di Walter Siti
[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 31 ottobre 2011.
Proponiamo una riflessione di Walter Siti – insieme saggio e autocommento – elaborata all’indomani del’uscita del suo secondo romanzo, Un dolore normale. Pubblicate nel 1999 su una rivista francese, «Italies», queste pagine erano diventate col tempo difficili da reperire. Ringraziamo Marco Mongelli, che ha trascritto il testo. Apre l’intervento una nota dell’autore, scritta apposta per Le parole e le cose].
Cari amici, cedo (come si dice cerimoniosamente in questi casi) alle vostre insistenze per pubblicare questo antico reperto a patto di poter aggiungere qui qualche aggiornamento e correzione. Non torno sulla parte che riguarda la composizione dei miei primi romanzi, ormai chi se ne importa: dieci anni fa ci tenevo ancora a fare bella figura e non ero disposto ad ammettere che il mio autobiografismo fosse indifeso e letterale, ci costruivo sopra un po’ troppe teorie.
Mi interessa invece quel che dicevo a proposito della letteratura-intrattenimento e della spinta culturale dei tempi nuovi a polverizzare la struttura conoscitiva del romanzo; mi sembra che da allora le cose si siano chiarite e aggravate. Ora l’operazione parte già nella fase di elaborazione della scrittura, nelle officine degli editori che programmano un romanzo mettendolo in sinergia con la sua futura visibilità, organizzando le campagne di lancio in base alla quantità di elementi di richiamo extra-letterari che il romanzo stesso può convogliare o di cui può essere l’innesco. Il romanzo è poco più di un pretesto per parlare di cronaca, di politica, di sesso, di rapporti generazionali, di musica e di cinema; il testo di intrattenimento che si propone al pubblico è in realtà un macrotesto in cui convergono frammenti di giornale, interviste, il chiacchiericcio della Rete, l’appeal dell’autore – e anche una ‘cosa scritta’, una specie di mattoncino che a nessuno verrebbe in mente di leggere due volte. Il romanzo propriamente detto si disperde in una nebulosa di sensibilità verbale ed emotiva che getta i suoi rizomi e può anche fruttificare molto; ma che è complementare al bisogno della politica, della storia, del giornalismo, della sociologia eccetera di darsi un’aria artistica, infarinando i dati certi con quello che Adorno chiamava “il basso desiderio delle vette”.
Questo fascio macro-testuale ha sostituito quasi del tutto lo spessore del romanzo inteso come coerenza formale di diversi livelli: dal disegno narrativo al gioco dei personaggi e fino all’attenzione per la grammatica e la fonetica. Alla lingua quasi nessuno ci pensa più; che una frase cambi di senso a seconda dei fonemi di cui è composta, si aspetta che muoia Zanzotto per ricordarsene cinque minuti. Anche perché ormai molti scrivono pensando alla traduzione in inglese e quindi della forma dell’espressione chi se ne fotte. (Ma le lingue in agonia hanno le stesse iridescenze delle triglie moribonde).
Resisto sull’idea che l’indecidibilità tra realtà e fiction possa avere anche oggi un valore critico, se organizzata e attraversata consapevolmente e non passivamente subita; come anche inventarsi un fine pratico per la scrittura (nel libro che sto scrivendo adesso, farsi regalare una casa) mi pare una satira anti-kantiana che può avere a maggior ragione oggi una sua forza polemica. Quello che invece non mi convince più è il “tornare a se stessi” come mossa cartesiana per difendersi dalla generale incertezza: non credo più che l’autoanalisi sia garanzia di verità, né credo che l’individuo sia più autentico del teatro sociale – l’io non è più laboratorio di niente.
Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti
1. Nelle società occidentali la maggior parte della popolazione va a scuola per molti anni e ha molto più tempo libero di prima; quindi è molto aumentato il bisogno di divertimenti ‘intelligenti’. La letteratura ha obbedito a questo bisogno sociale e sta diventando, sempre di più, una forma di entertainment di massa. L’ambizione, rinascimentale e poi romantica, che la letteratura fosse una forma di educazione, sta scomparendo, e questo in parte è un bene perché libera la letteratura dal dovere di essere didascalica e comme il faut. Ma le forme dell’entertainment si sono modificate, con l’affermarsi definitivo della civiltà dei media. Si potrebbe dire che si sta perdendo la ‘fisionomia individuale’ del prodotto di intrattenimento, e che sempre di più si impone una ’estetica del flusso’, per cui il divertimento consiste nell’essere bombardati da una moltitudine non-strutturata di informazioni che ci danno l’illusione di possedere la varietà del mondo (quindi confermano il nostro privilegio di consumatori), e nello stesso tempo ci esimono dalla responsabilità di interpretarlo. Il mondo intero è lo spettacolo, anche le situazioni sono avvenimenti e la realtà diventa ‘attualità planetaria’. Proprio mentre sembra che non esista più un ‘altrove’, e che in tutto il mondo siamo vicini di casa, proprio adesso si osserva un enorme bisogno di esotismo: sono esotici i romanzi del Terzo Mondo, letti da noi, sono esotiche le situazioni di estrema povertà ed emarginazione, sono esotiche le azioni ‘forti’ come la guerra e l’omicidio. La pubblicità di una libreria romana dice “pochi titoli per assaggiare il mondo”. La letteratura diventa un accessorio del turismo.
Ma soprattutto il divertimento (che da entertainment è diventato infotainment) non distingue tra realtà e fiction: il divorzio del principe Carlo, l’ultimo film di guerre stellari, i bombardamenti su Belgrado, la mostra di Picasso, l’ultimo romanzo di Rushdie appartengono a un unico flusso, che ci distrae e ci integra alla civiltà di cui facciamo parte. La letteratura viene quindi ‘polverizzata’, distrutta nella sua essenza di struttura complessa e irripetibile; anche perché ci si annoia del tempo che sarebbe necessario per afferrarla. Invece di una identificazione con le strutture del testo, ci si accontenta di una pre-fruizione rapida: ci si appropria in fretta degli elementi che ci seducono e ci consolano, e si passa ad altro. Si agisce con la letteratura esattamente come si agisce con le tragedie della realtà.
Sul piano della storia della letteratura, assistiamo a due fenomeni che solo in apparenza sono contraddittori: da una parte la letteratura tende a oltrepassare i confini di ‘genere’, si creano strutture ibride, metà romanzo e metà racconto storico, o caso clinico, o saggio filosofico eccetera; dall’altra c’è una forte rivalutazione proprio della Trivialliteratur, o letteratura di ‘genere’ (il poliziesco, la fantascienza eccetera), che sta passando dal ghetto della letteratura ‘di consumo’ agli editori della letteratura ‘alta’. I due fenomeni in apparenza contraddittori sono in realtà complementari, perché i singoli testi della ‘letteratura di genere’ si presentano come ‘opere seriali’ e quindi anch’essi indeboliscono il carattere individuale del testo. I due fenomeni sono quindi omogenei a quella ‘estetica del flusso’ di cui si parlava.
È come se anche per la letteratura potessimo utilizzare lo zapping che utilizziamo per la televisione. Uno zapping mentale, che permette di scavalcare la coerenza del singolo testo. Questo porta a una conseguenza anche sul piano morale: porta al fatto che tutti i testi diventano ugualmente inoffensivi, che tutto può essere detto perché da tutto si può svicolare e nulla ha conseguenze. È questa la particolare forma di censura che è caratteristica dei governi democratici: mentre nei regimi totalitari si vieta alla letteratura di parlare di certi argomenti, nei governi democratici si annulla qualsiasi argomento nel rumore, la trasgressione viene affogata nello spettacolo.
