di Paolo Zanotti
[Due anni fa moriva Paolo Zanotti. Su “Le parole e le cose” sono usciti il suo racconto Io e Licia, l’inizio del romanzo Il testamento Disney e il saggio Incanto e disincanto nella notte. Quella che segue è l’introduzione a Dopo il primato. La letteratura francese dal 1968 a oggi, un saggio uscito nel 2011 da Laterza].
Ammettiamolo, è quello che pensano in molti, non di rado persino nella stessa Francia: la letteratura francese di oggi è anemica, intellettualistica, chiusa in se stessa, ci sono certo molti saggisti degni di essere letti e meditati, ma, suvvia, la letteratura… Qualcuno arriverebbe a sussurrare che la letteratura francese è morta insieme al cinema italiano.
In questi giudizi funerei c’è molta parte di esagerazione. Per esempio il parallelo col cinema italiano non sta in piedi: mentre i film italiani raramente riescono a varcare le Alpi, la letteratura scritta in francese è tuttora in molti paesi la seconda più tradotta dopo quella in lingua inglese. Il punto però è che fino a non molti decenni fa il francese era per eccellenza «la lingua della letteratura», e la sua letteratura non era la seconda più tradotta, ma la letteratura egemone. «Paese della letteratura», la Francia era abituata a far man bassa di premi Nobel (solo dal secondo dopoguerra all’inizio del periodo coperto da questo volume: André Gide nel ’47, François Mauriac nel ’52, Albert Camus nel ’57, Saint-John Perse nel ’60, Jean-Paul Sartre nel ’62 se l’avesse accettato, e in più si potrebbe aggiungere Samuel Beckett nel ’69). D’altra parte la Francia era anche la patria spirituale che accoglieva a braccia aperte gli scrittori stranieri in esilio o anche solo in cerca di consacrazione. In uno slancio di gratitudine, quei poveri scrittori non di rado si affrettavano a cambiare lingua.
In realtà casi di questo tipo si verificano ancora. Per esempio nell’autunno 2006 usciva un romanzo-fiume raccontato dal punto di vista di un ufficiale SS intitolato Les Bienveillantes (Le benevole). Opera prima (se si eccettua un romanzo cyberpunk scritto in inglese e, comunque, in giovane età) di Jonathan Littell, un – fino a quel momento – ignoto americano residente a Barcellona, Les Bienveillantes divenne immediatamente un bestseller e si aggiudicò due dei premi letterari di quell’autunno (in Francia, per la disperazione degli editori stranieri, le novità librarie escono tutte contemporaneamente tra agosto e ottobre: la cosiddetta rentrée littéraire). Les Bienveillantes scatenò anche un dibattito acceso tra sostenitori e detrattori (tra i quali non mancò chi si dedicò a compilare lunghissime liste di errori di francese), ma, al di là delle divisioni, non ci si poteva che rallegra- re che uno straniero (un americano, addirittura!) si fosse piegato, ancora una volta, alla lingua della letteratura. Come ringraziamento ufficiale venne concessa a Littell la nazionalità francese, che in precedenza aveva già richiesto invano due volte.
Il caso Bienveillantes rivela però anche delle differenze rispetto al passato. A parte il fatto che Littell, figlio di un altro scrittore americano, era in realtà cresciuto in Francia, l’impressione era che questa volta l’editoria francese fosse dovuta scendere a patti con logiche straniere. Littell si era presentato al portone di Gallimard alla maniera americana: tra le mani un manoscritto di esordio ponderosissimo e terminato nella tarda trentina, al suo fianco un bellicoso agente letterario inglese. Come in Italia, anche in Francia gli agenti sono rari e non godono di troppo potere: è impensabile che un esordiente ne abbia uno. Forse istruito dal suo agente, Littell si sarebbe costruito un’aura di mistero per il periodo del lancio del libro, sfuggendo ai fotografi e agli intervistatori. Soprattutto, sarebbe riuscito a imporre all’editore Gallimard un accordo quasi umiliante: l’editore non avrebbe avuto alcuna percentuale sulle traduzioni. Il sistema – si sarebbe poi giustificato Littell in un’intervista a «Le Monde» – «permette di pubblicare libri che non lo sarebbero altrove», ma ha il costo di non permettere agli scrittori di viverci.
