di Paolo Godani
L’uso dei corpi (Neri Pozza 2014) di Giorgio Agamben si presenta, fin dal risvolto di copertina, come il testo che conclude il progetto Homo sacer, iniziato nel 1995. In realtà, come spiega l’Avvertenza, “coloro che hanno letto e compreso le parti precedenti di quest’opera sapranno che non devono aspettarsi né un nuovo inizio, né tantomeno una conclusione”, dato che si tratta di una ricerca che, “come ogni opera di poesia e di pensiero, non può essere conclusa, ma solo abbandonata (e, eventualmente, continuata da altri)” (p. 9).
Cercando di gettare uno sguardo sullo svolgimento del progetto Homo sacer a partire da questa sua ultima parte, la prima sensazione che si ha è quella di un progressivo adeguarsi dei modi del pensiero e della scrittura ai concetti fondamentali che si sono via via prodotti e precisati, e in particolare a quello che appare ormai come il suo concetto fondamentale, l’inoperosità. Non è un caso che Agamben tenga a descrivere il suo lavoro ventennale non solo e non tanto nei termini di un’opera, ma anche e soprattutto in quelli di un progetto e di una ricerca. Del resto, il capitolo d’apertura del volume di cui stiamo parlando s’intitola, sintomaticamente, L’uomo senz’opera. Si potrebbe forse affermare che la scrittura di Agamben, come il suo modo di costruire il processo del pensiero, cerchi con costanza di schivare il suo divenire opera, ovvero – per usare un altro suo termine decisivo – che ci troviamo di fronte ad un’opera costantemente impegnata a disattivarsi in quanto opera. Non si tratta soltanto di evitare i ben noti rischi dell’irrigidimento sistematico e di una ripetizione di sé che produce testi come “canzoni da organetto”, né, d’altra parte, di ipostatizzare il paradossale simulacro di un’assenza d’opera, bensì di far coincidere l’opera con la molteplicità delle vie che conducono ad essa e che da essa di nuovo si dipartono.
Acquietare il pensiero nel suo stesso esercizio, anziché nell’opera come suo effetto, come prodotto di cui il pensiero sarebbe la causa esterna, è ciò che, in fondo, suggerisce la stessa idea della filosofia come archeologia. Quest’ultima non consiste nel recupero di un’origine capace di dare nuova linfa al pensiero attuale, come se, per liberare il pensiero dalle cristallizzazioni acquisite, fosse necessario attingere sempre di nuovo ad una mitica fonte del pensiero. Nonostante la presenza significativa di Plotino nell’Uso dei corpi, l’archeologia di Agamben non condivide una certa logica neoplatonica che separa la nobile energia di una potenza costituente dalla sua decadenza in potere costituito. L’archeologia, semmai, consiste proprio nella neutralizzazione di questa stessa opposizione. La pratica archeologica è un pensare nel frammezzo, tra il costituente e il costituito, un pensare che fa di questa “zona non-giurisdizionale” (per dirlo con un poeta caro ad Agamben) il solo luogo del pensare. Disattivare l’effetto d’opera non significa dissolvere l’ergon nella fonte (o nel magma) di una archè, ma produrla come immagine di un evento in continua variazione.
Lo stesso che si è appena detto per il pensiero vale anche, letteralmente, per la vita: acquietare la vita nel suo stesso esercizio, anziché nell’opera come prodotto di cui la vita sarebbe la causa esterna o il sostrato, è la prima e unica regola di questa sorta di archeologia della vita beata.
L’uso dei corpi si apre, in maniera sorprendente, con un Prologo dedicato all’importanza dell’elemento della vita privata in Guy Debord. Il modo in cui Agamben affronta la questione è, almeno in parte, anch’esso biografico (Debord viene chiamato per nome, e si raccontano episodi vissuti: “una sera, a Parigi, Alice, quando le dissi…”, p. 14), perché la questione che si pone qui, e forse in tutto il testo, è quella della relazione tra la natura non solo empirica, ma ottusa degli avvenimenti che cadenzano i nostri giorni e compongono le nostre biografie, e il fatto che proprio in essi insista un elemento d’altro genere, non idiosincratico o personale ma comune, non viscoso ma trasparente, quasi aereo. Anzi, la questione è forse che proprio quello stesso elemento, che talvolta ci appare come un che di ottuso, ha il carattere di un’atmosfera impersonale che basta a sé stessa e che costituisce il nostro respiro comune.
Verso la fine del libro, questo tema torna a risuonare nella domanda “come descrivere una forma-di-vita?”. Agamben, qui, si riferisce all’inizio delle Vite parallele, in cui Plutarco “evoca un eidos che il biografo deve saper cogliere al di là della farragine degli eventi” (p. 291). Nel pensiero occidentale, spiega poco dopo Agamben, il problema della forma-di-vita, cioè di una vita inseparabile dalla sua forma, di una vita che è tale solo nei modi in cui si esprime, è emerso come problema etico, concernente il modo di vita di un singolo o di un gruppo, o come problema estetico, concernente lo stile con cui l’autore segna la sua opera (cfr. p. 296). Etica o estetica che sia, ogni vita è la sua forma e il suo stile.
