cropped-Merz1.jpgdi Claudio Giunta

[Questo articolo è apparso sul domenicale del «Sole 24 Ore»].

In realtà si può dire benissimo. E si può dire attimino sia nel senso di ‘un breve arco di tempo’ (dammi solo un attimino) sia nel senso traslato di ‘un poco’ (ci vuole un attimino d’impegno). Si può, ma – almeno nel secondo caso – non è bello. E perché non è bello? Chi decide che cosa è bello e che cosa non lo è, nei fatti di lingua? Ecco: questo (e non ‘si può vs. non si può’) è il modo giusto di porre la questione.

Il fatto è che la lingua non è il codice della strada: nessuno vi multerà se direte ‘basta un attimino di pazienza’, o disfavo invece di disfacevo, o ‘possiamo andare a Roma, piuttosto che a Firenze, piuttosto che a Venezia’; e neppure se direte ‘spero che tutto vadi bene’. Se però usate espressioni del genere in mezzo a persone che hanno studiato o in mezzo a persone che, pur non avendo studiato tanto, sono abituate a una conversazione decente, vi guarderanno con un po’ d’imbarazzo (per voi) e di fastidio, ed è probabile che finiranno per non invitarvi alla prossima cena (in realtà, se dite vadi, come Fantozzi, e non siete un calciatore, nessuno v’inviterà neanche alla prima, di cena: non c’è bisogno di selezione, per selezionare).

Questo perché la lingua ha meno a che fare con la norma che con l’educazione. Dire attimino nel senso di ‘un poco’ è un po’ come mettersi le dita nel naso: non è un delitto, non fa male a nessuno, però vi crea il vuoto attorno. E ci risiamo. Perché?

Perché – per dirla in breve – sono quelle che in retorica si chiamerebbero sineddochi (la parte per il tutto): se dite attimino, ovadi, o vi mettete le dita nel naso, vuol dire che avete visto tanta TV al pomeriggio ma avete letto pochi libri, avete viaggiato poco e male e, soprattutto, vi manca quell’uso del mondo che vi rende delle persone frequentabili. O per dirla ancora più semplicemente: vi fareste cucire una giacca da un sarto che dice vadi e che si scaccola? E vi fareste operare da un chirurgo che si presenta dicendo «Bortoloni Giuseppe, ma mi chiami pure Beppe»? Ecco. Sono spie, e di solito sono spie che dicono la verità (NB: è vero che uno può benissimo decidere di direattimino o di mettersi le dita nel naso fregandosene di quello che dicono gli altri: ma la verità è che gli zoticoni per scelta sono rari: eroici, anche, ma rari).

Di questo genere sono le osservazioni che Giuseppe Antonelli, uno dei nostri linguisti più intelligenti, ha raccolto nel volumetto Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 12 euro). Il titolo è po’ fuorviante: perché leggendo s’impara, sì, che Leopardi adoperava anche per iscritto parolacce come coglione efottuto, come facciamo tutti, e parlava delle donne come «queste bestie femminine», come facciamo tutti, ma s’imparano soprattutto cose che riguardano il buon uso della lingua italiana. Niente di rivoluzionario, dato che di bei libri che dicono cose chiare e sensate sull’italiano, che insegnano cosa dire/scrivere o non dire/scrivere non ne mancano: sullo scaffale accanto a me ho per esempio – e consiglio entrambi caldamente – l’eccellente Parlare l’italiano di Edoardo Lombardi Vallauri (Il Mulino), e l’eccellentissimo Si dice o non si dice? di Aldo Gabrielli (questo è davvero uno di quei gioielli che tutti dovrebbero avere in casa: uscito per la prima volta quasi mezzo secolo fa, ristampato l’anno scorso da Hoepli, il libro mette insieme le risposte su questioni di lingua che Gabrielli dava ai lettori «di alcune riviste mondadoriane»). Il libro di Antonelli è più piccolo e più occasionale di quelli (sono per lo più articoli divulgativi rifusi insieme), ma è un bel libro, piacevole da leggere e pieno d’informazioni sull’italiano che parliamo e scriviamo oggi; soprattutto, è questa rarità: un libro quasi euforico sulla nostra lingua, perché non idealizza il passato, non inorridisce di fronte al presente e irride, giustamente, tutte le Teorie sulla Decadenza della Lingua che ci piace formulare per provare il brivido di sentirci in mezzo agli ultimi giorni dell’umanità: mentre l’umanità va avanti, noi no.