Il caso Littell è pertanto indicativo delle stato ambivalente della Francia letteraria di oggi, in rapporto al suo passato. Da una parte l’impressione è che l’editoria francese sia stata scavalcata da logiche americane, dall’altra bisogna però ammettere che una vicenda del genere non sarebbe mai potuta accadere altrove. Facciamo il caso dell’Italia. In primo luogo difficilmente uno scrittore straniero sceglierebbe di scrivere in italiano: a parte il minor prestigio della lingua, sarebbe una scelta ancor oggi perdente per il minor peso internazionale dell’editoria italiana. Nonostante la Francia abbia da tempo perso la sua egemonia letteraria in favore del mondo anglofono, rimane ancora la scelta più scontata per uno scrittore americano in fuga dal proprio paese, la prima alternativa prestigiosa ancorché minoritaria. In secondo luogo, per quanto la Francia non possa competere con i dati tedeschi e inglesi (una volta incluse le esportazioni) di vendita di libri o con i dati nordici di familiarità con la lettura, in nessun paese al mondo la letteratura nazionale e la lingua letteraria hanno, ancora oggi, un peso maggiore che in Francia. Ciò ha risvolti sia pratici (tanto per fare un esempio: la Bibliothèque Nationale de France ha un budget tra le cinquanta e le settanta volte superiore a quello, combinato, delle biblioteche nazionali di Roma e Firenze) sia di vitalità e serietà (a volte eccessiva) del dibattito. Insieme alla Russia, la Francia è infatti il paese europeo in cui è tradizionalmente più forte il legame letteratura-società. Con una differenza però: mentre in Russia la letteratura è stata il luogo della resistenza, e come tale ha vissuto a lungo in clandestinità, in Francia la letteratura è completamente integrata ai valori ufficiali. Per lungo tempo è stata la massima espressione della vocazione universalistica e umanistica della Francia, e a partire dagli anni Ottanta è entrata a far parte di un progetto di investimento statale nella cultura. Si tratta della cosiddetta «eccezione francese». Benché questa definizione altezzosa sia nata in realtà a scopi difensivi, per contrastare l’onnipresenza dell’industria culturale americana, in senso lato può essere messa an- che in rapporto con un sospetto nato tra i politologi: che la Francia sia l’unico paese la cui politica internazionale venga pesantemente condizionata dalla vita culturale interna.
Questo volume si occuperà della cultura francese nel periodo della sua perdita di egemonia. Non sarà (lo vedremo) necessariamente il resoconto di un crollo, ma un inventario delle perdite e dei guadagni. Per fare questo, sarà necessario partire, prima che dall’anno-chiave 1968, dalla Francia ‘golliana’ degli anni Sessanta. Non solo perché si tratta dell’inizio dell’ordinamento politico attuale (la V Repubblica), ma anche perché è in quel periodo che trovano le loro radici molti fenomeni su cui si ritornerà lungo tutto il volume: il problema dell’esclusione sociale e dello sviluppo delle banlieues, un rapporto molto ambiguo con la modernizzazione, il tramonto della Francia rurale e la sua rinascita sulla pagina. È sempre in quel periodo che nascono o vengono consacrate le ultime tendenze artistiche e culturali francesi a diventare grandi punti di riferimento internazionali: al cinema si afferma la Nouvelle Vague, in letteratura si diffondono i modi del Nouveau Roman e in generale una forma di scrittura estremamente formalista e sperimentale, il mondo intellettuale è rivoluzionato da uno sviluppo senza precedenti delle cosiddette scienze umane.
Un altro fenomeno rilevante di quel decennio – il rapporto estremamente conflittuale ma anche molto stretto con gli Stati Uniti – rimarrà un filo rosso di questo volume. A parte il caso isolato di Littell, l’ultimo momento glorioso della cultura francese all’inizio del periodo coperto dal volume è il suo sbarco conquistatore nel paese che oggi ha raccolto la sua egemonia. Alludo all’accoglienza (anche fisica) ricevuta negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta da Jacques Derrida, Michel Foucault, Jean Baudrillard, Jean-François Lyotard, Gilles Deleuze ecc., e alla formazione di quel corpus critico-filosofico che va sotto il nome di French Theory.
