cropped-05_jaar-fondazionemerz11.jpgdi Claudia Boscolo e Stefano Jossa

[È appena uscito il volume collettivo Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea (Carocci), a cura di Claudia Boscolo e Stefano Jossa. Quella che segue è l’introduzione. Oltre che da Boscolo e Jossa, i saggi che compongono il volume sono firmati da Marco Amici e Monica Jansen]

Due premesse. Primo, non c’è nessuna crisi della letteratura, delle sue istituzioni e della sua produzione. La letteratura è sempre stata marginale: ve l’immaginate un contadino greco dell’VIII secolo a.C. a leggere Omero? Oppure un marinaio pisano del XIV secolo a leggere la Divina Commedia (che a quel tempo Divina ancora non era)? O un pirata seguace di Francis Drake nell’Inghilterra del XVII secolo a meditare sul monologo di Amleto? Eppure la letteratura ha sempre goduto di una posizione di privilegio nella fondazione dell’opinione pubblica, perché aveva a che fare col segreto della parola. Male fecero, questa è la seconda premessa, tutti gli avanguardisti novecenteschi presi dall’ansia di replicare alla marginalità con una rivendicazione sapienziale e separatista: non si accorgevano, infatti, che il loro sapere marginale non era, dal momento che attraverso la parola ricadeva ben al di là della sua fruizione immediata. Il contadino greco dell’VIII secolo a.C., il marinaio pisano del XIV e il pirata inglese continuatore di Francis Drake parteciparono tutti e tre, rispettivamente, dell’universo culturale di Omero, Dante e Shakespeare, perché la letteratura definiva, e definisce, un immaginario e una cultura che vanno al di là del contatto diretto. Quanto più si chiude su se stessa tanto più la letteratura perde potere sociale e acquista potere politico: non forma l’opinione pubblica, ma entra nelle istituzioni, le permea, se ne appropria. Col corollario evidente che i vantaggi di questa operazione appartengono solo alle persone che della letteratura si fanno un manto e un vanto, ma certo non alla letteratura in sé e per sé, oggetto sfuggente che difficilmente potrebbe trarre vantaggio da un poeta seduto in Parlamento o direttore della radiotelevisione.

Questo libro si propone d’indagare proprio il rapporto tra la letteratura e la politica nella narrativa italiana degli ultimi dieci anni. Non si tratta di studiare tematicamente romanzi e racconti che mettono in scena la politica, ma di verificare se le prospettive teoriche, estetiche, tematiche e stilistiche di un gruppo di scrittori che si propongono ancora come ‘politicamente impegnati’ consentano di parlare di un orizzonte politico oppure no. La questione dell’impegno è infatti una delle chiavi più strumentalizzate della cultura letteraria italiana nel secolo appena passato: da una parte l’idea dell’impegno come rappresentazione della realtà ai fini della sua trasformazione in senso etico e civile; dall’altra l’affermazione di un impegno che sta solo nella prassi della scrittura. Tra questi due poli è oscillata un po’ tutta la produzione letteraria italiana del Novecento: siamo ancora dentro questo paradigma o ne siamo usciti?

Un libro recente, curato da Pier Paolo Antonello e Florian Mussgnug, dal titolo Postmodern Impegno. Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, edito da Peter Lang nel 2009, ha tracciato una linea di continuità tra la stagione dell’impegno degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e il cosiddetto postmoderno italiano, con la differenza che la prima forma d’impegno starebbe nella produzione artistica e la seconda nell’attivismo dell’autore che si esibisce personalmente. Non sarà questo l’orizzonte del nostro libro: a noi non interesseranno gli autori, ma le scritture; non c’interesserà la continuità con etichette o categorie già codificate, ma le modalità di lettura e d’intervento; non c’interesserà, infine, l’adesione a questa o quella prospettiva politica, ma la presenza o meno di una visione politica.