2. Quando ho scritto i miei romanzi avevo davanti, consciamente, o inconsciamente, questo panorama; con un po’ di ironia, conscia e inconscia, ho deciso di curare la ‘malattia’ del romanzo con una cura omeopatica.
Sia per Scuola di nudo, sia per Un dolore normale, quando il lettore comincia a leggere non capisce esattamente che cosa stia leggendo, se sta leggendo un’autobiografia o un romanzo. Il protagonista si chiama Walter Siti come me, parla in prima persona, fa lo stesso mestiere che faccio io, vive nello stesso luogo eccetera; ma la scrittura è piena di dialoghi, così minuziosi che è impensabile che possano essere stati ‘catturati’ con un registratore; è molto più probabile che siano stati inventati. E, a leggere con attenzione, si scopre che il Walter Siti del primo romanzo non ha esattamente la stessa biografia del Walter Siti del secondo: il primo è nato nel 1950, è orfano e figlio unico, ha visto morire il suo compagno – il secondo è nato nel 1945, ha un fratello, il suo ex-compagno è vivente eccetera. Le due immagini del protagonista ‘seriale’ non si sovrappongono esattamente. Anche nei miei romanzi è impossibile, come nella ‘estetica del flusso’ dell’infotainment, distinguere tra realtà e fiction. Insomma, sono coinvolti nell’errore ma per costringere l’attenzione a fissarsi sull’origine dell’errore: che tipo di conoscenza è la nostra quando annulliamo la distinzione tra vero e finto? Forse non è un caso che proprio all’origine del romanzo moderno, nel diciottesimo secolo (e già in quel capostipite del romanzo moderno che è il Chisciotte), gli scrittori si sforzassero di far credere vere le storie che raccontavano: proprio perché stavano fondando un diverso tipo di conoscenza, diverso sia dalla conoscenza retorica che dalla conoscenza scientifica. Nell’estetica dell’infotainment, la mancata distinzione tra vero e finto conduce a una ‘ubriacatura passiva’ dello spettatore-ascoltatore; nell’incertezza voluta dal romanzo, invece, è invitato a mettere in discussione (attivamente!) il proprio identificarsi con i personaggi della storia. Ti identifichi diversamente, a seconda che tu sappia di avere a che fare con una persona vera o con un personaggio romanzesco. Io credo che il particolare tipo di conoscenza che è proprio del romanzo non possa fare a meno della magia dell’identificazione, nonostante tutti gli straniamenti e le diffidenze. Il mito che rivela la potenza dell’arte, per me, è quello della gara tra Zeusi e Parrasio, raccontata da Plinio: Zeusi si crede vincitore, perché gli uccelli sono scesi a beccare l’uva che lui ha dipinto, e invita ridendo Parrasio a sollevare il panno che ricopre il suo quadro, ma è costretto a confessarsi sconfitto, perché il panno era il quadro.
Raccontare una storia fittizia come se fosse vera, d’accordo: ma perché raccontare una storia come se fosse la mia storia? Anche per questo bisogna riportarsi al panorama che ho descritto più sopra: ero infastidito, e umiliato, dalla inoffensività a cui è condannato oggi il romanzo, a causa del diluvio di storie che vengono quotidianamente prodotte dai media. Mi ero accorto che leggevo una storia con più interesse, e ne ero più colpito, se sapevo che era una storia realmente capitata a persone vere; allora ho pensato di utilizzare i meccanismi dell’autobiografia (ricordo che rilessi e postillai con attenzione Le pacte autobiographique di Philippe Lejeune), i suoi trucchi anche formali (l’esitazione a fare i nomi, il modificarsi della scrittura a causa di eventi che sopravvengono…), per minare l’indifferenza del lettore. Volevo fargli sparire dalla faccia quel tranquillo sorriso con cui si appresta, di solito, a leggere una storia anche atroce, ma che porta sul frontespizio la rassicurante scritta ‘romanzo’. Poi c’era un desiderio più profondo, e morboso: volevo colpire l’inoffensività del racconto anche dentro di me, volevo mostrare che con una storia ci si può far male. Da troppo tempo, e tanto più adesso, scrivere romanzi (entertainment!) è diventato un mestiere. La scrittura ne risente. E allora volevo ridare tensione alla scrittura aggiungendoci il rischio personale dell’autore. Lo so che l’autonomia dell’estetica è legata all’assenza di un fine pratico; ma proprio per questo voglio che ogni mio romanzo (i due che ho già scritto e anche il terzo che sto scrivendo) abbia un fine pratico che apparentemente ne giustifica la scrittura. L’intenzione di scrivere un saggio per Scuola di nudo, la decisione di farsi lasciare per Un dolore normale.
Scrivere di sé è considerato moralmente riprovevole, come se fosse un eccesso di narcisismo e di egoismo; come se bastasse, per eliminare questi difetti, tradurre tutto in terza persona. Rinunciare a capire, compiacersi del proprio punto di vista, questo è moralmente riprovevole. Non è poi così idiota, quando capire è difficile, partire dall’altro che si conosce meglio, cioè se stessi. Nella letteratura italiana ce n’è talmente poca di autoanalisi che non è poi un gran peccato aumentarne la dose. Quello che mi inquietava era piuttosto il fatto che mi sentivo preso in una contraddizione: ero partito con l’idea di oppormi all’inoffensività del flusso, e ora mi accorgevo che se mi fossi ‘confessato’ non avrei fatto altro che aggiungere il mio all’infinito di ‘casi’ che i media ci propongono ogni giorno (mescolando appunto, in modo inestricabile, ‘fiction’ e ‘reality’, come dicono gli autori dei programmi televisivi strappalacrime); il caso di un omosessuale povero, pieno di rancore, che cerca di promuoversi socialmente attraverso la cultura e chiede, pateticamente, di essere e di non essere integrato. L’unica strada era quella di non confessarsi, di studiare la sincerità finché essa non si fosse disposta spontaneamente in una struttura oggettiva, conoscenza valida in astratto. Insomma, dovevo imparare a dire la verità senza crederci.
I due strumenti formali che mi sono serviti per questo sono stati la surdeterminazione e la miniaturizzazione. ‘Surdeterminazione’ significa che non accettavo nessun fatto per buono, narrativamente, se non aveva almeno due significati, meglio se tre (in Un dolore normale, per esempio, l’azione del trasporto del cuore per il trapianto l’ho ammessa soltanto dopo che mi è apparso chiaro il rapporto con un passo famoso della Vita nuova di Dante, e dopo aver capito che era la ‘presa alla lettera’ delle metafore amorose). L’io diventava un’ipotesi sperimentale: quando l’invenzione avrebbe tradito la serietà dell’ipotesi, smettevo di inventare; ma quando la realtà empirica non avrebbe reso giustizia all’ipotesi, ero costretto a inventare. ‘Miniaturizzazione’ vuol dire che trovano delle forme ‘mitiche’ che stavano alla base dei fatti raccontati, e poi le riducevo ai minimi termini, in modo che il lettore avvertisse appena la loro presenza (per esempio, il mito servo-padrone in Scuola di nudo, o il mito di Adamo ed Eva in Un dolore normale). In modo quasi inavvertibile, l’autobiografia si riempiva di fatti che io non avevo mai vissuto, perché la struttura prendeva il sopravvento sulla memoria. È così che mi sono inventato la definizione di ‘autobiografia di fatti non accaduti’. La verità non è quella dell’esperienza ma quella della ‘legge’ (Proust insegni), una ‘verità seconda’ che non perdona. Per questo molti, amici e nemici e semplici conoscenti, si sono sentiti colpiti personalmente, perché non era la verità immediata, la verità pettegolezzo quella che raccontavo. A loro posso solo rispondere con le parole di Thomas Mann in Bilse e io: “l’apparente ostilità del poeta verso il mondo reale è un’apparenza provocata dalla mancanza di riguardi, propria di chi osserva per conoscere a fondo, e dalla pregnanza critica dell’espressione… se pertanto, quest’opera è un ritratto, una trasposizione artistica di una realtà vicina, ecco che si leva il lamento: ‘E’ così, dunque, che ci vedeva? Con tanta freddezza, con così beffarda ostilità, con occhi così privi d’amore?’ Tacete, vi prego! E cercate, dentro di voi, di trovare un minimo di reverenza per qualcosa che è ben più severo, ascetico, profondo di quel che voi, nel vostro blando sentimentalismo, chiamate ‘amore’!”
