di Francesca Matteoni
[Pubblichiamo un estratto del primo romanzo di Francesca Matteoni, Tutti gli altri, che è da poco uscito per Tunué, nella collana “romanzi” diretta da Vanni Santoni (im)].
Pinocchio
Nei giorni di festa io e i cugini dormivamo insieme nel letto della casa in montagna. Elisa da una parte, io dall’altra e Matteo, il più piccolo, nel mezzo. Io raccontavo le storie e restavamo svegli fino all’ora in cui i campi, là fuori, di sotto, si riempivano di spiriti.
Era un sabato della seconda elementare ed Elisa non voleva saperne di prendere sonno.
“Dai, ancora una.”
“Non ne ho più.”
“Inventala! Una che sai tu.”
“No.”
“Poi non te ne chiedo altre.”
“Inventatela da sola.”
“Non mi riesce…”
Tirai un sospiro:
“Va bene. È in un libro. Fa paura…” dissi, e mi voltai per vedere il suo viso nell’oscurità, ma c’erano solo i respiri e l’attesa, mentre Matteo già dormiva. “È la storia di un burattino. Questo burattino,” cominciai, “ vorrebbe diventare una persona in carne e ossa, ma non sta a sentire né il babbo né la Bambina dai Capelli Turchini. Scappa, vende l’abbecedario e per di più è pure un gran bischero: quando si ritrova in tasca cinque monete d’oro, va in cerca di un campo miracoloso dove seppellirle perché ne cresca un albero pieno, come gli hanno suggerito due imbroglioni. Ed è così che alla fine incontra gli assassini. Proprio in quel campo, nel buio pesto che non si riconosce niente, non si sente nessuno, tranne le civette che non smettono mai di gridare.”
“E cosa gli fanno?”
“Lo impiccano.”
“Dove?”
Sbuffai. “A un ramo di quercia.”
“E tutto questo solo perché era stato disubbidiente?”
“Sì, anzi, no. Ti ho mentito. È vero che lo impiccano, ma lui non è cattivo, è il mondo che va sempre al contrario.”
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire che ora è notte e si deve stare a occhi chiusi.”
“Ma se lui muore cosa possiamo fare?”
“Niente. Aspettare e dormire. Dormi, ora. Dormiamo tutti.”
Medusa
I morti, non te li fanno vedere. Da bambino conosci solo le lapidi e le fotografie del cimitero, non sai cosa succede ai corpi, sei come la protagonista della fiaba che non deve infrangere il silenzio mentre si ferisce le mani tessendo con l’ortica. Pensi che la morte c’è, da qualche parte, una possibilità, un caso accidentale. Qualcosa di molto distante, come le nuvole che a pancia in su guardi sfaldarsi e ritornare, gigantesche e sfilacciate, poi più nulla di loro, nemmeno il vapore, solo il vuoto attorno. Con gli animali è diverso. Se ne stanno ovunque, lasciano tracce di cui nessuno si cura; gli orbettini massacrati con un sasso, i passerotti uccisi dai gatti, le lucertole senza coda, lo sterminio degli insetti.
“Cos’hai fatto?”, mi disse tutto costernato il bambino che stava giocando con me, un pomeriggio di primavera. Eravamo sul marmo dei gradini davanti al mio portone.
“Io? Niente, perché?”
“Ma l’hai ucciso!”
“Ucciso chi?”
“Il formicone! Ti ci sei seduta sopra. Era pure bello grosso.”
“Mica lo avevo visto. Poveraccio e ora che si fa?”
“Si seppellisce”.
“E si dicono le preghiere”.
“Buona idea!”
“Ma tu ce l’hai la lapide?”
“Prendiamo una di quelle mattonelle rotte. Quelle che ha buttato via tua nonna, quando ha rifatto il pavimento.”
“È vero, sono nel garage.”
Scegliemmo un pezzo triangolare di granito, scavammo una buca minuscola in giardino e vi gettammo dentro la microscopica carcassa. Ripetemmo formule inventate che secondo noi si adattavano all’estinto, seri e contriti per dieci minuti buoni. Poi spargemmo delle margherite.
“Così starà in pace,” dissi. “Non sarà uno di quei morti che ti odiano per sempre.”