 Si scrive tantissimo, si sa, al punto che è ormai storica la battuta che ci sono più scrittori che lettori. Questo non è un segno di buona salute della letteratura. È segno, magari, del fatto che la crisi non c’è, non solo perché la letteratura è da sempre, per definizione e statuto, in crisi, cioè in movimento, in transizione, oltre qualcosa e alla ricerca di qualcosa, ma, appunto, perché il ‘fare letterario’ è diventato attività comune ed espansiva. Ridotta molto spesso, però, al mero intrattenimento e consumo, senza quelle prospettive di ricerca di senso attraverso lo stile e la lingua che distinguono la letteratura intesa in termini di qualità espressiva e solidità della struttura dalla produzione narrativa orientata verso il mercato della lettura di intrattenimento. Nella cultura anglosassone la demarcazione tra ciò che è letteratura e ciò che non lo è, è chiarissima: da un lato una letteratura capace di confrontarsi con grandi questioni, la rappresentazione della storia, la critica della società, l’espressione della soggettività, attraverso un lavoro con la lingua e lo stile che dia voce ad ambienti, personaggi, spazi e tempi, dall’altro lato una produzione che punta ad effetti speciali, a facile presa sul lettore, standardizzata nei modi narrativi e nelle scelte comunicative. Questa distinzione ci sarà utile per vedere in che modo gli scrittori si sono posti di fronte alle questioni politiche che abbiamo affrontato, a partire da un orizzonte tematico. Individuati, infatti, come temi o soggetti del ‘politicamente impegnato’ contemporaneo, la rappresentazione della storia, del precariato e della criminalità, si procederà a verificare come questi argomenti prendano forma, per capire anche se si collocano in un orizzonte letterario o meramente di consumo: progetto ambizioso, ma necessario per evitare i rischi di vischiosità e di accumulazione indiscriminata di una impostazione tematica che si rivela spesso troppo inclusiva e poco critica. I tre temi saranno discussi nei capitoli ad essi dedicati, ma va da sé che si tratta dei temi emersi nel dibattito pubblico degli ultimi dieci anni per affrontare tre grandi questioni: 1. come si racconta la storia d’Italia senza doversi limitare al puro referto documentario, dando voce e colore, come avrebbe detto Manzoni, alle passioni, o restituendo, per dirla col magnifico Gadda, noumeno al fenomeno? 2. Come ha assunto voce e rappresentazione letteraria la trasformazione del mondo del lavoro, col conseguente problema del rapporto tra la generazione interessata dalla precarizzazione del lavoro dipendente, e la narrazione di essa che la letteratura ha fornito? 3. In che modo e con quali strumenti la diffusione della narrativa gialla e noir, che ha ulteriormente popolarizzato la lettura, si è posta problemi di tipo conoscitivo, interpretativo e stilistico, al fine di fornire una rappresentazione e un discorso sul mondo anziché costituire solo ‘un genere d’intrattenimento’?

 Qualche parola la dedichiamo a spiegare la scelta di un titolo, che secondo noi meglio aiuta a comprendere il tipo di scritture di cui ci occupiamo in questo saggio. La Resistenza è stata il sogno di un’altra Italia, un’Italia non assente ma in divenire, già visibile e forse possibile. Nel capitolo 21 del Partigiano Johnny alla domanda del maggiore fascista «Ma ci sarà ancora un’Italia con voi?» i partigiani rispondono in coro: «Certamente. Un’altra Italia, un’Italia a modo nostro, ma sempre Italia». La Resistenza guardava al futuro anziché al passato, al contrario di quanto l’etimologia e usi recenti del verbo resistere potrebbero far pensare. Al futuro è rivolto anche il titolo di questo libro, che indaga tre tipi di scritture nella letteratura italiana di oggi, la scrittura della storia, la scrittura del precariato e la scrittura del mistero, per verificare se e come il discorso narrativo contemporaneo ha affrontato la questione dell’impegno politico. Non si tratta di temi o generi (anche se sono ovvie le sovrapposizioni con discorsi tematici e di genere), ma di scritture, appunto, perché ci siamo proposti di indagare non solo di cosa parlano, ma soprattutto come parlano di ciò di cui parlano le diverse scritture in oggetto: del resto non esiste contenuto indipendente o staccato dalla sua formalizzazione, a meno che non si voglia tornare a un idealismo che qui proprio non c’interessa. Si trattava di cercare una via letteraria all’impegno politico, al di là della questione se l’impegno ci sia ancora oppure no, già indagata nei saggi raccolti da Antonello e Mussgnug.