‘Pregnanza critica dell’espressione’: con questo Mann vuol dire, credo, che la legge della surdeterminazione non si ferma agli aspetti macro-narrativi (della stratificazione della trama) ma investe tutti gli elementi del testo, in una coerenza che arriva fino agli aspetti più minuziosi della lingua e dello stile; per fare un esempio minuscolo, in Un dolore normale sono inseriti dei versi, e in quei versi dominano le cosiddette ‘rime sdrucciole’ (per esempio, la rima ‘andavo-tavolo’) – esse sono coerenti all’idea generale di una struttura conoscitiva che si insinua inavvertitamente sotto la quotidianità autobiografica, perché sono rime che non si vedono subito, che si insinuano sotto un discorso apparentemente prosastico. Se volessimo trovar qualcosa che differenzia l’autobiografia dal romanzo, questo qualcosa sarebbe proprio la densità del testo nel romanzo, la sua coerenza ai più vari livelli della struttura, la sua ‘energia linguistica’, cioè trattare la lingua come un corpo e non come un mezzo.
3. Insomma, anche se ho praticato una scrittura che sembra ‘di confine’, in realtà non ho molta simpatia per tutti i tipi di ‘narrativa debole’, cioè per la narrativa che si aggancia ad altri generi, come se ci si dovesse dare forza in tempi di emergenza; quella narrativa è una fuga dall’irresponsabilità, perché non vuole avere né le responsabilità strutturali del romanzo né le responsabilità scientifiche del discorso storico, o antropologico, o psicanalitico – un saggio lo puoi contestare e ne puoi dimostrare il torto, una narrazione fictional non ha torto mai. Ho il sospetto che molti narratori si trincerino dietro l’idea di avere scritto “non proprio un romanzo” semplicemente perché si vergognano di quel che il romanzo è diventato: un semplice oggetto di intrattenimento, il cui unico merito è la gradevolezza, la capacità di ‘far viaggiare con la fantasia’. Credo invece, per quanto il talento individuale lo consente, che si dovrebbe cercare di combattere ciò che il romanzo è diventato, rilanciano le ambizioni del romanzo stesso. Mann parlava di una “mancanza di riguardi” che è necessaria al romanziere, per andare contro il “blando sentimentalismo”: credo che sia tipico del romanzo (inscritto, per così dire, nel suo codice genetico) lo smascheramento di ogni forma di ‘autenticità’ del desiderio (e qui mi riferisco ovviamente a ciò che hanno detto René Girard e Milan Kundera); il romanzo dimostra l’inautenticità di quel che i poeti affermano come autentico. In Scuola di nudo si cercava di dimostrare che anche l’istinto in apparenza più indiscutibile, cioè l’istinto sessuale, può essere in malafede, può essere il sottoprodotto di una competizione frustrata. In Un dolore normale l’autenticità che si smaschera è quella della volontà, che pretende di essere volontà-di-maturità e si rivela invece volontà-di-integrazione. Contemporaneamente però, anche la volontà di non-integrazione aveva mostrato i suoi lati insopportabilmente romantici e nichilisti. Come scrive James Baldwin nella Camera di Giovanni, “probabilmente la vita non offre più che la scelta fra ricordare il giardino o dimenticarsene: per ricordare occorre forza, e una forza d’altro genere occorre per dimenticare, ma è necessario un eroe per fare entrambe le cose”.
La forza ‘eroica’ del romanziere è quella che Thomas Mann chiamava ‘ascetismo’: non concedere mai pace alla propria esperienza, investigarla fin che non ne escano le leggi che ‘bruciano’ l’esperienza stessa. I miei romanzi sono fatti in genere di molti strati, perché è l’unica forma (probabilmente la più primitiva) che finora sono riuscito a trovare per fare in modo che una zona del romanzo smascheri l’altra. Questa è la forma di conoscenza tipica del romanzo, una conoscenza in cui la ‘sintassi del pensiero’ astratta non si isola dalla concretezza particolaristica e creaturale della miseria umana, ma nasce da essa e con essa si fonde. (In Scuola di nudo questa forma di conoscenza si opponeva esplicitamente alla conoscenza accademica, in Un dolore normale si oppone alla ‘conoscenza del cuore’). Nei miei romanzi l’illusionismo realistico (o iperrealistico) da trompe-l’oeil (con dialoghi e ambientazione minuziosamente ricostruiti) è collegato inestricabilmente con una struttura ‘razionale’ (nel senso hegeliano del termine). Quasi il contrario del ‘romanzo gradevole e ben costruito’ che serve a dare a chi lo legge ‘l’illusione del valore’: là i dialoghi e l’ambientazione sono vicini al cliché, mentre la struttura si snoda disossata, si adagia sulla tautologia.
4. Mentre l’autobiografia racconta i fatti ‘perché sono accaduti’, il romanzo racconta i fatti ‘perché hanno senso’; la sfida col lettore è di invitarlo a cogliere il senso sottostante: un invito alla seconda lettura che è terribilmente inattuale, perché presuppone un rischio e una fatica. (Senza la ‘seconda lettura’, il lettore non coglie la struttura profonda, crede ingenuamente che le cose che legge siano lì perché sono successe e basta: se ne libera in fretta perché sono cose lontane da lui. O, se invece sono cose vicine a quelle che lui stesso ha vissuto, le liquida come banali. È, tra l’altro, uno dei problemi della scrittura omosessuale). Ma ben più rischiosa è l’operazione dal punto di vista dell’autore: i desideri, abbiamo detto, non vengono semplicemente ‘ricordati’ ma vengono smascherati – dunque ‘esauriti’. Quando Marcel ha capito come funziona il meccanismo del desiderio del viaggio, smette di viaggiare. La decisione di chiamare il protagonista dei miei romanzi col mio nome e cognome, che sembra comicamente narcisista, ottiene in realtà un effetto minaccioso di spossessamento. Se Walter Siti è lui, e vive esperienze che io non ho mai vissuto, esperienze ‘portate al limite’ che svelano la verità delle mie misere esperienze empiriche, chi è allora questo Walter Siti qua, che non è più in grado di provare quelle emozioni, e che deve ricominciare ogni volta a vivere daccapo? ‘Lui’ vive ed esaurisce la mia vita, e finisco per essere io il ‘senza nome’. Nell’autobiografia conta la precisione di ciò che si ricorda, nel romanzo conta soprattutto ciò che si tralascia. L’autobiografia è un frutto della vitalità, che scrive un’autobiografia non può impedirsi di provare soddisfazione per l’importanza di quel che ha vissuto; il romanzo nasce dalla delusione della vitalità (e forse della vita), lo schema autobiografico nel romanzo è un pretesto per parlare degli inganni del mondo. Solo scrivendola si riscatta la propria vita (per questo, nel secondo romanzo, il protagonista uccide pur di essere pubblicato), ma una volta scritta la vita non è più di nessuno.
Un effetto rassicurante del ‘diluvio di storie’ che provengono dall’infotainmnent è che le storie ‘illustrano’ il mondo senza pretendere di spiegarlo: non è male che un romanzo proponga un pezzetto anche minimo di mondo che ‘si offre in esperimento’ perché possa nascere una storia.