La nostra pantomima fu un gioco fantastico, con i fiori minuscoli, noi concentrati come gli adulti, e il sole che riempiva l’erba e il quartiere. Non avevamo relazioni affettive con l’insetto, era il rito che contava. Mimare la disgrazia con crudele diligenza. La verità che entrava nel nostro gioco non comportava spargimento di sangue e visceri. Mettevamo la morte in una buca. Come una specie di ricerca.
Poi ci fu il giorno della medusa.
Ero a Follonica. Passati i girasoli, i campi giallo fiamma con le balle di fieno, lasciata l’autostrada per la statale, con i venditori di verdura e cocomero sotto le capannucce sbilenche coperte di tela cerata e il cartone da pacchi su cui erano segnati i prezzi al chilo, e gli asfodeli bruciati e i cavalli e i trattori tremolanti nell’aria come un miraggio da film nel deserto. Passata La California – “Mamma, quanto manca?” – , passato Baratti, un luogo dove immaginavo si fossero fermati i secoli e i marinai sbarcavano per scambiare oggetti preziosi con cibo e coperte, e ancora gli arbusti costieri spinati, superato tutto questo si arrivava all’altro mondo, dove i bambini vivono d’estate, mentre nell’inverno non c’è proprio nulla, tranne l’onda che si mangia la vernice delle barche e l’euforbia, una pianta pericolosissima, fatta tutta di forbici, così che nessuno le si avvicini.
La cosa più bella era per me la pineta dove passavo il pomeriggio con mia nonna quando veniva a trovarmi, e l’ascoltavo elogiare il fresco che faceva nel nord del pianeta, perfino d’estate. Il nord erano la casetta in Canadà e i laghi finlandesi, ma oltre a tutta quella brezza che piaceva a mia nonna io vedevo animali fantastici, fatti del legno e della nebbia dei boschi, animali che un giorno, mi dicevo, una vita a venire, avrei conosciuto davvero. Lei apriva il ventaglio e sospirava, poi mi invitava a leggerle qualcosa da uno dei libri che mi portavo sempre dietro. Sotto di noi, negli aghi di pino e poi nel mio prendisole da lei ricamato con fiori e lettere “F”, e su nelle ragnatele di luce fra i rami si tesseva una mappa straordinaria dei nostri piccoli sogni.
Mia nonna, in quella terra del mare, era la sapienza che esistevo da un’altra parte cui dovevo far ritorno, e forse in questo la sapienza che esistono altre vite in cui possiamo nasconderci; era la sorpresa di una radice che manda un segnale alla chioma. Per il resto del nostro soggiorno erano lo zio Cipriano e la zia Alberta a far le veci dei nonni. Abitavano in centro, lei aveva una voglia sul viso e non mi sgridava mai, lui odorava di Bar Commercio, da dove provenivano le sue sigarette e il Pinguino che mi comprava, le sere che passavamo a trovarlo di là, nel suo ufficio. La finestra della nostra stanza si apriva internamente sulla sala da pranzo e da lì si accedeva alla terrazza ricolma di piante, cosicché non vedevo niente di ciò che era fuori e me ne stavo immersa nella giungla. E nella giungla c’era una storia. Ogni giorno, salivo sulle ginocchia dello zio Cipriano e gli bisbigliavo: “Zio, raccontami la storia dei pesciolini colorati …”.
“Nel mare,” iniziava, “ci stanno i pesci. Pesci enormi che non vedi mai perché vivono lontano dove vanno solo le navi, pesci che si chiudono nelle conchiglie e hanno paura di tutto; il pesce palla e la stella marina che se la trovi sulla spiaggia vuol dire che è morta e puoi farla seccare e portartela a casa. E poi ci sono i pesciolini colorati. Quanti sono! Sono piccolissimi e sono verdi, rossi, gialli, celesti, arancioni, violetti… E quando nuotano fanno l’arcobaleno”.
“E dove vanno, zio?”.
“I pesciolini colorati sono attratti da una cosa sola. I pesciolini colorati vanno pazzi per i piedi dei bambini e appena un bambino entra in acqua corrono tutti verso di lui a mordergli le dita e a mangiarne qualche pezzettino!”