Da un certo punto di vista la nascita della French Theory è stata l’ultimo dei trionfi della cultura francese: l’intelligenza del Vecchio Mondo, come sempre impersonata al meglio dalla Francia, ha an- cora una volta conquistato il Nuovo Mondo. Eppure – come, più in piccolo, il caso Littell – anche questo trionfo ha un rovescio della medaglia. Non solo quegli intellettuali francesi sono diventati inter- nazionalmente famosi grazie al successo americano (in altre parole l’America ha scippato un potere di consacrazione fino allora detenuto dalla Francia, anzi da Parigi, anzi da cinque chilometri quadrati di Parigi: il quartiere latino), ma si potrebbe con qualche ragione affermare che la French Theory, in quanto tendenza complessiva e non semplice aggregazione di intellettuali prestigiosi, è un’invenzio- ne americana, la costruzione un po’ artificiosa di un corpus di autori francesi (a volte fieramente in disaccordo tra loro) e la rilettura in chiave direttamente politica di tale corpus. Il passo successivo all’invenzione della French Theory sarà la nascita di una nuova avanguardia universitaria globale, uno star-system di cui certo fanno parte, oltre agli americani (Fredric Jameson, Judith Butler), anche esponenti del Vecchio Mondo (Slavoj Žižek, Peter Sloterdijk, Giorgio Agamben, Antonio Negri) e della galassia postcoloniale (l’indiana Gayatri Spivak, il palestinese Edward Said), ma che ha in America il suo epicentro: è necessario insegnare almeno un semestre in America per farne parte. Mentre nasceva questo star-system, la Francia si è invece affrettata ad abbandonare la teoria per riabbracciare il suo tradizionale umanismo universalista. Tra i nomi ricordati sopra, gioverà osservare che le prime traduzioni francesi (molto limitate) di autori attivi rispettivamente dall’inizio degli anni Sessanta e dalla metà degli anni Settanta come Jameson e Spivak appaiono solo nel 2007.
In Europa, in realtà, il prestigio e il potere consacrante della Francia sembrano ancora reggere: dato che Londra e New York si trovano già impegnate a gestire l’immenso patrimonio del mondo anglofono e sono relativamente disinteressate a tradurre, è a Parigi che vengono lanciati gli scrittori italiani, tedeschi, spagnoli, portoghesi destinati ad affermarsi nel continente. Parigi, insomma, può contribuire ancora al successo internazionale di un José Saramago, di un Thomas Bernhard, di un Antonio Tabucchi. Più in piccolo, limitandosi ai rapporti tra i due lati delle Alpi, può ancora costringere gli editori e i giornalisti italiani a tornare a occuparsi di Goliarda Sapienza, può ancora offrire palcoscenici ad autori teatrali come Emma Dante e Pippo Delbono.
In questo quadro, a soffrire quindi, più che il prestigio di Parigi o quello dei suoi intellettuali (grazie al boom della French Theory gli intellettuali francesi – specialmente quelli di qualche generazione fa – sono diventati icone mondiali), sembrano essere gli scrittori. Il campo delle letterature contemporanee tende sempre a essere abbastanza misterioso: una foresta di cui i singoli lettori conoscono solo i rami più alti, raramente il centro, figuriamoci il sottobosco. Ma il punto è che oggi la letteratura francese contemporanea è entrata nel numero di quelle meno conosciute perché, si ritiene, tutto sommato ignorabili. Tanto per fare un esempio: alcuni degli autori cui in questo libro riserverò maggior spazio non sono mai stati tradotti in Italia, o solo in minima parte. Un secondo esempio chiarirà il mutamento di temperie: Jean-Marie Gustave Le Clézio è sicuramente uno scrittore importante, che nell’Italia degli anni Settanta era tradotto e discusso. Poi è scomparso dai nostri radar, al punto che, quando nel 2008 gli è stato conferito il Nobel per la letteratura, in Italia si è reagito come se quei simpaticoni dell’Accademia svedese avessero pescato dal cilindro l’ennesima sconosciuta poetessa dell’Est. Fino a pochi decenni fa un italiano colto si sentiva in dovere di tenersi al corrente su quanto, letterariamente parlando, succedeva nell’Esagono (come viene definita la Francia dalla forma dei suoi confini); oggi sicuramente la sua bussola punta piuttosto l’America o le letterature postcoloniali (anglofone, iberofone e lusofone molto più che francofone).