[Immagine: Topi, foto di Guido Mazzoni].
“… Volevo minare l’indifferenza del lettore, fargli sparire dalla faccia quel tranquillo sorriso con cui si appresta, di solito, a leggere una storia anche atroce, ma che porta sul frontespizio la rassicurante scritta ‘romanzo’…”.
Condivido questa intenzione. E’ anche la mia.
a margine: perché “Un dolore normale” non si ristampa più? è un libro di bellezza rara.
Riflessione importante, e comprendo bene che “Le parole e le cose” abbia voluto ripubblicarla. Il problema che pone, però, è più quello di un’uscita dalla forma romanzo che quello di un suo recupero. L’auto-fiction nella sua essenza non è più romanzo: volerla spacciare per tale ricorda molto l’espediente editoriale di aggiungere in copertina il sottotitolo “romanzo” a qualsiasi cosa. Diciamo che è un genere misto. Il momento romanzesco vi appare depotenziato, per esempio nell’intreccio di solito piuttosto elementare, ma anche esaltato perché negato e conservato nel suo valore conoscitivo. Poniamo che la questione sia quella di sfuggire alla letteratura “di viaggio”. Se in un libro collocabile in questo genere, inserite un che di romanzesco, immaginario, inventato, avete meno probabilità che sia preso come un mero accessorio turistico. Ma non troverete più un editore…
Ma è proprio necessario che la “legge” prevalga su tutto? In tutte le forme di conoscenza, mi pare,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Che la “pregnanza critica dell’espressione” sviluppi una struttura interna o che sia invece votata a innescare una “quantità di elementi di richiamo extraletterari”, mi pare che continui a essere una forma di “pregnanza critica dell’espressione”. Siamo proprio sicuri che esistano espressioni prive di “pregnanza critica” o espressioni che non obbediscano a una loro propria “legge della surdeterminazione”? Che cos’è la letteratura “di genere”? Se obbedisce a delle leggi, non è anche l’alta letteratura un genere?
Non sarebbe meglio scrivere e basta, invece di legiferare?
È proprio necessario presentare un menu all’amico che viene a trovarci a cena? E soprattutto, è stata inventata prima la cena o prima il menu? Quanti piatti di “alta arte culinaria” derivano storicamente da errori casuali?
“il romanzo dimostra l’inautenticità di quel che i poeti affermano come autentico”
Questa frase nasconde e svela il nocciolo della questione. Essa dice il vero, ma ho il sospetto che secondo Siti tale verità giochi a favore del romanzo; invece secondo me il romanzo dimostra l’inautenticità della poesia per mezzo della propria; ne consegue che la poesia è inautentica nell’inautenticità ordinaria, mentre il romanzo risulta proprio radicalmente inautentico perché – sia che imbocchi la strada della pura fiction, sia che cavalchi l’ambiguità più o meno esplosiva dell’autofiction – in ogni caso è un prodotto dell’ego, è il prodotto egocentrato per eccellenza. Per evadere dall’ego non basta rimescolare le carte, tendere agguati, piazzare mine oppure miti; non basta neppure perturbare sé stessi e il lettore; occorre un’autentica uscita-da-sé che solo i veri poeti riescono, quasi loro malgrado e spesso diventando pazzi, a realizzare.
Suona paradossale che il più esibizionista degli artisti e cioè il poeta (Berardinelli docet), sia anche il più oggettivo, il più ruvido e onesto, ma così è; Holderlin, Rimbaud, Whitman, Dickinson, Trakl, Celan, Hart Crane, alcuni altri alla loro altezza (non molti): nessun romanziere ha mai raggiunto una prossimità alla verità (o alla mancanza della verità) pari a questi. Ciò perché il romanziere, nel momento in cui vuole smascherare il mondo, giocoforza ne crea un altro che è frutto di sé, della propria egoità, che è una sovradeterminazione le cui fondamenta stanno nell’ego, nella visione egoica che si vorrebbe denudare, sbudellare. Gli strati interiori di cui parla Siti non finiscono mai, la cipolla ha infinite bucce e per spogliarla del tutto bisognerebbe tacere. E un poeta è un romanziere sul punto di tacere, un attimo prima di tacere. Il poeta sta sul precipizio, sulla punta estrema del trampolino. Il discorso coinvolge lingua, struttura, ma soprattutto immediatezza appercettiva, estetica nel senso più puro; solamente Dostoevskij, mi pare, fra i narratori ha bruciato dentro le fiamme della verità (o della mancanza di essa), poiché il suo atteggiamento interiore era di totale, abissale abbandono. Dostoevskij aveva dimenticato l’io a favore dell’altro, ma l’altro non era qualcosa d’autobiografico o memoriale o psicologico, era qualcosa di metafisico.
Insomma, laddove il narratore parla, il poeta ascolta. La differenza è tutta (immensamente) qui.
@Macioci: Mi trovo molto vicino a quanto lei dice, ma non sono d’accordo col manicheismo della sua distinzione. Risponderà Montale per me: http://www.youtube.com/watch?v=1jHQnSXBV9U.
Non è soltanto Dostoevskij. Diversamente dalla poesia (e qui rispondo ancora a @Siti), il romanzo non può essere considerato un’entità unitaria. (Ma anche la poesia ogni tanto sfonda questa restrizione.) Esistono momenti di verticalità, all’interno dell’orizzontalità di certi romanzi, che io inviterei a non sottovalutare.
a roberto gerace: altrove, siti ha considerato il romanzo il luogo dell’et-et, vicino alla poesia che sarebbe invece il luogo dell’aut-aut. non so se questa dicotomia possa essere utile alla discussione o avallare in qualche modo quanto hai scritto nell’ultimo post: ma è certo che per siti tale dicotomia non è assoluta né prescrittiva. ci sono studi da lui condotti proprio sulla forma romanzo cui ti rimanderei, e chiarificano che siti non propone affatto “cartes”, come in effetti potrebbe sembrare qui.
proseguendo su questa falsariga: i momenti di verticalità esistono ed è innegabile. per l’appunto, i romanzi di siti ne sono pieni (i primi due -presentati in questo post- possono senza tema essere definiti veri e propri prosimetri), e unitari proprio non paiono.
dulcis in fundo, egli ha affermato, a quanto ricordo, che i romanzieri “classici” cui più si rifa sono… proust e dostoevskij. forse bisognerebbe tener conto di questo, considerando il post di macioci, di cui non condivido l’impostazione.
@ gerace
Forse sono stato troppo manicheo. In effetti mi vengono in mente altri romanzieri che toccano la “verità” – Kafka, Melville, Bolano in 2666 – ma Montale non mi trova d’accordo, proprio perchè (e qui ci risiamo col manicheismo, mi sa) non brucia. Quando lo leggo, non posso sottrarmi all’impressione che non abbia osato abbastanza. Leggiamo Montale e poi Celan: la temperatura aumenta incomparabilmente. Allora molto meglio il nichilismo – visionario però – di Leopardi.
In realtà neppure la poesia può considerarsi un genere unitario – ci sono i lirici puri e ci sono i mitopoieti; che fare di Blake, Browning, addirittura Dante o Shakespeare? Ma quale genere è davvero unitario? Quale genere non è altro che una vaga rappresentazione, una sorta di finzione?
