari, ricercatori e giornalisti cercassero anche di vedere come, per scrivere, gli autori interroghino anche dei libri di oggi, che pongono la questione di cosa può fare oggi la letteratura. Ad esempio, quando, come nel mio caso, si è rimasti davvero impressionati da Faulkner e Kafka, ci si interessa a quegli autori che oggi lavorano lungo quel sentieri: come McCarthy e Coetzee. È una dimensione molto importante, il presente della letteratura. Si parla troppo di letteratura come una conseguenza, come una somma di influenze, e non abbastanza del suo presente, della sua vitalità.
Lei ha una formazione di artista plastico: per caso questa capacità manuale ha influenzato il suo lavoro letterario? Sono questi due modi paragonabili di modellare una materia dura e resistente?
Le arti plastiche hanno influenzato notevolmente il mio lavoro, questo è sicuro. Quando ero studente, mi sono molto interessato alle avanguardie. È attraverso di loro che ho compreso come la scrittura avesse una dimensione più plastica, che si trattasse di un materiale da rendere innanzitutto attivo, vivo, come un organismo, con una struttura e una dinamica, prima ancora di cercare di voler “dire qualcosa”.
In una vecchia intervista, lei aveva parlato della sua tecnica di raccontare avvenimenti che non ha vissuto in prima persona come dell’«esperienza del sole»: a suo tempo avevo trovato molto efficace questa metafora, che vale senz’altro per gli eventi della storia o per i grandi fatti di cronaca che delineano un mondo di cui tutti noi facciamo parte. Ma la metafora può valere anche per i piccoli fatti della vita quotidiana? O forse, a quel livello, l’autore deve fare ricorso a un’esperienza sensibile diretta per identificarsi nei propri personaggi?
L’«esperienza del sole» è un’esperienza diretta e sensibile, ed è quotidiana, condivisibile da tutti, e anche da me, ovviamente. Io cerco di non scrivere partendo da teorie, da generalizzazioni; cerco di non sapere prima di iniziare a scrivere, ma di prendere le cose alla base. La percezione, la sensazione, le impressioni. Io cerco di lottare contro questa patologia degli autori che consiste nel credere che, visto che dispongono delle parole, allora le parole dovrebbero riuscire a nominare le cose. No, la parole non possono nulla. Bisogna dunque riprendere sempre, fin dall’inizio, e descrivere tutto attraverso le sensazioni, le percezioni. Ad esempio, in La camera bianca (Apprendre à finir) la parola «ospedale» dà un’informazione, ma non serve a niente. Ciò che serve, per avvicinarcisi di più, è descrivere l’odore, ciò che si prova entrando in un ospedale, le sensazioni, che sono la realtà di questa esperienza, mentre la parola “ospedale” non ne è che la traduzione, povera, semplicemente informativa.
Ho l’impressione che i suoi romanzi si mettano in concorrenza con gli altri media narrativi, è forse così? Il discorso storiografico in Degli uomini; la storiografia, ancora, o la cronaca raccontata da televisione e giornali per Dans la foule o Storia di un oblio; ancora, i piccolissimi fatti relegati a una colonna laterale in ventesima pagina per Lontano da loro o I passanti. Qual è la responsabilità della letteratura di fronte a questi discorsi?
Non direi che i miei libri si mettono “in concorrenza”. Piuttosto, ho l’impressione che si nutrano e si servano di tutti gli altri modi di affrontare il reale: la storia, la cronaca, il giornalismo. Ma la letteratura ha una possibilità: può prendersi il tempo di dispiegare tutto ciò che, nei discorsi abituali, resta nell’ombra. I romanzi si concedono il tempo di osservare, analizzare, far vivere ciò che rimane nascosto. La letteratura sostituisce le statistiche con degli essere concreti, le realtà solo sfiorate da situazioni che il lettore può provare. In questo senso, la letteratura è là per risvegliare, per colpire la mente dei lettori dicendo loro, attenzione, ciò che succede nel mondo, non è un racconto, è una verità che tocca delle persone in carne e ossa. E il paradosso, è che è la finzione, oggi, ad avere il potere di dire meglio la realtà.
(Traduzione di Giacomo Raccis)
[Immagine: Jörg Sasse, Untitled March 2004 (gm)].