di Arnaldo Testi
[Questo articolo è uscito su pagina99we e su Short Cuts America].
Che cosa succede quando il non-voto diventa un dato permanente del sistema politico? E’ davvero un dettaglio secondario? Gli Stati Uniti dell’ultimo secolo possono essere un esempio su cui riflettere. Lì la crisi di partecipazione elettorale si è consumata nel primo trentennio del ‘900, quando l’affluenza alle urne alle elezioni presidenziali è scesa dall’80% di fine ‘800 al 50% del primo dopo-guerra, per poi assestarsi intorno al 60%.
E’ questa storica caduta di affluenza un riflesso della stabilità del sistema, come hanno sostenuto parecchi politologi, una forma di consenso silenzioso? In parte sì. Ma questa spiegazione, apparentemente ragionevole, ha anche un risvolto paradossale. Perché a essere più felici sarebbero i cittadini che meno beneficiano del sistema stesso, quelli più poveri e meno istruiti, che costituiscono la maggioranza dei non-elettori. Un’altra spiegazione è che costoro non abbiano a disposizione opzioni politiche significative per la loro vita. Il fatto che quasi metà degli elettori non senta la necessità di esercitare quel diritto segnala l’esistenza di un regime di organizzazione dei canali di partecipazione, delle alternative politiche e di partito, della definizione delle issues che è estraneo ai loro bisogni.
L’assenza dalle urne non è socialmente neutra, tutte le ricerche sociologiche e storiche lo confermano. Tocca sì ogni strato della popolazione, ma acquista un carattere patologico in alcune sue fasce. La correlazione fra reddito e istruzione e partecipazione elettorale è diretta: nell’elettorato presidenziale del 2012 i più poveri hanno votato al 45% mentre i più ricchi all’80%. I meno istruiti hanno votato al 38%, mentre chi ha un’istruzione universitaria avanzata all’81%.
Le conseguenze? Prendiamo le politiche sociali. La questione si è posta, a livello federale, quando già la stratificazione sociale dell’elettorato era cosa fatta, negli anni ‘30 del New Deal e negli anni ‘60 della Great Society. Non dovrebbe sorprendere allora che il welfare americano sia nato limitato, riluttante a includere tutti, tutt’altro che universale. E non dovrebbe sorprendere che i tentativi di renderlo tale, almeno dal punto di vista della copertura dell’assistenza sanitaria, siano stati a lungo sconfitti. Oppure, come è accaduto con la riforma di Obama, siano stati oggetto di durissimi conflitti in Congresso e anche nelle urne da parte di un elettorato che universale non è.
È possibile introdurre o mantenere un sistema di welfare universale, non paternalistico, basato sul consenso attivo dei governati, laddove il suffragio non sia esercitato in maniera universale dai governati stessi? Ovvero, sono politicamente praticabili e difendibili nel mercato elettorale le scelte di governo che mirano a ridistribuire risorse pubbliche a favore dei cittadini più poveri – in una polis in cui i diretti beneficiari di quelle scelte siano ai margini del mercato politico? Di questi tempi, non sono domande solo per gli americani.
P.S. Sul New York Times del 2 dicembre 2014. Il senatore democratico di New York, Chuck Schumer, riflette sulla sconfitta del suo partito alle midterm elections di quest’anno. Dice che Obama e il partito hanno sbagliato a concentrare l’attenzione sulla riforma sanitaria che ha esteso il numero degli assicurati fra gli americani più poveri. Perché? “Appena un terzo dei non assicurati si è iscritto nelle liste elettorali [e dunque vota molto poco]. Indirizzare un tale enorme cambiamento a favore di una percentuale così piccola dell’elettorato non aveva alcun senso politico”. L’intero articolo è qui: “Is Obamacare Destroying the Democratic Party?”
[Immagine: Richard Estes, Checkout (gm)]