@ marchese
Sarà un limite mio, ma in nessun modo mi riesce d’accostare Proust e Dostoevskij; il primo è sommamente fisico, l’altro sommamente metafisico. Sono violentemente incompatibili, acqua e olio. Certo che le convergenze letterarie seguono vie misteriose, ed è possibile che Siti sia stato influenzato da entrambi. Se è così, a me pare che nella sua opera traspaia solo Proust.
a enrico macioci:
secondo me, posto che proust e dostoevskij siano inaccostabili (non saprei, non avendo letto molto di proust), su siti come -anche- scrittore metafisico non dovrebbero esserci molti dubbi. per ciò che traspare, ci sono passi lampanti in “un dolore normale”, in “troppi paradisi” (già dal titolo, dall’assunto di base), in “autopsia dell’ossessione” dove di dostoevskij, e del “problema di Dio” in generale, c’è parecchio. e poi la metafisica dei culturisti, tema onnipresente, dove la mettiamo? e la voce dal sottosuolo che “si chiama walter siti, come tutti”?
Siti inizia col denunciare “la spinta culturale dei tempi nuovi a polverizzare la struttura conoscitiva del romanzo”, chiarendo poi che nei tempi della scolarizzazione di massa esso finisce per corrispondere al bisogno diffuso di un’intrattenimento intelligente”. Oggi il romanzo “è poco più di un pretesto per parlare di cronaca, di politica, di sesso, di rapporti generazionali, di musica e di cinema; il testo di intrattenimento che si propone al pubblico è in realtà un macrotesto in cui convergono frammenti di giornale, interviste, il chiacchiericcio della Rete, l’appeal dell’autore – e anche una ‘cosa scritta’, una specie di mattoncino che a nessuno verrebbe in mente di leggere due volte”.
Tutto sommato, par di capire, una mimesi del mondo d’oggi, che non è più una palestra di antagonismi reali, dove ancora vige la serietà drammatica della scelta di un ruolo da interpretare in cui ne andrà del proprio destino (e anche del destino del mondo), ma un ballo in maschera dove infiniti costumi intercambiabili sono a disposizione per una giravolta che resta del tutto ininfluente sulla vita corrente.
Se questo è vero, la differenza tra il grande romanzo moderno e quello contemporaneo smette di esistere, visto che in un caso e nell’altro c’è stretta coerenza tra la forma significante e l’oggetto rappresentato, e l’impotenza estetica o didascalica della letteratura odierna deriva unicamente dalla totale immanenza della realtà sociale contemporanea. Dopo aver confessato il carattere illusorio delle sue prime motivazioni a scrivere (“non credo più che l’autoanalisi sia garanzia di verità, né credo che l’individuo sia più autentico del teatro sociale – l’io non è più laboratorio di niente”) Siti dovrebbe riporre la penna anzichè insistere a scardinare “l’indecidibilità tra realtà e fiction”. Essa infatti è precisamente il paradigma del post-moderno, come si evince da quanto sopra, e il turbamento nei suoi confronti vale poco più delle nostalgie d’un uomo d’altri tempi.
Per fortuna (nostra) Siti la penna non la ripone. Ma ciò non toglie che la sua analisi del rapporto tra romanzo e realtà, o meglio la sua concezione (peraltro non esplicitata) su ciò che dovrebbe costituire la portata “conoscitiva” del romanzo è immobilizzata sull’estetica del moderno, nell’interpretazione marxista di ciò che dovrebbe essere “il realismo”, e in quella esistenzialista della “soggettività autentica”. Una lettura diversa, capace di vedere nella filigrana del romanzo le potenze del mito, potrebbe dargli una ragione della decadenza dello stile (rispetto alla quale l’autofiction e il biografismo esasperato di certa produzione nostrana prova a suggere disperatamente le ultime gocce di un limone spremuto) a fronte dell’ostinata sopravvivenza del dramma cosmico nelle letterature “di genere”.
@ marchese
Un conto sono le riprese di tropi, stilemi, forme addirittura, un altro l’essenza d’un narratore. Sostiene a ragione Harold Bloom nell’ultimo suo libro sull’influenza letteraria che occorre “trascendere gli echi e le allusioni” e concentrarsi “sulla questione ben più importante della trasmissione di visioni e atteggiamenti poetici”. Ciò premesso, in Siti non sento nulla di Dostoevskij. La differenza sostanziale è che Dostoevskij “crede” perfino a dispetto della verità, Siti invece non “crede” neppure alla verità.
@binaghi, a chiunque
Lei ritiene che il romanzo odierno sia una denuncia d’impotenza estetica, oppure no? Io penso di no. Io leggo parecchi romanzi di scrittori contemporanei che mi fanno pensare che il romanzo se la passi molto, molto bene. Autori come Vollmann, DeLillo, Bolano, Pynchon, McCarthy, hanno creato autentiche epopee, epiche moderne, nuovi Moby Dick (e non è un caso che molti siano americani). Altri hanno fallito, forse, ma con onore (penso a Littell, a parecchi ancora). A me sembra che avvitare il problema/romanzo sulla presenza o sull’assenza biografiche sia riduttivo, ancorché interessante. Foster Wallace dimostra che il volto di medusa dei media, della cronaca eccetera lo si può guardare e pietrificarlo, consegnarlo al marmo inditruttibile delle parole. In Infinite Jest chi esce vincitore fra DFW e l’infotainment? Eccetera eccetera.
@Macioci
Qui il problema non è di uscire “vincitori” dal punto di vista della ricchezza e della determinatezza del significante. Il talento artistico dei romanzieri non è in discussione, specialmente se paragonato al “blob” dei media.
Il centro del discorso di Siti, a mio parere, verte sul valore di verità della letteratura, cioè sulla sua capacità di illuminare demistificando o sovrastando o perforando il velo di maya della prosa del mondo. E Siti per primo, dopo aver provato col romanzo a proporre “un pezzetto anche minimo di mondo che ‘si offre in esperimento’ “, scrive (nelle prime righe di questo testo, in realtà redatte a posteriori del medesimo, di non credere oggi “che l’individuo sia più autentico del teatro sociale – l’io non è più laboratorio di niente.”
Io penso che questa sia esattamente la condizione attuale della letteratura, dove nella bottega da rigattiere del mercato letterario c’è posto per scritture sontuose e bozzetti sociologici e dove beninteso è giusto distinguere il talento e lo stile dalla sciatteria, ma a differenza che in passato essi non riescono più a portare allo scoperto le contraddizioni dell’ordine del discorso, o dell’universo spettacolare che dir si voglia, perchè vi rientrano a pieno titolo come la sua componente aristocratica, esattamente come il radicalismo teorico e gli incitamenti alla sovversione sono la merce pregiata del flusso mediatico e dell’editoria ad alta tiratura.
Il romanzo moderno si è sostanziato di polarità come normalità/follia, conformismo/sovversione, banalità/complessità, ripetizione/innovazione, nel momento in cui esse erano incarnate da forze storiche, soggettività che nei linguaggi artistici elaboravano la propria ribellione non solo estetica all’ordine del mondo, e da questa rispondenza traevano il loro valore di verità. Esse echeggiano tuttora nello spettacolo della letteratura, dove lo sforzo degli autori di smarcarsi dal pianoterra della letteratura di genere con pretese di “mainstream” o “contaminazione” appare più che altro commovente, ma del tutto incapace di fondarsi su una vera rottura epistemologica. Beninteso, tra la prosa e la profondità psicologica di Walter Siti e Fabio Volo la distanza è abissale, ma dal punto di vista dell’autenticità, ognuno dei due semplicemente recita se stesso sapendo di farlo, su un palcoscenico dove artista e pubblico non hanno più diritto di distinguersi e, come scrisse Nietzsche, “l’applauso è la continuazione dello spettacolo”
@ macioci
La differenza sostanziale è che Dostoevskij “crede” perfino a dispetto della verità, Siti invece non “crede” neppure alla verità.
prove e spiegazioni di questa affermazione molto netta? siti ha delle verità, anche sgradevoli, in cui mostra di credere, ma magari non sono quelle che sta intendendo lei. e sarei curioso di sapere qual è l’essenza del narratore siti, visto che lei ne parla dandola per assodata, ma io non so se l’ho individuata=).
