MANGE TES MORTS (Jean-Charles Hue, 2014)
di Daniela Brogi
Sono grassi fino all’inverosimile, si sfondano il ventre di birra, si parlano addosso anzi urlano in continuazione, usando come forma gergale più ricorrente “mange tes morts” (una sorta di “li mortacci tua” rimasto più semantico), credono nel malocchio, rubano ma sono animati da un fervore cristiano prossimo al fanatismo. L’unico elemento che può redimerli e portarci a riaccoglierli per intero è il mistero della loro notte interiore. Tutti gli stereotipi sui gitani sono confermati e trasformati in materia di racconto dal film che ha appena vinto il concorso della trentaduesima edizione del Torino Film Festival: una rassegna ricchissima, una delle più belle e più serie grazie al lavoro dei selezionatori e della nuova direttrice Emanuela Martini. Ma il premio lo assegna la giuria, presieduta da Ferzan Ozpetek, che magari avrà particolarmente apprezzato, come tratto di continuità con la sua filmografia, la narrazione di un mondo a parte, tagliato fuori da ogni scambio e conflitto con la società circostante. Mange tes morts non era il migliore tra i quindici film in concorso, tuttavia è girato molto bene, e inoltre era uno dei più interessanti perché i personaggi che lo animano non sono semplicemente dei tipi ma individui di una corsa vitale verso l’esplosione finale a cui ci appassioniamo, anche contro la nostra morale.
Già premiato alla “Quinzaine des Realisateurs” di Cannes (Prix Jean Vigo), Mange tes morts è diretto da Jean-Charles Hue che dal 2001 ha cominciato a dedicarsi al mondo gitano: prima con videoinstallazioni, poi cortometraggi, fino al lungometraggio La BM du Seigneur (2011) in cui si racconta la saga famigliare dei Dorkel, che interpretano se stessi, le cui vicende proseguono nel film appena premiato. Siamo in una periferia di campagna francese, in un campo nomadi, e ci sono tre fratelli orfani di padre: Fred, Mickaël e Jason. L’ultimo nato, Jason, sta per celebrare l’ingresso nella maggiore età con il battesimo cristiano, quando la comunità viene squilibrata dal ritorno del fratello maggiore, Fred, che ha finito di scontare quindici anni di carcere per l’uccisione di un poliziotto.
Jason, che aveva tre anni quando il fratello è stato arrestato, è cresciuto nel mito adorante di Fred, e in segno di questo amore non solo lo aiuta a recuperare la sua mitica automobile, un’Alpina tenuta nascosta in una cava, ma gli rivela che nel parcheggio semiabusivo di un suo amico si trova un camion con venticinque tonnellate di rame. È l’occasione per fare soldi e svoltare: assieme al terzo fratello e a un cugino (che non approva ma, visto che si è sposato a solo diciassette anni, vuole sperimentare una serata diversa), Fred e Jason partono per rubare il camion: gran parte del film coincide col racconto di questa notte. Mange tes morts è un road movie che gira su se stesso e riesce a stare in equilibrio soltanto se corre, in senso tanto tecnico quanto simbolico, perché la storia, come i suoi personaggi, non progredisce veramente. C’è la commedia, ci sono gli espedienti del racconto di genere, come nei momenti più umoristici di questo andare avanti a ogni costo («siamo ladri, non siamo spacciatori!» urla Fred a un’altra gang con cui si scontrano); c’è l’azione improvvisata spinta al paradosso («siamo partiti per rubare un camion e adesso vuoi andare al bar?» grida Mickaël al fratello che vuole fermarsi a mangiare hamburger). Ma l’avventura, intesa come emancipazione dalla ripetizione e esperienza dell’altrove, resta negata.
Come vivono gli altri ? quelli che non fanno parte della cerchia dei «gagè» (i non rom), cioè coloro che stanno fuori dagli spazi istituzionalmente riconosciuti come comunità? Il film di Hue, spostando la macchina da presa soltanto nei non luoghi extraurbani dove vivono i famigliari e gli amici di Jason, sceglie di mettere in scena questo corpo sociale raccontandolo dal ventre: che è il ventre enorme di Fred come il ventre della vita di comunità ripresa con tecnica documentaria, con un suono sporco, con dialoghi gergali – anche in Francia sono stati necessari i sottotitoli.
Sia Jason che Fred, i due protagonisti, vivono di reveries intorno a un’assenza: può trattarsi per Jason dell’illusione di prendersi cura del fratello rimasto lontano, o per Fred del sogno di tornare al bar «Colette». Il fantasma di un’occasione è l’unico appiglio dentro vite che girano a vuoto:
Ma più di tutti è il fantasma del padre a dominare la scena: quello che a suo tempo era scomparso disintegrandosi a trecento kilometri all’ora contro un posto di blocco. Mentre l’uso continuo di luci a intermittenza dei fanali delle altre auto in corsa per scandire il viaggio crea un effetto continuo di apparizione e scomparsa, come un misterioso baluginare tra inferno e salvezza.
[Immagine: Jean-Charles Hue, Mange tes morts (2014)].