Quanto dicevamo all’inizio, circa l’adeguarsi progressivo della scrittura e del pensiero ai concetti prodotti nel susseguirsi dei testi che costituiscono Homo sacer, si spiega ora nei termini di un’opera che non è il prodotto del pensare di un individuo, bensì la forma o lo stile di una vita. È come se la pratica del pensiero consistesse nell’indeterminazione progressiva dei termini che la costituiscono, il pensatore e l’opera, per far emergere lo stile, la forma-di-vita come loro tratto comune. Lo stile, la forma o il modo di vita è il come della vita, dunque una sua determinazione, ma una determinazione al di fuori della quale non si dà vita alcuna. Solo che, d’altra parte, questa determinazione non può essere intesa al modo di un come separato dal suo che cosa, come una forma realmente distinta dalla sua “materia”.
Questo, però, significa che l’ottusità che tendiamo ad attribuire ai fatti minimi delle nostre esistenze empiriche, magari per opporla alla nobiltà di certi momenti o di certe esperienze sublimi, non è tale se non ad uno sguardo che pretenda di ridurre la forma-di-vita a mera vita senza forma. Ogni elemento costitutivo di una vita è sintomo o istanza delle sue forme. Questo significa, cioè, che le nostre vite non sono mai costituite da fatti bruti, e che anche la quotidianità più banale è popolata di tratti stilistici, forme, eida. Così, le nostre vite non solo non sono, ma non potrebbero essere idiosincratiche, perché sono già sempre, fin dall’inizio e in tutta la loro estensione, costituite da una molteplicità di vie, stili, modi, che esprimono una natura comune.
La tesi fondamentale che viene sviluppata nella prima parte del testo è che “il sé non è altro che uso di sé” (p. 84), ovvero “occorre che il sé si sia prima costituito nell’uso fuori da ogni sostanzialità perché qualcosa come un soggetto – un’ipostasi – possa dire: io sono, io posso, io devo” (p. 86). Questo uso che precede e costituisce il sé è, innanzitutto, un uso del corpo. Qui Agamben si confronta in maniera esplicita con la tradizione che anche Michel Foucault aveva indagato nei primi Anni Ottanta, e specialmente nel corso al Collège de France dedicato a L’herméneutique du sujet. Ma non lo fa per mettere in luce la portata liberatoria delle pratiche di sé nella costituzione della soggettività; non si tratta, come accade in Foucault, di dimostrare che la soggettività non è solo l’effetto di certi dispositivi, di una determinata applicazione del potere, ma anche libero rapporto di sé con sé, dunque costituzione di una soggettività autonoma rispetto alle regole della morale e ai comandi del potere. Ma si tratta di pensare “la possibilità di una relazione con sé e di una forma di vita che non assumano mai la figura di un soggetto libero; cioè, se le relazioni di potere rimandano necessariamente a un soggetto, di una zona dell’etica del tutto sottratta ai rapporti strategici, di un Ingovernabile che si situa al di là tanto degli stati di dominio che delle relazioni di potere” (p. 148).
Uno dei punti più delicati di questo tentativo risiede appunto nella revoca del soggetto libero come fondamento e scopo di ogni pratica di liberazione. La ragione di questa revoca è che il soggetto libero, il soggetto capace di governare sé stesso (di limitare i propri desideri, di resistere agli istinti e di darsi da sé una regola di vita) si costituisce, innanzitutto, come “sovrano sul proprio corpo” (p. 129), e la sovranità sul corpo implica – per dirlo in breve – la separazione di quest’ultimo come nuda vita. In altre parole, è come se le pratiche di sé volte a costituire il soggetto come soggetto libero e autonomo implicassero la stessa separazione (della vita dalla sua forma) che consente al potere bio-politico moderno di farsi carico della vita in quanto tale. Come il soggetto governa il proprio corpo riottoso, trattandolo alla stregua di una materia bisognosa di messa-in-forma, così il potere moderno tratta la vita informe degli individui, bisognosa della messa-in-forma statuale. Naturalmente, né il corpo degli individui né la vita delle comunità sono entità informi: il loro apparire come prive di forma non è altro che il contro-effetto del potere che si esercita su di loro. Per questo, se si intende sovvertire la logica della sovranità nella sua radice, è indispensabile neutralizzare tanto l’opposizione tra la vita e la sua forma quanto la separazione del soggetto dal suo corpo.
Al fondo, la vera novità di questo testo è il ritorno ad una riflessione di carattere ontologico-metafisico. Non che, ad esempio, la questione della relazione tra atto e potenza non sia sempre stata al centro del pensiero di Agamben. Ma qui emergono in primo piano i problemi fondamentali dell’ontologia classica, e in particolare il problema dell’individuazione e quello dell’opposizione tra sostanza e attributi. Contro il privilegio che Aristotele, soprattutto quello delle Categorie, attribuisce all’individuo particolare come sostanza prima, si tratta di affermare l’impossibilità di separare il sostrato dalle “sue” proprietà – perché sta qui la radice della separazione della nuda vita dalla sua forma. C’è da chiedersi se la continuazione di questa archeologia della metafisica non debba condurre ad una messa in questione, innanzitutto, lo statuto dell’individualità in sé stessa.
Potrà stupirsi, infine, chi non ha letto o compreso le parti precedenti di quest’opera, che Agamben affermi in maniera quantomai decisa che tutto questo (e molto altro di quanto si trova nell’Uso dei corpi) non sia semplicemente “materiale preparatorio” per una politica. Una politica che non abbia colto alla radice quale sia il dispositivo etico-ontologico costitutivo del potere o del bio-potere moderno non solo non avrà alcuno strumento in grado di incidere effettivamente sui processi reali, ma riprodurrà sempre di nuovo gli stessi dispositivi da cui pretenderebbe di liberarsi.
[Immagine: Pablo Zuleta Zahr (gm)].
Gran libro conclusivo e ottimo pezzo dispiegativi