per quanto riguarda il discorso di visioni e atteggiamenti poetici, non so: il problema di dio c’è anche in siti, centrale. l’idea dell’idiota, la contrapposizione uomo semplice- raskolnikov “intellettuale”, ribassata e riattualizzata, c’è. l’epifania e il senso apocalittico mi sembra compaiano, anche se non frequenti (ne “il contagio”, per esempio), pur con tutte le modifiche dei tempi e delle differenti personalità. però ci sono e non mi paiono echi e allusioni; degli echi e delle allusioni non hanno il disimpegno, la leggerezza, ma assumono un aspetto più “pesante” e globale. impongono una seconda lettura, come rimarca siti nell’articolo.
sugli atteggiamenti poetici il discorso è più complesso, ma qualcosa si può dire. non vorrei star qui a fare accademia, della quale non sono neanche un grande estimatore, tuttavia vorrei ricordare un saggio noto di bachtin, (1934-35) intitolato “la parola nel romanzo”, sullla pluridiscorsività, che contraddistinguerebbe il romanzo rispetto alla poesia e si impernia, fra gli altri, su dostoevskij. è un po’ decentrato rispetto al tema che siti affronta in questo articolo, ma qualcosa mi sembra che dica, su siti, su dostoevskij e in generale sulla forma romanzo.
spero possa imputare la mia pignoleria alla giovane età=)
beh, decidere se una forma scritta, con personaggi e strategie di identificazione, sia o non sia “un romanzo” mi pare un’operazione azzardata, visto che “il romanzo” si è qualificato nel corso della propria storia come qualcosa che travalicava continuamente i limiti del genere e accoglieva le forme più disparate
può darsi, non lo escludo, che ora il romanzo stia diventando quel ‘macrotesto’ a cui alludevo, in cui entrano molte cose non scritte e non decidibili da parte dell’individuo-autore, una specie di iper-performance di cui la parte scritta è solo una componente
in fondo quattro secoli (da Cervantes a Philip Roth) non sono moltissimi: penso alle mutazioni
forse altrettanto radicali nel passaggio dall’epica al romanzo, o dalla tragedia classica al dramma
borghese e poi al ‘teatro di regia’ novecentesco
mi si consenta, come minimo epigono, di ricordare quel che la vecchia forma conteneva e che
presumibilmente andrà perduto nella mutazione: lo ‘spessore’ conoscitivo, la responsabilità individuale della scrittura, la grana della lingua
romanzo e poesia, in questo senso, vivranno o cadranno insieme: credo siano complementari, ciascuno con la missione di smascherare l’altro
il mio vecchio amico (“moderno” cioè vecchio, eh sì) Franco Fortini diceva che il poeta ha un contatto verticale con dio mentre il romanziere tira la carretta; ma le due cose non possono stare l’una senza l’altra, il padrone non può fare a meno del servo: come Hegel insegna (insegnava)
@ binaghi
Io non sono d’accordo con Lei sul fatto che lo statuto della verità in letteratura sia in crisi, ma chiaramente questa è un’opinione personale. Quando leggo Underworld, 2666, I detective selvaggi o Infinite Jest, io percepisco una realtà estetica e cognitiva che trascende i mass-media, la società, la cronaca eccetera, e che s’avvicina parecchio alla verità – intendendo con verità il cuore del mistero che noi siamo, il significato di essere uomini e donne.
Quando invece nota che Siti (e Volo) recitano sé stessi. Direi che Volo rappresenta sulla pagine quel che è (il personaggio FabioVolo), Siti invece mette in atto (lo sappiamo tutti naturalmente che fra i due c’è l’infinito, ma si fa tanto per capirsi) una serie di strategie estremamente complesse, ramificate e plurisense. La consapevolezza di Siti mi sembra troppo matura per darla spacciata – Siti conosce bene anche i meccanismi televisivi eccetera.
@marchese
Certo, la mia affermazione è netta e non dimostrabile; è una mia impressione. Leggendo Siti io percepisco un vuoto di “fede”, non sento il problema del trascendente oppure lo sento remoto, plastificato; in Siti anche la pietà mi sembra cinica, anche la disperazione; come se non fosse più possibile precipitare davvero, come se fossimo già sul fondo, sotto il fondo, irrimediabilmente e senza che ci sia nemmen bisogno di ribadirlo. Ma l’autore è complesso, altri possono leggervi altro.
Condivido infine tutte le osservazioni di Siti sulla forma-romanzo, ma mi domando se davvero debba andare perduto il potere conoscitivo, oppure l’investimento individuale dell’autore (e magari anche del lettore); i romanzi che ho sopra citato mi sembrano davvero opere “grandi” e “rischiose”, addirittura “folli”. Forse viviamo in un’epoca che esige drastici cambiamenti, svolte clamorose. Io credo e spero che il romanzo sappia ancora una volta adattarsi alla bisogna.
@Macioci
Guardi che io non do affatto per “spacciata” nè la consapevolezza nè la grandezza artistica di Siti. Mi limitavo a sviluppare quel che mi pare uno degli aspetti centrali del suo testo, e che verte sulla possibilità del romanzo di esibire una verità che trascende l’ordine del discorso comune (e dunque il potere che lo irretisce). Constatavo che nel romanzo “moderno” questo accade perchè la società appare (come è apparsa non solo a Marx ma innanzitutto alla borghesia intellettuale e non) una palestra di antagonismi tra i quali prendere posizione per portare a una sintesi superiore, mentre questo oggi non accade più, perchè l’universo sociale appare interamente immanente a se stesso.
Riformulo con una domanda semplice e brutale: c’è una verità che non possa essere oltre che formulata in qualche modo “agita”? La mia risposta è no: qui sono e resto vichiano, “verum ipsum factum est”. La verità attuale dell’arte e la sua unica esecuzione possibile stanno nel suo carattere spettacolare.
D’accordo (quasi) in tutto. Ma la mia convinzione è che la lingua sia un mezzo per formare il corpo del romanzo in “seconda persona”. L’autobiografia, come il racconto Le teste scambiate di Thoma Mann, raccoglie tutto ciò che il nostro cervello elabora per trovare una soluzione al problema “racconto o romanzo”. L’autobiogragfia, scritta in prima persona, è come l’autoscatto fattoci da noi stessi con un telefonino; li vi si racchiude tutto il nostro circondario con in centro il nostro corpo; bello o brutto che sia, l’importante che sia interessante. Quindi nessuna omissione di realtà/vita. Questa è l’autobiografia. La verità in letteratura è fondamentale, anche se le strutture sano Escheriane.
@macioci
se le capita, provi a rileggere il finale di troppi paradisi, o “perché io volavo” nella magnifica merce, o “l’addio” nel contagio. iperconsapevolezza e cinismo sono presenti, ma non sono il nerbo; credo che di queste prose si possa dire, dando un’occhiata ai contenuti che serbano, ai messaggi che veicolano, che quanto meno tentano di essere grandi, rischiose, folli. poi magari se ne potrebbe riparlare.
sull evoluzione (ipotetica, non dimentichiamolo) della forma romanzo, condivido il parere di siti, anche se più che un parere è uno scenario molto vasto, difficile da abbracciare interamente.
@binaghi
Il suo discorso è interessante oltre che assai complesso, e non sono sicuro di capirlo appieno, ma provo a rifarmi a un metodo concreto. Prendiamo LA PARTE DEI DELITTI in 2666 di Bolano; sappiamo che Bolano nello scriverla s’è ispirato ai drammatici femminicidi di Ciudad Juarez, città al confine fra Messico e Stati Uniti, che proseguono ininterrottamente dal 1993. Bolano dunque affronta di petto un “fatto” potente, “spettacolare”, “attuale”, e a mio avviso la vince. Il ritmo, la scelta dei termini, la prosodia e la profondità cognitiva della sua prosa “sconfiggono” la realtà tramutandola in mito, in religione, in eternità che trascende la pur drammatica contingenza di Ciudad Juarez. Questo per me significa superare quel che Lei chiama “carattere spettacolare” oppure l’ “azione.” Questo è uno dei poteri sapienziali ndel romanzo, la sua capacità di deformare o addirittura di aprire la realtà.