Forse speravo che qualche volta il finale cambiasse. Che i pesciolini ballassero a riva. Che i pesciolini costruissero una casa con la sabbia, sotto le onde. Che i pesciolini andassero lontano, dove il mare è blu profondo e ci vivono i pesci elettrici con la lanterna e prendessero la scossa e morissero, senza funerale perché non ci sono tombe nell’acqua. Ma il finale era sempre quello.
La mattina andavamo alla spiaggia e io non mi fidavo a fare il bagno. Mia madre mi guardava e diceva:
“I pesci dello zio Cipriano non esistono”.
“Sì, lo so, non ho mica paura, io! È che ora non mi va…”
Poi arrivava il mio amico Simone di Milano, che portava l’apparecchio per l’udito. Quando aveva tre anni, era caduto col triciclo e il freno gli si era conficcato nell’orecchio. Leggeva le frasi sulle labbra altrui, parlare era la parte più difficile: qualche volta urlava e le vocali gli uscivano larghe, spalancava la bocca come per prendere bolle d’aria, non sapendo bene dove finiva il suono e cominciava il respiro. Quando facevamo il bagno (perché alla fine mi convincevo) non portava l’apparecchio, ma dei tappi per non far entrare l’acqua che gli bruciava, e sembrava un robot, con quelle cose cilindriche, come antenne, che gli uscivano dalla testa.
Poi un giorno sulla riva trovammo una medusa morta. Sembrava un Crystal Ball gigantesco, un pezzo di lenzuolo, un fantasma di colla smangiucchiato dai pesci. Si riunirono tutti i bambini della spiaggia. Fu deciso di seppellirla, ma nessuno voleva toccarla e allora venne Spartaco, un uomo di Pescara uguale a Braccio di Ferro, che sapeva fare tutto, ci aiutava a mettere il fuoco nei vulcani e non mi prendeva in giro perché nuotavo con i braccioli. Spartaco non aveva moglie né figli suoi: era come se proteggesse tutti noi bambini, era un alleato e compagno di giochi. Venne a trovarmi perfino a Pistoia e io andavo in giro dicendo a tutti: “C’è il mio migliore amico dei grandi!”, sentendomi molto speciale.
Spartaco ci disse di cercare sassi, conchiglie, rametti dalla pineta. Mentre mi bisticciavo con Simone sulle decorazioni della tomba, arrivarono due bambini che non avevo mai visto, uno grosso e abbronzato, l’altro non più alto di me. “Ma come parli?”, gli dissero ridendo, “te devi essere spastico!”.
Simone abbassò gli occhi e non rispose. Anch’io restai zitta. Avrei potuto dire “non ci sente bene” oppure “pensa per te, cicciobomba,” ma invece me ne andai verso l’ombrellone, lasciandolo avvilito, lì sulla riva. Non chiesi aiuto agli adulti, nemmeno a Spartaco perché quella era una cosa che non potevano capire. Che io non sapevo spiegare. Volevo smettere di essere buona e picchiare quei due bambini. Volevo che piangessero fino a strozzarsi. Li odiavo. Un sentimento acuto di tristezza e impotenza che mi comprendeva come una macchia rossa, indelebile sul fondo piatto della sabbia. Mentre vivi che cosa sai. Riconosci appena che il mondo intorno a te non è te. Che gli altri non vedono come te e finché non muori la tua diversità è il corpo in cui t’inceppi. Simone per quei bambini assomigliava al matto della madonnina della mia città, che bestemmiava e pregava davanti alla statua che lui stesso aveva rotto a un angolo di strada, che non dovevi guardarlo in volto perché ti avrebbe ammazzato, che si portava un segno come una lingua oscena di spavento. Sentii che era quella la morte. L’aria secca, concreta come un muro se respiri. Anche se non potevo toccarla nel freddo di un animale rigido, era proprio lei, la medusa che pietrifica il cuore, che svanisce in spuma salata senza farsi prendere, punire. E qualcosa d’altro veniva spinto fuori da me, qualcosa come le unghie nei pugni stretti, come la fatica grinzosa dalla placenta, le sue pulsazioni subacquee. A lato i bambini si tuffavano, pescavano dalle borse frigo, dimenticavano la medusa e i riti funerari e usciva dalla bocca di tutti una preghiera senza interruzione. Era un dolore piccolo, normale; non c’era niente che io potessi seppellire.
[Immagine: Immagine di Brett Amory (gm)].