A volte si tratta di un disinteresse enigmatico. Per usare un tono condiscendente che solo pochi decenni fa sarebbe suonato, più che offensivo, inverosimile da parte di un italiano che parlasse di letteratura francese: alcuni degli autori che tratterò nei prossimi capitoli sono innegabilmente scrittori di enorme livello, e anche gli altri sono mediamente bravi, comunque dignitosi, perché allora non riescono a uscire dalla francosfera? Perché, rispetto a un autore francese, nelle case editrici come nelle librerie, un qualunque indiano parte avvantaggiato?
Si possono avanzare alcune spiegazioni. In primo luogo si può affermare recisamente che gli scrittori francesi non sfondano più perché non se lo meritano, e che la letteratura francese è decaduta e mediocre. Ho già detto che a mio avviso questo in realtà non è vero. In secondo luogo, la Francia non ha più il peso internazionale per imporci la sua produzione. Questo è già un motivo più fondato: lungo tutto il Novecento la Francia ha imposto come grandi scrittori autori che non sempre lo erano davvero, e anche il fatto che la Francia è stata a lungo il Paese dei Nobel è dovuto, più che all’eccellenza dei suoi scrittori, al fatto che la Francia aveva il ruolo di centro pubblicitario della nuova letteratura e soprattutto di Paese dell’Universale: come ora il Nobel deve andare possibilmente a uno scrittore politicamente dissidente e possibilmente proveniente da un paese decentrato rispetto ai nuclei di potere letterario, così allora andava preferibilmente agli intellettuali universali, di cui la Francia sembrava detenere il brevetto (come il vero cinefilo è un cinéphile, così il vero intellettuale è un intellectuel, anzi un intello). Ho anche l’impressione che la gloria passata (in particolare quella del Nouveau Roman) abbia cominciato a giocare a sfavore della Francia, portando all’opinione comune secondo cui la letteratura francese sarebbe boriosa, in fin dei conti frivola nella sua impalpabilità. Come tutti gli altri, anche il mondo della letteratura si basa su stereotipi: se ci attendiamo realismo magico da un autore latinoamericano e, almeno negli ultimi anni, gialli da un autore scandinavo, l’etichetta «autore francese» è diventata invece promessa di libri intellettualistici e narrativamente ingrati. Ora, il mercato letterario di oggi è, eufemisticamente parlando, non troppo favorevole ai libri intellettualistici. Sempre che sia vero che si tratta di libri intellettualistici e non, semplicemente, un po’ diversi dai modelli più diffusi, cosa che dobbiamo ancora verificare.
Un’ultima avvertenza: benché questa storia della Francia letteraria prenda avvio attorno al 1968, si concentrerà più precisamente sugli autori esorditi attorno al 1968, limitandosi a segnalare, riguardo agli autori già attivi a quella data, le eventuali svolte di carriera e di poetica. Questa scelta ha una ragione precisa: gli autori già affermati prima del ’68 hanno potuto godere del peso mondiale esercitato allora dalla letteratura francese, e sono quindi oggi universalmente canonizzati, al punto che ogni paese ha prodotto varie monografie su di loro. Gli autori esorditi più tardi, oltre a non aver potuto godere della capacità di consacrazione mondiale che un tempo la Francia deteneva, hanno non di rado persino sofferto della fama di intellettualismo e formalismo guadagnata alla letteratura francese proprio dai loro immediati predecessori.
[Immagine: Thomas Struth, Rue Saint-Antoine, Paris 1971].
Mi pare un’ottima guida(anche stilisticamente parlando)per far diradare quella fastidiosa nuvolaglia di certi giudizi affrettati sulle sorti della letteratura francese contemporanea. Mi permetto di aggiungere che alcuni scrittori italiani, anche saggisti, hanno attinto a piene mani all’universo della French Theory.