@ marchese
Farò come Lei dice. Può darsi benissimo, riconoscendo la grandezza stilistica e l’intelligenza di Siti, che io sia personalmente allergico alle sue opere, oppure che semplicemente mi trasmettano l’assenza dei messaggi che vado cercando, e che nè Siti nè alcun altro è tenuto a trasmettermi.
Straordinario: “il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti”. Meravigliosa vertigine: Il rapporto tra Walter Siti e Walter Siti all’interno del libro di Walter Siti che scrive di un personaggio di nome Walter Siti (Troppi paradisi) il quale narra la storia di Walter Siti autore di un romanzo il cui narratore racconta di Walter Siti (Autobiografia dell’ossessione).
E poi c’è Roth (Zuckerman):
“Ma il quoziente di dolore di un individuo non è già abbastanza terribile senza amplificazioni romanzesche, senza dare alle cose un’intensità che nella vita è effimera e certe volte addirittura invisibile? Non per tutti. Per poche, pochissime persone quest’amplificazione, uscendo e sviluppandosi in modo incerto dal nulla, costituisce la loro unica sicurezza, e il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più” (Roth, Lo scrittore fantasma)
Mi pare di trovare questa sintonia: Roth, attraverso i suoi alter ego (attraverso l’amplificazione romanzesca) esplora le possibilità della propria esistenza – ciò che potrebbe essere accaduto ma non è accaduto – ossia quel territorio in cui fluttuano, non attualizzate, le possibililtà di vita di Roth; Walter Siti inventa un alter ego di nome Walter Siti e attreverso la riduzione romanzesca ne esplora l’attualità di vita (in opposizione a possibilità: ciò che è, non ciò che potrebbe essere), entrando in quei territori nascosti dell’individuo il cui accesso è limitato esclusivamente a chi ha il coraggio e la forza contorsionistica di ficcare il naso dentro il proprio buco del c…o.
condivisibile, a parte l’ultima frase il cui cattivo gusto è quasi scioccante.
Con tutta evidenza il signor Formaggi sopporta poco Siti. Chissà se l’ha mai letto. Probabile che fosse troppo impegnato nelle sue fatiche letterarie, un qualche romanzo umoristico tutto vivace e pieno di infilate sintattiche alla Sterne che proclamano una svelta vendibile bravura, salvo precipitare a istanti in allegorismi alla “Tutti Pazzi per Amore”, con un’aria da sitcom brilluccicosa che trasfigura la vicenda familo-provinciale, qualora potesse risultare di un qualche interesse, in un lattescente nebbioso nulla. Chiaro che tutti possano leggerne qualcosa, giacché è stato pubblicato – ovviamente a pagamento! – da quell’associazione a delinquere che va sotto il nome de Ilmiolibro.it, l’iniziativa spudoratamente truffaldina che ammicca puttanescamente dal fondo delle pagine di Repubblica allo scrittore a buon prezzo che c’è in ognuno di noi. Formaggi ha buon parlare di buco di culo – nel suo romanzo, che “parla pulito” al modo di quel narratore che soleva corregger Menegazzi in Menegacci, niente buchi di culo: soltanto alluci “giganteschi e disgustosi” e tante vivaci amenità da lettura di spiaggia – il Formaggi, dicevo, fa bene a dire buco di culo riguardo a Siti: è vero, e per quanto possa apparirgli disgustoso, è molto più potente e importante della maggioranza delle cose pubblicate negli ultimi anni in Italia – e non solo da ilmiolibro.it, ma dall’Einaudi o dalla Mondadori. Attraverso quel buco di culo, se si ha coraggio, si potrebbe penetrare – ma ooops, non volevo spingermi tanto oltre! – nelle umide viscere del corpo morto o morente dell’Italia – non mi arrischio a dire d’Occidente – e sporcarsi con gli scarti di quell’immonda digestione liberale che dura implacabile dal dopoguerra – almeno.
La verità è che qui c’è poco da ridere, Formaggi. Leggiti solo Roth, se vuoi, che fa sentire trasgressivi e intelligenti.
Firmato: un giovane e disinteressato “fan” di Siti
per l’appunto, parafrasando l’antico detto, volgarità genera volgarità.
cerco di controbilanciare: macioci, mi faccia sapere se poi ha letto e cambiato opinione=) sono curioso.
@ Marchese
Ma cos’è, tutt’a un tratto siamo in un blog di educande vittoriane? Io trovo sommamente volgare scrivere “buco del c…o” invece che “buco del culo”, e “pene” invece che “cazzo” quando si parla con compiacimento di masturbazione (mi è capitato di leggerlo di recente). Ovviamente, tutto a seconda dei contesti. Se qua c’è gente che non regge Céline (o lo stesso Siti) basta avvertire; mettete un bollino censorio e ci sciacqueremo tutti la bocca con la lisciva.
ho solo detto che il cattivo gusto dell’ultima frase era scioccante, soprattutto c’entrava poco col resto della discussione. così come parlare di educande, censura, non reggere, eccetera. tutto fuori contesto, allegramente. è più chiaro, così?=)
Suvvia, signor Marchese, un uomo del suo lignaggio, e bastano due asterischi a scioccarla! Tutto allegramente fuori contesto, ha ragione, ma io sono avvezza a ben altri détour, come saprà: in certe pagine mi si divaga che è un amore. Ma tolgo subito il disturbo e torno a disperarmi sui miei topazzi, pardon!, volevo scrivere: topacci.
comunque:
ho sempre trovato questa recensione di la porta (che non ho trovato altrove che su ibs) molto pregnante, e forse può servire a capire meglio il tipo di discorso che si va facendo qui:
http://www.ibs.it/code/9788806149741/siti-walter/dolore-normale.html
Considero Walter Siti un maestro. Ho una ammirazione quasi infantile per lui. Il commento precedente conteneva le parole “coraggio” e “forza”, prima ancora di buco di culo, non erano affatto parole di uno che non sopporta Siti, al contrario. Odio la volgarità, in genere, soprattutto quando è gratuita. Credo tuttavia che quando si vuole dire qualcosa si debbano usare le parole per quello che sono, e dire le cose come stanno. L’opera di Walter Siti è straordinaria (non mi serve farci sopra una tesi di laurea per dirlo, parlo da semplice lettore, “interessato” a ciò che leggo) e a mio avviso la cosa più straordinaria è la sua capacità di “autopenetrazione”, (la frase accusata di volgarità significava proprio questo: capacità di guardarsi dentro e non in termini banalmente psicologici, ma guardare dentro all’individuo nelle sue zone più oscure) che gli è possibile, in termini formali, grazie alla continua creazione di sé come altro da sé. Un gesto simile a quello che compie Roth, che non è soltanto un autore alla moda, ma un maestro dell’arte del romanzo.
Questo è quanto. Non è il caso di tirare in ballo chi sono io e ciò che scrivo, rischia di essere più volgare di qualsiasi parolaccia. Lo stesso rischio si corre quando non si firma con il proprio nome e cognome. (A meno che non si tratti di Walter Siti che, in tal caso, ci avrebbe dato un’altra lezione di letteratura) :-)
P.S. Nessuno di voi ravvisa assonanze tra l’opera di Roth e quella di Siti? Tra la poetica della possibilità di esistenza di Roth e il “romanzo come autobiografia di fatti non accaduti”?