Anche la lingua va avanti, anzi va avanti alla velocità della luce perché i parlanti e gli scriventi sono sempre di più, e la comunicazione è istantanea. Il cambiamento è sempre faticoso e fastidioso: vorremmo che le cose che abbiamo imparato restino lì, immobili. Tempo fa ho sentito un collega che si lamentava del fatto che i ragazzini non conoscano più le fiabe dei fratelli Grimm e passino il tempo sui libri di Harry Potter o sui videogiochi. Ma questo è un segno di ricchezza, non di povertà. Se si raccontassero ancora le fiabe dei Grimm vorrebbe dire che negli ultimi due secoli l’immaginazione umana non ha creato niente di nuovo che valga la pena di raccontare. Per fortuna non è così. Allo stesso modo, se una cultura è vitale, la sua lingua evolve, cioè perde alcune caratteristiche e ne acquista altre, ‘dimentica’ alcune parole e ne introduce altre nell’uso. Ecco, dunque, in apertura di libro, le otto ‘tesi’ che Antonelli via via approfondisce parlando tra l’altro di sms, di congiuntivi zoppicanti, di anglismi, di parolacce, di interpunzione malmessa (pp. 18-34):

a) Tutte le lingue sono alla deriva, perché la deriva è la condizione naturale di tutte le lingue vive.

b) Se le lingue cambiano nel tempo, i modelli del passato non possono valere per il presente.

c) Profeti di sventura sul futuro dell’italiano ce ne sono da secoli, ma il futuro li ha sempre smentiti.

d) Un’età dell’oro in cui tutti parlavano (o scrivevano) bene non c’è mai stata.

e) Parole nuove (e straniere) fanno parte da sempre di un continuo e salutare ricambio epidermico.

f) Difendere la purezza di una lingua è assurdo, perché nessuna lingua è mai stata pura.

g) Nella lingua, il confine tra giusto e sbagliato è molto meno netto di quanto si possa immaginare.

h) Usare bene una lingua non significa parlare (o scrivere) come un libro stampato.

Tanto buon senso e tanta moderazione, da parte di un linguista, sono corroboranti (unico appunto: non arriverei a dire, come fa Antonelli contraddicendo il parere di un giornalista ‘conservatore’, che «chi se la prende con “il fantozziano vadi, l’orrendo facci, il terrificante venghi” applica categorie estetiche del tutto fuor di luogo, dato che vadi era già forma leopardiana, facci dantesca, venghi boccacciana»: messa così, ha ragione il giornalista, perché nel primo caso si tratta di errori, nel secondo di forme ammissibili all’epoca di quei tre scrittori, non certo oggi).

Ma allora? Chiudere le scuole e lasciare che tutto vada come deve andare? Al contrario (e torniamo così all’attimino). Così come s’insegnano i fondamenti dell’educazione, bisogna insegnare i fondamenti della lingua, a cominciare dalla grammatica, che ho l’impressione sia ormai piuttosto negletta. Ma bisogna anche dire chiaramente che non tutte le norme che regolavano l’uso linguistico nel passato valgono per l’uso odierno (non è così anche per la buona educazione? Non sarebbe ridicolo adottare, oggi, certi vecchi manierismi da cortigiani?). E soprattutto, come osserva bene Antonelli, bisogna spiegare che a contare sono soprattutto i registri, e cioè che quasi tutto si può dire e quasi tutto si può scrivere – anche le parolacce, anche a me mi – purché si sia ben consapevoli del fatto che non tutto può essere detto sempre e dovunque. Salvo che qui le cose si complicano di nuovo, perché chi fissa i confini, chi dice dove e quando? Io per esempio sono sobbalzato leggendo a p. 50, e non tra virgolette, la parola sfottò. Ma chissà: magari sono io lo schifiltoso, il pedante. È complicato.