 Se il primo saggio, di Claudia Boscolo e Stefano Jossa, basandosi sulla distinzione tra «evento», ciò che è accaduto, e «fatto», la trasformazione di ciò che è accaduto nel racconto in quanto fatto dall’uomo, mette in rilievo la ricchezza problematica delle scritture che aprono nuovi punti di vista, spiazzano il lettore e ne spostano lo sguardo, attraverso meccanismi di smontaggio, interrogazione e corrosione delle narrazioni considerate o presentate come ufficiali all’opinione pubblica, il secondo saggio, di Monica Jansen, si concentra sulle antologie degli scrittori del precariato, per verificare se il lavoro di gruppo non abbia in questo caso un valore più forte proprio in relazione al tema trattato, fino a chiedersi «se l’esigenza posta alla narrativa (post o tardo postmoderna o anche ipermoderna) di evocare mondi per poterli cambiare non venga realizzata in modo più incisivo dai movimenti dei lavoratori della conoscenza e dello spettacolo uniti sotto lo slogan “un altro mondo è possibile”, già lanciato dal Genoa Social Forum nel 2001». Il terzo saggio, di Marco Amici, ricostruisce invece il passaggio delle narrazioni del crimine in Italia, attraverso il confronto con modelli stranieri e la dimensione del mercato, da un orizzonte di supposto intrattenimento puro a una funzione fortemente critica tanto sul piano sociale quanto su quello letterario, «su una linea di resistenza al giallo/noir democratico basata sull’adozione degli stilemi del giallo problematico e dell’hard-boiled, sul noir che si misura con la società e con la storia, sulla critica al racconto “convenzionale” del crimine fornito da media e istituzioni, sull’uso della sintassi del giallo per ripercorrere le vicende più controverse dell’Italia repubblicana».

 L’apertura di uno spazio altro e l’istituzione di una parola dialogica ci sembrano infine le zone da cui partire per individuare le coordinate di un impegno politico della scrittura, che ci sentiamo ora, nella prefazione scritta dopo i saggi, di identificare con la parola-chiave ironia. Descritta da Vladimir Jankélévitch come «cattiva coscienza dell’ipocrisia» e «atto dell’interrogare», e da Guido Almansi come ciò di cui «solo i notai e i fiscalisti hanno il diritto di esser[e] privi», l’ironia è diventata lo strumento privilegiato, come ha mostrato Linda Hutcheon in A Poetics of Postmodernism, di una letteratura che punti a evitare tanto la religione del feticcio realistico quanto la rinuncia a uno sguardo sul mondo.

La questione del realismo è centrale nel dibattito filosofico e letterario attuale, ma a noi interessava esplorare quella zona grigia del realismo che passa per la contestazione e problematizzazione del realismo. Due saggi recenti, di Arturo Mazzarella, Politiche dell’irrealtà, e di Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, hanno sostenuto che non c’è realismo senza rifiuto dell’idolo dei fatti, quello che Gadda chiamava «il residuo fecale della storia», perché la realtà – nella misura in cui di realtà si può parlare – è molto più articolata e complessa di una logica narrativa che pretende di spiegarla. Non solo siamo completamente d’accordo, ma vogliamo fare un passo ulteriore in senso politico, com’è intento di questo libro: la sfida politica della scrittura non sta nella restituzione testimoniale di ciò che è evidente o almeno narrabile, ma nell’apertura di uno spazio altro, che sposta lo sguardo e complica le cose. Se il lettore vuole fermarsi a ciò che lo sciocca, lo emoziona o lo scandalizza, può tranquillamente abbandonare la lettura. A chi si ferma diciamo comunque grazie per essere arrivato fin qui.

[Immagine: Alfredo Jaar, Abbiamo amato tanto la rivoluzione (gm)].

 

3 thoughts on “Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea

  1. Pezzo molto centrato e davvero al limite dell’odierno italiano, grazie per averlo condiviso. Prenderò il libro. Nel merito, mi pare che abbiate dismesso il “New Italian Epic” di qualche anno fa e che siate tornati al realismo come epicentro. Sarebbe interessante applicare le vostre metriche alla poesia. Saluti.

  2. “Due premesse. Primo, non c’è nessuna crisi della letteratura, delle sue istituzioni e della sua produzione. La letteratura è sempre stata marginale: ve l’immaginate un contadino greco dell’VIII secolo a.C. a leggere Omero? Oppure un marinaio pisano del XIV secolo a leggere la Divina Commedia (che a quel tempo Divina ancora non era)? O un pirata seguace di Francis Drake nell’Inghilterra del XVII secolo a meditare sul monologo di Amleto?”

    La crisi c’è ed è culturale e sistemica. Chi ha scritto, fa confusione tra cultura orale e scritta (rileggere Havelock) e tra produzione letteraria e diffusione del testo (rileggere Auerbach e Gurevič) che cambia di epoca in epoca.

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