Volevo essere garbato ma non resisto, è troppo divertente (mi perdoni Siti per queste mie divergenze fuori tema, se uso questo spazio per difendermi. Ci penserà il moderatore del sito a togliere i miei commenti, se necessario).
Io parlo di buchi di culo (sacri, santi, oggetto primo del romanzo) e qui mi si caga addosso! Che freschezza!
“Non è certo allungando il brodo che si esce dalla culinaria per entrare nella letteratura”.
(P.s. grazie al fan “disinteressato” per la lezione di bon ton.)
Concludo e sparisco: il “fan” mi dice che qui non c’è niente da ridere. Provo pena per lui. Detesto chi crede di avere la verità in mano e soprattutto chi promulga la cultura della tristezza. Detesto chi non vuole sentire parlare di culo e poi vuole fare il culo a me. Qui, mio caro, c’è tutto da ridere eccome. Le tristezze e le premure e le detersioni le tenga per se. Ecco, l’ho detto. :-)
Ma no, prego, continuate pure.
Che ve ne fate della possibilità di dialogare con l’autore del saggio quando è così più divertente litigare e basta?
@ marchese
Purtroppo adesso non ho il tempo di approfondire la conoscenza di Siti come Lei mi chiede – ho comunque letto SCUOLA DI NUDO e TROPPI PARADISI, non mi par poco per giudicare.
Ho anche letto la recensione di La Porta da lei linkata e l’ho trovata giusta, ma appunto sbagliata per me; e cioè la narrativa di Siti non parla di quel che vado cercando in un libro di narrativa, nella cosiddetta letteratura d’immaginazione; in Siti il nocciolo della cosiddetta “realtà” (ma che cos’è davvero la realtà?) è troppo duro a rimuoversi, e a me va di traverso.
Ciò non toglie ch’egli sia forse il miglior stilista dell’attuale panorama italiano, oltre che un uomo profondamente acuto – i suoi pezzi di critica, anche sociale oltre che culturale, sono sempre impeccabili.
In generale poi, sorvolando sulle gratuite e banali volgarità, il parallelismo con Roth non lo trovo calzante, anche se vien fuori quasi immediato, istintivo; Roth è più un mitopoieta, Siti più un tortuoso autobiografo, Roth ha qualcosa di Shakespeare, Siti di Montaigne.
le sue osservazioni sono molto interessanti. anche io non trovo calzante un parallelismo con roth, ma perché ritengo che i loro sentieri si siano incrociati in un certo lasso temporale, e poi distanziati senza ritorno. se davanti a siti (mi scuserà, se legge=)), anche per via della produzione più ridotta, si ha l’impressione di un registro stilistico e tematico meno ampio, pur all’interno di “romanzi-mostro” che tutto fagocitano, roth mi sembra invece avere molta più versatilità, aver attraversato molti più generi, fino a proporre storie “politiche” che affrontano di petto problematiche dell’america anni ’50 (plot against america, indignation, nemesis…).
in tal senso, prenderei in esame tre “romanzi” costituiti da intrecci di narrazione, critica, cultura, riflessione politica: “The counterlife” (1986), “Deception” (1991, qui credo sia stato tradotto come “Inganno”), “Operation Shylock”. qui il protagonista è philip roth, di mitopoiesi non mi pare ce ne sia, bensì è evidente la tortuosa e mistificata autobiografia di un io che si mette al centro della scena (al centro del conflitto arabo-palestinese, in operazione shylock: più “nocciolo di realtà” di così…). la contiguità con un'”autobiografia di fatti non avvenuti” è fortissima, e d’altro canto è una tendenza che poi negli anni ’90 prende piede in molti autori. la dicotomia in tal senso non la vedo.
ciò detto, la capacità di finzione e la creazione di personaggi “shakespeariani” è un discorso un po’ complesso da affrontare. sarei curioso di sapere cosa lei (@macioci) pensa ci sia di shakespeare in roth e di montaigne in siti. il culturista marcello non è un personaggio estremamente complesso? per me lo è nella sua impenetrabilità: il narratore- amante di “troppi paradisi” (scuola di nudo mi pare un unicum nella produzione di siti) spende molte pagine per tentare di capirlo- fallendo. e questo tentativo mi pare sincero: avverto la presenza di una fede, anche se è una fede nel capire, e si ha sempre la tentazione che capire non porti a nulla, o porti al Nulla (un dolore normale ce lo dice molto bene).
rileggendomi, mi rendo conto che concordo con alcune affermazioni di francesco formaggi, e ho ripetuto varie cose già espresse in questo spazio. mi si scuserà, spero: sono giovane e discutere mi provoca ancora un piacere infantile. spero che siti, se ci legge, ritenga utile contribuire=)
@marchese
I parallelismi con Shakespeare e Montaigne erano indicativi, non puntuali.
Mi sembra che Roth abbia una maggiore propensione alla creazione di personaggi, Siti invece è un analista della società e della psiche sotto forma di romanziere.
Voglio anche confessare che ritengo Roth sopravvalutato; è un portento di stile, energia e ritmo, ma il suo mondo immaginativo è troppo autoreferenziale, mi soffoca. Il problema è che non riesce mai a uscire dal proprio ego per cui le sue ambizioni shakespeariane restano, appunto, ambizioni.
ps: non so se SCUOLA DI NUDO è un unicum nella produzione di Siti; a me è sembrato parecchio migliore di TROPPI PARADISI, più “urgente” e anche più geniale.
sa, è anche per quello che invece scuola di nudo è il romanzo di siti che meno preferisco (oltre al fatto che è un romanzo-mostro, in cui una tecnica narrativa efficace si sta ancora affinando):
è un portento di stile, energia e ritmo, ma il suo mondo immaginativo è troppo autoreferenziale, mi soffoca. Il problema è che non riesce mai a uscire dal proprio ego per cui le sue ambizioni shakespeariane restano, appunto, ambizioni.
togliendo “shakespeariane”, ché non so se siti sia shakespeariano (harold bloom direbbe che in fondo lo siamo tutti ci vada o no, e pace fatta). buffo come a volte s’incrocino così le idee=)
@Enrico Macioci: ha scritto in ottobre 2011 che a lei pare che nell’opera di Siti traspaia Proust. Io questo nesso non lo vedo, ma mi incuriosisce. Forse lei (se legge il mio commento), o qualqun altro può evidenziare questo rapporto molto interessante? grazie
yarisha
Ho ritrovato il commento cui si riferisce. Dicevo, in risposta a chi mi faceva notare che Siti si è rifatto a Proust e a Dostoevskij che io in lui, fra i due, rivedo solo Proust. Non perchè ci sia molto Proust, ma perchè non c’è nulla di Dostoevskij – questo sempre a mio avviso. Ciò che forse accomuna un poco Siti e Proust è una postura scritturale, un modo di porsi cioè innanzi alla materia narrativa: elegante, disincantato, colto, profondo, acuto, (auto)riflessivo, (auto)finzionale, stilisticamente sommo. Dostoevskij, che è puro fuoco, lava appena eruttata e furore metafisico, mi sembra davvero lontanissimo da entrambi.
Buonasera a tutti, non riesco a capire cosa significhi “la legge” nella citazione seguente. Magari qualcuno riesce a spiegarmi la frase? Vi ringrazio!
“È così che mi sono inventato la definizione di ‘autobiografia di fatti non accaduti’. La verità non è quella dell’esperienza ma quella della ‘legge’ (Proust insegni), una ‘verità seconda’ che non perdona.”
Quante parole, quante discussioni… mi avete fatto venire la nausea. Avete confermato per l’ennesima, incalcolabile volta, lo strapotere delle assurde strutture del potere che criticate.