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14 thoughts on “Perché non si può dire «attimino»? Su un libro di Giuseppe Antonelli

  1. L’articolo ha avvio fastidioso, finale zoppo; contraddice in buona parte le tesi del libro recensito. Lo stigma linguistico come quello delle cosiddette ‘buone maniere’, emblematicamente richiamate come termine di paragone, ha sostrato classista urticante. Buone o cattive, giusto o sbagliato: distinzioni sono solo funzionali alla distinzionse sociale del gruppo che vi si riconosce, auto ed etero giudicante. Semplicemente, usi diversi dei medesimi codici. Ma vallo a spiegare al compiacimento del corrierista domenicale…

  2. Finalmente! Grazie Claudio Giunta (e ovviamente ad Antonelli, il cui libro ha ispirato questo pezzo): per fortuna non tutti sono come Pippo Russo & co, non tutti si divertono a far le pulci all’ortografia altrui, guadagnandone … diosacosa, forse il prestigio di conoscere meglio l’italiano. Ma chi insegnerà loro a pensare meglio?

  3. “Sono sobbalzato” va ancora bene (anzi per me è meglio di “ho sobbalzato”)…trovo invece orribile ” vorremmo che le cose che abbiamo imparato restino lì” (anziché “restassero lì”) ma si tratta di un uso pressoché universale nel nord Italia (e da lungo tempo accettato come regolare in francese), per cui, anche in questo caso, possiamo concordare sull’opportunità di cambiare la regola, adeguandola all’uso……

  4. Articolo interessante, anche se mi sembra tutto sommato di buon senso, in quanto le lingue, in quanto costruzioni culturali, sono da sempre e per sempre in evoluzione, altrimenti noi qui non parleremo e scriveremo in italiano, ma in latino, anzi in indoeuropeo o qualche altra protolingua primordiale. Che poi ci siano ancora professoroni dalle scuole elementari a quelle superiori che mettono errore “In seguito lui è tornato a casa” correggendolo in un (immagino non solo per me) polveroso “In seguito egli è tornato a casa” è un altro discorso.

    Aggiungerei inoltre che la lingua è prima di tutto parlata e la lingua scritta è una derivazione successiva di essa sia dal punto di vista cronologico che da quello logico. E’ quindi totalmente arbitrario ritenere che il “modello” di una lingua, ovvero il punto di riferimento in base a cui dedurre cosa in una certa lingua è grammaticalmente corretto o anche solo stilisticamente gradevole, debba essere la lingua contenuta nei testi scritti, tantomeno quella contenuta nei testi scritti ritenuti “letterari”. La grammatica di riferimento dunque non può che essere che quella presente nella mente dei parlanti nativi, ancora prima che quella presente in qualunque manuale scritto. Analogamente si può dire la stessa cosa della qualità stilistica, come i linguisti di oggi si sono certamente accorti, dovrebbe essere ormai noto che se la stragrande maggioranza degli italiani di oggi parlano non solo dialetto ma italiano, questo italiano è debitore molto di più di Mike Bongiorno che di Dante e Manzoni messi assieme. Che questo sia un bene o un male non lo decidono i linguisti ma appunto la maggioranza dei parlanti di questa lingua.

    P.S.: ottima la citazione di Rumi nell’opera di Mario Merz in copertina, un po’ fuori tema mi piacerebbe sapere da Carlo Giunta se in futuro potremo leggerlo nelle nostre scuole accanto a Dante in omaggio a un paese dove culture diverse sono sempre più in contatto…

  5. Concordo con i primi commenti: l’articolo è debolissimo dal punto di vista argomentativo e irritante nel suo compiacimento di classe. La questione andrebbe interamente ripensata a partire dalla dimensione di violenza simbolica implicita nell’uso corretto della lingua (come nelle buone maniere e in ogni altra forma di legittimità simbolica). (https://www.youtube.com/watch?v=1V2xmtxrLtw )

    Una volta acquisito e meditato questo, resta il problema più importante e interessante: perché dovremmo parlare “bene”, perché dovremmo adeguarci alla norma e rispettare la convenienza linguistica se non per appagare il nostro bisogno di distinzione segnalando l’appartenenza a un’élite sociale e culturale e non essere trattati come Fantozzi?

    Personalmente credo che il buon uso della lingua sia un gesto carico di valori morali, politici ed estetici, oltre che una forma di disciplina personale. Ma chiederei a Giunta, che lo insegna, di spiegarlo al popolo con argomenti più profondi e convincenti.

  6. Il “si dice/non si dice” è questione non solo di “buona educazione”, ma di ideologia, cioè di visione strutturata e situata del mondo.
    Alcuni usi linguistici e certi anglicismi (come “Jobs Act”, tra l’altro) io li rifiuto per motivi che sarebbe forse lungo spiegare ma, ecco, ciò che conta è che, nella piazza, ci sia chi dice certe cose, non ne dice altre, e ne rifiuta polemicamente altre ancora.
    E’ oltretutto questo il clima culturale e sociale reale in cui le lingue (almeno quelle europee) da secoli a questa parte effettivamente si evolvono.
    Non sarebbe forse un astratto clima “da laboratorio”, invece, quello in cui tutti i cittadini sposassero le teorie descrittive e “sine ira et studio” dei linguisti, apparentemente aperti, poniamo, all’afflusso di anglismi perché “Parole nuove (e straniere) fanno parte da sempre di un continuo e salutare ricambio epidermico” ecc.?

  7. Personalmente distinguerei tra un “vadi” (citazione da me abusatissima), un “disfare” per “disfacere” (chi oggi, anche nella più smaltata cornice comunicativa, pronuncerebbe “disfacevo”? Sono davvero l’unico?) e una concordanza, o un congiuntivo, clamorosamente toppati. Come ricordava il primo utente, si tratta di differenti registri appartenenti al medesimo codice (citazioni “pop” e licenze poetiche incluse), oltretutto distinguibili a seconda che la comunicazione sia orale o scritta. Scrivendo a un accademico, non mi perdonerei mai un presente al posto di un futuro indicativo, ma nella schietta quotidianità cosa c’è di più immediato di un “domani chiamo e poi ti dico?”.

  8. Ad Antonio: diciamo anche che il “si dice/non si dice” oltre che una questione di “buona educazione” e di “ideologia” è anche una questione di “farsi capire” evitando di chiamare “matita” qualcosa che un altro chiama “torta”.

    Poi bisogna anche dire che l’uso di certe espressioni in lingue straniere più che essere dovuto a un’ideologia imperialista del tipo “i popoli di lingua anglosassone sono superiori a tutti gli altri” è in realtà semplicemente dovuto a dati di fatto del tipo è in certi paesi piuttosto che altri si sviluppa la tecnologia, arte, cinema e letteratura di maggior successo e di conseguenza usiamo i termini legati a quei prodotti in base alla loro lingua di provenienza e dunque se dobbiamo lamentarci con qualcuno per il fatto che si usano tanto i termini “smartphone” e “facebook” dobbiamo lamentarci con noi italiani che non siamo stati capaci di progettare e realizzare analoghe innovazioni di successo a casa nostra…

  9. Usare “facebook” o “sms” – non ho uno “smartphone” ma uso la parola “cellulare” , che ho -, intendo dire nel parlato e nello scritto -, mi sembra ormai normale uso, mentre non riuscirei a dire né a scrivere “disfavo il letto”, “disfavo il lavoro che hai fatto”, e a vederlo scritto, per un momento non ho neanche capito cosa fosse. Non sono iscritta a facebook ma è parola – e modo di comunicazione fino a quando durerà – ormai, e da subito, entrata nell’uso come, del resto, la designazione dell’oggetto “computer” . Ma se mi rivolgessi – io italiana a persona italiana – dicendo “devo sgombrare il table”? O, se al mercato, in Italia, dicessi “vorrei quelle apple, per favore, sì grazie, quelle small”? Sull’imperfetto del verbo “disfare” le mie idee cominciano a confondersi…, anzi “a disfarsi”… Anche circa i decreti – o norme o leggi -, sul lavoro… Una volta arrivato il Governo italiano ad un punto finale sulla materia, saranno forse scritte le nuove regolamentazioni nella lingua inglese? O appellate, in carte italiane, con una intestazione in altra lingua?

  10. Leggere questi commenti e i libri, di ‘linguistica’ che li generano, e le domande e le risposte e le affermazioni, alcune felicemente esenti da dubbio alcuno, mi fa pensare che il lavoro non manca, a noi linguisti. Poi, per amor di discussione, sapete quanto sia vasta è la portata degli studi sul linguaggio? No, perché a qualcuno può sembrare, vedendo la ripetitività dei libri e delle discussioni sul medesimo, che si si tratti solo di quello che, qualche tempo fa, noi linguisti/ sociolinguisti includevamo al capitolo,’norma-uso, variazione diafasica/ diastratica. Poi si continuava col resto della ricerca.

  11. Vorrei chiedere a Gianpiero G. e a La voce del popolo, in che cosa consisterebbe il classismo. Nei loro interventi leggo:
    “lo stigma linguistico”, “sostrato classista urticante”, “funzionali alla distinzione sociale del gruppo che vi si riconosce”, “auto ed etero giudicante”, “dimensione di violenza simbolica implicita nell’uso corretto della lingua”.
    Questo lessico non è classista?
    Di fronte a espressioni di questo tipo – pure formule da iniziati, o da ciclostilati anni ’70 – davvero stiamo ancora lì a guardare, a valutare con cipiglio e ostinazione, l’uso tradizionale di congiuntivo e condizionale, come se usare l’uno anziché l’altro impedisca la comunicazione? In fondo, se ci si capisce, vuol dire che la lingua il suo dovere lo ha fatto – magari modificandosi, introducendo strutture nuove o usando in modi nuovi strutture già esistenti. Ma non ci trovo niente di male: è semplicemente uno spostamento di funzioni. Ed è sempre stato così: se tutti i latini si fossero incaponiti a non usare le perifrasi verbali, noi non avremmo il condizionale. L’importante è essere consapevoli delle varietà (e quindi delle opportunità) che la lingua offre.

  12. @Matteo: no, quel lessico non è classista, è magari settoriale ma questa è un’altra cosa. Sul piano del contenuto, comunque, siamo d’accordo: non serve stare a fare tanto i puristi, la lingua è viva e ha bisogno della deviazione dalla norma per evolvere. Per quanto riguarda il sostrato classista dell’articolo: è evidente, a mio parere, nel compiacimento con cui l’autore descrive la divisione che si viene a creare tra chi (a suo dire) “ben parla” e chi no, con i primi che escludono i secondi. Io ci sento molto il ‘salotto’ che non si vuol confondere con la ‘piazza’.

  13. Ho risposto poco fa a Matteo e a Gianpiero G., e dicevo qualcosa sull’ultimo rigo del commento di Marta Maddalon.
    Ho premuto poi, anzi “cliccato”, su “commento all’articolo” ma – non che sia importante – la risposta è scomparsa. E – per quel che poteva valere – mi è impossibile ricostruirla.
    Ma – piuttosto nuova ai marchingegni di invio virtuale – riprovo solo nel tentativo di capire quale sequenza, nell’invio, abbia (io) errato.

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